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mercoledì 16 settembre 2020

una cosa di nessuno

 


        Largo


O lasciate lasciate che io sia 

una cosa di nessuno

per queste vecchie strade

in cui la sera affonda -


O lasciate lasciate ch'io mi perda

ombra nell'ombra -

gli occhi 

due coppe alzate

verso l'ultima luce -


E non chiedetemi - non chiedetemi

quello che voglio

e quello che sono

se per me nella folla è il vuoto

e nel vuoto l'arcana folla

dei miei fantasmi -

e non cercate - non cercate

quello ch'io cerco

se l'estremo pallore del cielo

m'illumina la porta di una chiesa

e mi sospinge ad entrare -


Non domandatemi se prego

e chi prego

e perché prego -


Io entro soltanto

per avere un po' di tregua

e una panca e il silenzio

in cui parlino le cose sorelle -


Poi ch'io sono una cosa -

una cosa di nessuno

che va per le vecchie vie del suo mondo -

gli occhi

due coppe alzate

verso l'ultima luce -


Milano, 18 ottobre 1930


di Antonia Pozzi

martedì 17 marzo 2020

Io vengo da mari lontani




J.M. William Turner, Stormy Sea with Blazing Wreck, Tate Gallery


Il porto

Io vengo da mari lontani –
io sono una nave sferzata
dai flutti
dai venti –
corrosa dal sole –
macerata
dagli uragani –

io vengo da mari lontani
e carica d'innumeri cose
disfatte
di frutti strani
corrotti
di sete vermiglie
spaccate –
stremate
le braccia lucenti dei mozzi
e sradicate le antenne
spente le vele
ammollite le corde
fracidi
gli assi dei ponti –

io sono una nave
una nave che porta
in sé l'orma di tutti i tramonti
solcati sofferti –
io sono una nave che cerca
per tutte le rive
un approdo.
Risogna la nave ferita
il primissimo porto –
che vale
se sopra la scia
del suo viaggio
ricade
l'ondata sfinita?

Oh, il cuore ben sa
la sua scia
ritrovare
dentro tutte le onde!
Oh, il cuore ben sa
ritornare
al suo lido! 

O tu, lido eterno –
tu, nido
ultimo della mia anima migrante –
o tu, terra –
tu, patria –
tu, radice profonda
del mio cammino sulle acque –
o tu, quiete
della mia errabonda
pena –
oh, accoglimi tu
fra i tuoi moli –
tu, porto –
e in te sia il cadere
d'ogni carico morto –
nel tuo grembo il calare
lento dell'ancora –
nel tuo cuore il sognare
di una sera velata –
quando per troppa vecchiezza
per troppa stanchezza
naufragherà
nelle tue mute
acque
la greve nave
sfasciata –

20 febbraio 1933

da "Parole" di Antonia Pozzi

Accade, camminando per sentieri poco battuti, di imbattersi in luoghi dove altri viaggiatori ci hanno preceduto: a volte sono orme di passi a indicare che la via non è persa, a volte segni appena visibili, lasciati di proposito. E ci sono luoghi dove le strade dei viaggiatori si incontrano, una rifugio in alta quota o un bivacco, un nascosto approdo, un piccolo porto. Si raccontano qui i viandanti delle strade che hanno percorso, delle rotte che hanno in cuore di intraprendere o scoprire.

La poesia di Antonia Pozzi "Il porto" l'ho conosciuta così, nasce da un'amicizia maturata  tra le colline della Galizia, alla luce di albe sorte fra boschi e torrenti. Non conoscevo la dolorosa storia di questa poetessa, il cui nome non compare quasi mai nelle raccolte antologiche della poesia del '900. Anche se un posto lo meriterebbe. Di lei vorrei ricordare qui solo il suo grande amore per le montagne e ciò che Eugenio Montale di Antonia Pozzi ebbe a dire:
 «Anima di eccezionale purezza e sensibilità, che non poté reggere al peso della vita, Antonia Pozzi richiede una lettura che faccia vivere in noi gli sviluppi ch’essa conteneva e non espresse che in parte; […] voce leggera, pochissimo bisognosa di appoggi, essa tende a bruciare le sillabe nello spazio bianco della pagina» (dalla Prefazione all’edizione delle poesie di Antonia Pozzi intitolata Parole, Milano, Mondadori, 1948).