Veniva dalla città mia madre,
bella fanciulla della plebe.
Sposò un figlio di contadini,
proprietari terrieri.
Da quel matrimonio lontano
nacqui io, di notte,
in un anno lugubre,
mentre moriva padre Stalin.
Si dimenticarono presto
nel paese della mia nascita.
Il villaggio si mise a lutto,
per giorni e notti.
I seni delle madri
si svuotarono di quel poco latte.
Davanti al Segretario del Partito
i contadini piangevano disperati:
«Meglio se fosse morto mio figlio, che Lui» –
gridavano i padri.
I cani ulularono fino a notte fonda
per la tragedia accaduta.
Così sono venuto al mondo,
con il sangue spaventato d’un bambino
e l’augurio di morire
al posto di un dittatore.
di Ghëzim Hajdari, Poesie scelte, Edizioni Controluce
Non sono rimasti molti i luoghi come l'Albania in cui capita di fare esperienza di un altrove così vivo al tempo stesso nei paesaggi negli sguardi e nei modi delle persone. Ci si imbatte in storie lontane nel tempo, scuole sufi fondate da valorosi giannizzeri e in storie più vicine come quelle legate alle memorie dolorose di uno dei regimi comunisti più crudeli della storia. Le memorie dell'impero ottomano, in un possente castello, convivono gomito a gomito con quelle delle celle della spietata repressione di Henver Hoxa. Da una chiesa ortodossa si innalzano litanie bizantine, mentre dall'alto di un minareto - all'ora prescritta - si alzerà il canto del muezzin.
In Albania le storia, la geografia la linguistica sono un rompicapo. L'albanese costituisce ancora oggi un'enigma per gli studiosi che concordano sul fatto che essa appartenga alla famiglia delle lingue indoeuropee, ma su molte altre questioni rilevanti prevalgono le incertezze. Oltre a ciò in quel territorio sono presenti - mescolate come in un puzzle - numerose minoranze etniche e linguistiche dai nomi affascinanti: bosniaci di Shijak, serbi di Fier, valacchi, aromuni, greci, pomacchi. Un guazzabuglio di storie, costumi, tradizioni tramandate da secoli per via orale, come quella del Kanun, il codice di norme consuetudinarie che secondo alcuni risalirebbe ai tempi degli Illiri. Un codice in cui la vendetta di sangue e l'ospitalità sono contemplati con lo stesso riguardo.Un simile interessante intreccio tra antico e moderno, tra storia contemporanea e modelli simbolici atavici mi sembra percorra la lirica di Ghëzim Hajdari: da un lato il senso del destino ineluttabile che imprime il suo sigillo funesto sulla vita appena sbocciata, dall'altro la dimensione disumana della nuova oppressione. Il lutto ritualizzato ed esibito secondo costumi ancestrali non è più destinato alla comunità del villaggio, ma al commissario politico, che dall'intensità del pianto valuterà forse la fedeltà di ognuno ai recenti valori del partito. Ululano i lupi nella notte, come nelle antiche leggende raccontate dagli anziani davanti ai fuochi, mentre ai consueti auguri offerti per la vita appena iniziata si sostituiscono i tristi auspici di anime piegate da un giogo ferreo ed inesorabile.Per coloro che volessero approfondire la vita e la poesia di Ghëzim Hajdari, consiglio il sito L'ombra delle parole che metto in link qui:
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La morte di Stalin come il funerale di Beowulf: un popolo senza il suo eroe, senza il suo condottiero. Il poema anglosassone risale all'alto medioevo, i versi di Hajdari sono recenti, eppure nulla è cambiato nel sentire del popolo.
RispondiEliminaUn commento che il commissario politico avrebbe di certo apprezzato 😄
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