Cerca nel blog

martedì 20 luglio 2021

alla tenerezza delle anse del destino

 



La vita nuova 


La vita nuova

arriva taciturna

dentro la vecchia vita

arriva come una morte

uno schianto

qualcuno che spintona così forte

un crollo.

E' una scrittura tanto precisa

e netta da non lasciare dubbi

né sfumature di senso eppure

non dà direzioni né mete.

La vita nuova irrompe

come un vecchio che cade

sul ghiaccio, un pensiero

davanti ad un muro, la 

sirena di un'ambulanza.

Non ci sono feriti

né annunci di sciagura

solo noi da convincere

a lasciar perdere il miraggio

di una via rettilinea, di un

orizzonte, lasciarsi curvare, 

piegare alla tenerezza

delle anse del destino.

La vita nuova

è come un grande tuono

sbriciolato

poi poco a poco

l'erba si china

sotto la pioggia

la prende

la beve.


da "La bambina pugile" di Chandra Livia Candiani



ad Aurora, alla tenerezza delle anse del suo destino


Una lettera giunge inaspettata, come un messaggio in una bottiglia lanciato da un naufrago e trovato sulla battigia. Cammino al mattino presto con un'amica e mettiamo insieme passi e affanni. I tasti di un pianoforte rimangono da tempo abbandonati da chi va macinando miglia su miglia a prendersi cura dell'anziana madre. Una studentessa mi invia una sua poesia sulla solitudine, bella ed intensa. Come i segni che il marinaio accorto scorge guardando l'orizzonte, le cose accadono intorno a me. E mi spingono a sciogliere gli ormeggi.

 Il viaggio ricomincia oggi, il vento soffia e invita a  prendere la via del mare, perché è lì che bisogna stare, nel pieno dell'esistenza, anche quando le nubi possono oscurare la vista e le onde si fanno minacciose, lì dove tutto viene messo in gioco per davvero. Siamo 'gettati' nella vita, come marinai che tentino di governare la propria nave in mezzo ad una tempesta: alcune cose possiamo controllarle, altre sono al di fuori della nostra azione, anche della nostra comprensione. 

Forse dovremmo abituarci all'idea che il mutamento improvviso - la "vita nuova" come la chiama Chandra Livia Candiani - è una condizione ineliminabile dell'esistenza umana. Il mare in tempesta non è in questo senso solo un potente simbolo della precarietà e del rischio, ma dell'essenza stessa dell'umano. Per questo Pascal dice:  “ Vous êtes embarqués”, siete tutti imbarcati. Secondo il filosofo francese è necessario riconoscere  l’elemento “marino”, come il nostro ambiente naturale: "Noi voghiamo in un vasto mare, sospinti da un estremo all’altro, sempre incerti e fluttuanti. Ogni termine al quale pensiamo di ormeggiarci e di fissarci vacilla e ci lascia; e, se lo seguiamo, ci si sottrae, scorre via e fugge in un’eterna fuga. Nulla si ferma per noi. È questo lo stato che ci è naturale e che, tuttavia, è più contrario alle nostre inclinazioni. Noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un’ultima base sicura per edificare una torre che si innalzi all’infinito; ma ogni altro fondamento scricchiola e la terra si apre sino agli abissi (Pensieri, 1670)"

Chandra Livia Candiani nella sua poesia esprime sul piano estetico qualcosa di simile a ciò che Pascal aveva rappresentato in modo straordinario nei Pensieri. La vita nuova giunge taciturna: cioè non annuncia il suo arrivo, non avvisa prima di manifestarsi, non ha un araldo che prepari l'ospite al suo ingresso. Taciturna  vuol dire anche che non ha spiegazioni da dare, non si tratta di arroganza, probabilmente non saprebbe cosa dire. Nella stessa sequenza, la poetessa attinge ad immagini di rovina improvvisa: la morte, un crollo, una spinta molto forte di uno sconosciuto, uno schianto. Più che il carattere negativo e luttuoso di tali immagini va forse colto un altro aspetto: ciò che opera nelle azioni evocate da questi versi accade e basta, in modo imprevedibile e definitivo. Prima c'era una persona viva, ora un corpo senza vita; un grumo di rovine occupa lo spazio dove prima sorgeva una casa, un essere umano era in piedi e ora qualcuno lo ha gettato con forza per terra, senza apparente motivo. Si rialzerà forse, ma non sarà più la stessa persona.

La vita nuova irrompe come una sentenza letta in tribunale, come il referto di un esame clinico che offusca la vista e serra il cuore in una morsa di ghiaccio, come una lettera in cui ti dicono che a lavoro non devi tornare. Non servi più. Qui, in questa ora di punta dell'emozione umana, per usare una felice espressione di Marguerite Yourcenar, non hanno dimora i dubbi o le sfumature. Le cose accadono nella loro essenzialità, per questo non indicano mete da raggiungere, né annunciano sciagure incombenti: la loro sfera d'azione è il presente. E tuttavia esse non sono prive di un senso. La poesia - a questo proposito -  ricorre a due espressioni significative. Nella prima si esprime la possibilità che la vita nuova  operi per convincerci a lasciar perdere il miraggio/di una via rettilinea. Con la seconda la poetessa si concentra sul soggetto, che all'irrompere della vita nuova è chiamato a lasciarsi curvare,/piegare alla tenerezza/delle anse del destino

Il miraggio di una via rettilinea è un'illusione la cui fallacia è nota al profeta e al poeta fin da tempi antichissimi; il rapsodo autore dell'Iliade conosce bene la mutevolezza della sorte che trasforma in un attimo la moglie di un principe in una schiava, uomini valorosi in corpi che "a terra giacevano, agli avvoltoi più cari che alle loro spose" (Iliade, XI 162). Chi accumula impegni, energie e progetti per inseguire tale via rettilinea non è vittima solo di una deformazione della vista, come appunto accade nel miraggio. Agisce su di lui qualcosa di più, una coazione a muoversi, una spinta così irresistibile ad avanzare nella direzione dell'immagine illusoria che diventa impossibile stare fermi, indugiare, trattenersi. Tale carattere dell'esperienza umana - d'altra parte - è molto moderno: lo cogliamo  soprattutto al cospetto dello sconvolgimento portato della vita nuova - lo schianto, il crollo, un vecchio che cade sul ghiaccio. Ci troviamo d'un tratto disorientati su un sentiero sconosciuto, difficile e aspro, nel quale spesso siamo tratti in inganno, proprio come in un miraggio. Ci viene detto - in questi frangenti - che l'importante è muoversi, cambiare affetti, vita, città, il lavoro. Bisogna ritrovare la via rettilinea, spostarsi il più lontano possibile da ciò che abbiamo attorno.  La soluzione all'irrompere della vita nuova sembrerebbe un movimento attraverso le cose.

A qualcosa di diverso invece, con straordinaria intuizione - se pure non agisca in tale circostanza la grazia di una speciale illuminazione - invita la seconda immagine su cui ci siamo soffermati: lasciarsi curvare - piegare - alla tenerezza delle anse del destino. Colpisce in questi versi la nitidezza della visione: innanzitutto delle forme verbali che presuppongono un rimanere fermi, un indugiare meditativo, un raccoglimento teso ad esplorare la profondità di questioni decisive. La sfida dunque non si gioca sul piano del fare, ma del riconoscere, ovvero del conoscere ciò che ci appartiene già, che risiede nel più intimo recesso dell'animo, terra incognita per eccellenza.

Tuttavia la comprensione dell'atto di  lasciarsi piegare rischia di sfuggire nella società del narcisismo collettivo:  tale azione finisce oggi per ridursi al segno di una sconfitta accolta con fatalismo o di una sottomissione colpevole. Del resto, chi si lascia piegare - in fondo - non si arrende? Non subisce la vita in modo passivo? Il fraintendimento non potrebbe essere più grave, poiché colui che si rassegna rimane prigioniero del miraggio: sopraffatto dalla propria miseria non cessa di desiderare la via rettilinea. A questa sola rivolge in effetti i moti del suo animo, siano essi rimpianti amari o ambizioni fugaci. La ragnatela del miraggio si fa in questi casi soffocante, a volte in modo insopportabile. 

Diversa è la sorte - mi pare - di chi intraprenda la via del raccoglimento interiore, di chi si lascia piegare alla tenerezza delle anse del destino. Abbiamo poc'anzi richiamato l'attenzione sul fatto che questa immagine esprima innanzitutto la necessità di un quieto fermarsi, indispensabile per attingere ad una speciale modalità di ascolto. Ma ciò non può accadere, se il dramma della vita nuova non produce una sua dolorosa risonanza, che diventa parola poetica. Per certi versi è quanto suggerisce Theodor W. Adorno quando scrive in Dialettica negativa che "il bisogno di lasciar diventare eloquente il dolore è condizione di ogni verità". 

Nella poesia il risultato del curvarsi è un incontro inatteso con la tenerezza delle anse del destino. Tenerezza ... una parola che balza fuori dal suo verso per interrogarci quasi con sfrontatezza: come è possible trovarla tra le tortuose anse del destino, tra il dolore che ghermisce ed atterra? Quale tenerezza c'è in una casa che crolla o in una sentenza che non concede appello?  Non ha forse ragione Giobbe quando, gridando la sua disperazione contro Dio, dice: "sono una maschera di polvere e cenere" ? 

Credo che nei suoi versi Chandra Livia Candiani non alluda al fatto che sia concesso all'uomo di scorgere, dietro la durezza degli eventi con cui la vita nuova si manifesta,  un disegno superiore o provvidenziale. Tale scoperta è l'esito possibile di un altro cammino. Qui le anse del destino, anche quando svoltano in modo deciso e tornano subito ad avvolgersi su stesse, nel momento stesso in cui ci distolgono dall'ambizione alla via sicura, disvelano la propria natura: la qualità preziosa e celata della loro tenerezza. Ma ciò è vero solo in rapporto al miraggio della via rettilinea: poiché questo è solo un'illusione mortifera, un pozzo avvelenato, una distorsione del desiderio autentico che ci abita, mentre quelle sono l'espressione più sincera della vita. Per quanto sia difficile a volte lasciarsi portare dalla corrente di un fiume tortuoso, rinunciando ad inseguire l'orizzonte di una strada diritta, è l'inganno del miraggio che dovremmo temere. Esso si rivela una trappola, un meccanismo incapace di compassione, di benevolenza. Un nemico che non lascia scampo.