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giovedì 26 settembre 2024

Il sentimento più profondo si rivela sempre in silenzio

 

Glass flowers, parte del Harvard Museum of Natural History


Silenzio


Mio padre era solito dire,

“La gente superiore non fa mai lunghe visite,

non ha bisogno di vedere la tomba di Longefellow

o ad Harvard i fiori di vetro.

Fiduciosa di sé come il gatto -

che la sua preda conduce in disparte

con l’afflosciata coda del topo che gli oscilla come un

laccio da scarpe dalla bocca -

talvolta apprezza la solitudine,

e può venir spogliata del linguaggio

dal linguaggio che l’ha deliziata.

Il sentimento più profondo si rivela sempre in silenzio;

anzi, non in silenzio, ma in ritegno.”

Né egli era falso nel dire, “Fate della mia casa il vostro

albergo.”

Perché gli alberghi non sono residenze.

                       Marianne Moore, Le poesie, Adelphi 1991

                

                                    per chi volesse leggere la versione originale :


   My father used to say,

“Superior people never make long visits,

have to be shown Longfellow’s grave

or the glass flowers at Harvard.

Self-reliant like the cat —

that takes its prey to privacy,

the mouse’s limp tail hanging like a shoelace from its

mouth —

they sometimes enjoy solitude,

and can be robbed of speech

by speech which has delighted them.

The deepest feeling always shows itself in silence;

not in silence, but restraint.”

Nor was he insincere in saying, “Make my house your inn.”

Inns are not residences.                   

                        

                

Sono debitore a Cristina Campo di molte importanti scoperte, tra queste, non di poco conto, è quella della poetessa americana Marianne Moore, alla cui opera il lettore italiano può accedere attraverso la traduzione curata da Lina Angioletti e Gilberto Forti per  Adelphi. Nel momento in cui mi sono dedicato a capire meglio l'idea di poesia della scrittrice americana, mi è stata utile una frase, trovata sul sito della casa editrice, con la quale la Moore spiegava l'arte di un altro importante poeta, Wallace Stevens; questi era riuscito a cogliere il significato profondo della poesia nel momento in cui parlava di essa come di “una violenza interna che ci protegge da una violenza esterna”». La poesia - così mi sembra di capire - sarebbe dunque un'atto creativo che opera una qualche forma di violenza sul linguaggio abitudinario e consueto, sulle parole comuni, quotidiane, trasformandole in qualcosa di completamente diverso. E questa specie di incantesimo, operato sulla parola, brucia e incide ferite profonde, erige una barricata con detriti e rovine, con ammassi di oggetti dimenticati, con l'arrugginita ferraglia abbandonata per le strade, un bastione innalzato contro la violenza del mondo di fuori ... Mi piace quest'immagine, perché restituisce all'atto poetico il suo carattere di urgenza vitale, di voce impellente e non consolatoria, che non nasconde il giogo della necessità che incombe su ogni uomo.

Proprio quella «violenza interna» ha consentito a Marianne Moore di dare vita ad un’opera segnata ovunque da una vocazione esigente per la forma perfetta, tanto che la poetessa riuscì ad imporsi all’ammirazione di poeti così diversi come Ezra Pound, Thomas S. Eliot, William Carlos Williams e Wystan Hugh Auden. Oggi la sua opera poetica - secondo la presentazione adelphiana - è universalmente considerata una pietra preziosa, inscalfita e durissima, che continua a rifulgere di una luce lieve e limpida, inconfondibile

In una prospettiva non diversa, Eliot sottolineava che la poesia della Moore è tutt’altro che “libera” (come potrebbe sembrare anche nei versi che qui leggiamo, quasi privi di rima) e che molti dei suoi versi seguono schemi formali non solo rigidi, ma talvolta complicati, quasi fossero accompagnati dal movimento elegante di un minuetto. Cristina Campo, per descrivere più o meno la stessa cosa, usava invece il termine di arpeggi repentini. A tal genere di forma preziosa e lieve mi sembrano appartenere anche alcuni passaggi della poesia di oggi: le immagini della tomba di Longfellow o dei fiori di vetro, in cui mi sembra di cogliere il simbolo di una realtà, raffinata e prestigiosa, ma ormai priva di vita e di calore. Una luce lieve e limpida sfiora anche i versi che descrivono la qualità peculiare della gente superiore che

... può venir spogliata del linguaggio

dal linguaggio che l’ha deliziata

Il lettore più attento avrà colto qui non solo la studiata concentrazione di figure retoriche: il chiasmo, l' anadiplosi e l'antitesi, ma anche - sul piano del significato - il fatto che la spoliazione del linguaggio prepara paradossalmente la rivelazione del verso più decisivo ed intenso  dell'intero componimento: 

Il sentimento più profondo si rivela sempre in silenzio

L'opera della scrittrice americana - come dicevamo - ha avuto molti estimatori, ma quando mi sono soffermato sulla poesia "Silenzio" subito mi è venuto in mente quando Cristina Campo scrive che la Moore, speciosa e inflessibile come tutti i visionari, persegue niente di meno che l’ardua e meravigliosa perfezione: una divina ingiuria da venerare nella natura, da toccare nell’arte, da inventare gloriosamente nel quotidiano contegno». E quel contegno di cui la Campo scrive non è forse in sintonia con il restraint della nostra poesia? non sono forse ritegno, moderazione, contegno, sinonimi di quell'atteggiamento interiore al tempo stesso riservato e regale  che distingue la gente superiore ? 

Non è facile dire cosa produca quelle risonanze emotive così evidenti nei versi della poetessa americana, ma per me è qualcosa che ha a che fare con quanto ha scritto Nadia Fusini a proposito del fatto che la ricerca poetica della Moore raggiunge la sua forza espressiva più autentica attraverso uno stile costruito sulla lingua parlata, su un’espressione viva, corporea, che nasce dal silenzio e nel silenzio si articola, prende forma. Come il gatto, che con la preda ancora tra le fauci, si ritira nel suo angolo solitario.

Certo, Silenzio è una lirica non priva di un suo carattere enigmatico, che può lasciare perplessi coloro che nei versi vogliono disbrogliare ogni immagine simbolica, spiegare ogni metafora.  Riconosciamo con facilità che la voce dell'io lirico appartiene ad una figlia, pronta a condividere il ricordo degli insegnamenti impartiti da suo padre riguardo alla natura della gente superiore.  Tale voce - lo sappiamo - non coincide con quella della scrittrice, che il padre lo conobbe a stento, dato che era stato ricoverato in una clinica psichiatrica prima della sua nascita.  Secondo quanto ha rivelato la stessa Moore la poesia nasce da una conversazione con la signorina A.M. Homans, professoressa di Igiene al Wellesley College, la quale stava ricordando le parole di suo padre. Tuttavia alcune cose continuano a sfuggirci: ad esempio non possiamo dire con chiarezza a quale genere di persone il padre si riferisca quando parla di gente superioreSecondo me le allusioni alla gente superiore non si riferiscono ad un ceto sociale privilegiato: nessuna immagine in effetti ci rimanda agli agi della ricchezza o del benessere materiale. La superiorità di cui si parla nella poesia mi sembra piuttosto legata ad una qualità interiore, quella di chi non ha bisogno di ricevere elogi a buon mercato, seguendo le mode comuni. La tomba del magniloquente poeta Longfellow o le perfette ricostruzioni dei fiori realizzate in vetro per il Museo di Storia Naturale di Harvard, in questo senso, potrebbero alludere ad una maestria ormai esangue, ad una passione ormai inaridita dal tempo, sebbene da molti ancora tenuta in stima; entrambi si rivelano oggetto di attenzione per mera consuetudine, perché è così che si fa, luoghi che somigliano a magneti potenti in grado di attrarre a sé l'ampia famiglia umana dei conformisti. 

Più agevole - probabilmente - si rivela il compito di interpretare la similitudine del gatto, che tenendo in bocca la propria preda, con giusto riserbo si apparta solitario. Gli studiosi ritrovano qui un elemento ricorrente dell'arte della poetessa americana, la sua convinzione quasi religiosa che nella forma fisica, nel corpo animale (che è «stile di vita» e modo di essere dettato dalla Natura, o da Dio), è depositata una saggezza, un senso della realtà immediata e cosmica che noi non possediamo o che è divenuto labile. Quando la Moore si sprofonda nella contemplazione di un animale, - è stato scritto - tutte le sue facoltà più forti e più sottili si risvegliano, si animano. Così, nei versi di "Silenzio" l'impresa felina, pur ridimensionata dalla nuova similitudine che mette in relazione la coda del topo con un comune laccio di scarpe, spinge il lettore a comparare la sobria fierezza del gatto alla vanagloria e alla superbia di tanti successi volgarmente ostentati. 

Nei riguardi dell'insegnamento del padre, in chiusura della poesia, la voce lirica mostra una approvazione non priva di ambiguità, riconoscendo la sostanziale sincerità dell'invito a prima vista garbato:  fate della mia casa un albergo. La spiegazione di tale apprezzamento è tuttavia meno scontata, perché si fonda su una distinzione di non immediata comprensione, quella tra albergo e residenza, ovvero tra un luogo accogliente ed ospitale, ma adatto a visite fugaci, improvvisate, rapide, ed un altro luogo, costruito per soggiorni prolungati, colmo di arredi familiari e di comodità pensate per una lunga permanenza. La casa, in tal senso, potrebbe essere una metafora della dimensione più nascosta e profonda dell'animo, alla quale è bene concedere l'accesso ad alcune, scelte persone, in vista di frequentazioni intense e piacevoli, ma necessariamente brevi, come quelle di un albergo. Le parole pronunciate dal padre, dunque, non sono false, poiché accolgono il visitatore con sincero spirito di ospitalità, ma con la riserva implicita  - puntualizzata dal commento della figlia - che la visita non si trasformi in un'indiscreta invadenza. A mio avviso, ma qui siamo davvero nel campo di ipotesi non dimostrabili, la simbologia di questi ultimi versi rimanda di nuovo a quella rara virtù del riserbo, del contegno, del silenzio con cui è necessario preservare il proprio mondo interiore, lì dove sono custoditi tesori preziosi, inestimabili e tuttavia assolutamente fragili. Non a tutti destinati.



venerdì 14 agosto 2020

questo passo d'addio

 


Devota come ramo

curvato da molte nevi

allegra come falò

per colline d'oblio,


su acutissime làmine

in bianca maglia d'ortiche,

ti insegnerò, mia anima,

questo passo d'addio...



        di Cristina Campo


"Passo d'addio" è il titolo che Cristina Campo volle dare ad una breve raccolta di undici poesie apparse nel dicembre del 1956 e poi confluite insieme ad altri componimenti sparsi nel volume "LA TIGRE ASSENZA" pubblicato per i tipi di Adelphi.  


Il titolo non è casuale in quanto il passo d’addio è l’ultimo passo di danza che "l’allieva disegna prima di lasciare l’accademia: immagine quindi dell’ultimo canto con cui congedarsi da una stagione di vita terminata prima di iniziarne una nuova", così Rossella Farnese su analisi-del-canzoniere-passo-daddio-di-cristina-campo-1923-1977-a-cura-di-rossella-farnese/comment-page-1/ . 

Anche in questa poesia, posta a chiusura del libretto campiano,  l'immagine del "passo d'addio assume un rilievo fondamentale: per la rima significativa che la lega all'ultima parola della prima stanza - oblio -  ed anche per i puntini di sospensione che seguono ad indicare appunto la vita nuova che l'attende.

La discrezione elegante del passo d'addio è preparata nella prima stanza da due diverse similitudini: nella prima la poetessa dice di essere devota come ramo/curvato da molte nevi. Colpisce la visione della neve e del bianco (tale elemento coloristico attraversa in effetti l'intera raccolta e ritorna nella seconda stanza), che non è forse  assenza di colore e di vita, paralisi del sentire, atrofia dello stupore, ma al contrario forza che spinge alla concentrazione, al ripiegamento su ciò che è imperdibile. Se nel linguaggio comune curvato spesso finisce per definire il piegarsi controvoglia ad un destino avverso, nel verso in questione il termine si carica di significati altri, si riveste di una potenza allegorica che muove dalla compostezza di antichi gesti rituali: la postura china verso il cuore del monaco esicasta, il capo ripiegato del presbitero di fronte al turibolo da cui sale l'incenso, la notte in ginocchio della veglia d'armi del cavaliere. Curvarsi è in tal senso assumere il proprio posto nel mondo, diventare ciò che si era destinati a diventare per propria vocazione naturale. Certo c'è anche - in questo curvarsi - tutto il peso e la fatica che ogni vita comporta per ritrovare il proprio centro, per "spogliarsi di ogni ornamento" e ricondurre "tutto quanto è possibile verso la vita e la risposta alla vita, dallo stato di narcosi che stringe tutto sempre più da vicino" (così scriveva Cristina Campo all'amica Margherita Pieracci Harwell nel febbraio del '58.

Nella seconda similitudine ritroviamo di nuovo uno stato interiore espresso da un aggettivo - allegra - accostato ad un elemento naturale, il fuoco di un falò la cui fiamma riluce nel buio delle colline d'oblio. Ritrovo in questa potente immagine qualcosa della lirica di apertura dell'Antologia di Spoon River intitolata "La collina", nella quale l'io lirico, osservando le tombe d'intorno, ripete più volte il nome di coloro che sono morti:  dove sono? ... dove sono?  Sulla "collina" giacciono uno accanto all'altro i morti del passato: onesti e dissoluti, saggi e folli,  uomini importanti e vagabondi, la sepoltura anonima del giudice Somers e l'imponente urna di marmo di Chase Henry, l'ubriacone del villaggio.


Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley,

l’abulico, l’atletico, il buffone, l’ubriacone, il rissoso?

Tutti, tutti, dormono sulla collina.

[...]

Dove sono Ella, Kate, Mag, Edith e Lizzie,

la tenera, la semplice, la vociona, l’orgogliosa, la felice?

Tutte, tutte, dormono sulla collina.


Una morì di un parto illecito,

una di amore contrastato,

una sotto le mani di un bruto in un bordello,

una di orgoglio spezzato, mentre anelava al suo ideale,

una inseguendo la vita, lontano, in Londra e Parigi,

ma fu riportata nel piccolo spazio con Ella, con Kate, con Mag –

tutte, tutte dormono, dormono, dormono sulla collina.

                          (traduzione di Fernarda Pivano)

Tutti sono dimenticati allo stesso modo sulla collina, ma a tutti Edgar Lee Masters vuole lasciare la parola perché raccontino la propria storia, piena di una nuova ed insolita dignità, meritevole di un'attenzione imprevista. In modo simile, nella poesia di Cristina Campo, la luce del falò che rischiara il buio delle colline dell'oblio sfida l'imperio della rassegnazione al nulla e il dominio della necessità.  Ma questo fuoco è anche allegria: la poetessa dice infatti di essere allegra come falò: rischiara l'oscurità e in ciò è la sua gioia. 

C'è un passaggio di una lettera della Campo, citato da Margherita Pieracci Harwell in "Il sapore massimo di ogni parola", l'articolo che chiude il volume "La tigre assenza", che - credo - aiuti a comprendere meglio questa l'immagine poetica del falò, dell'allegria e delle colline d'oblio. Parlando della propria vocazione alla poesia, Cristina Campo nel luglio del 1958 scrive infatti : " ... sto nel buio, ma vorrei fare qualche cosa che agli altri sembrasse nato alla luce." Ecco proprio in questi versi mi sembra di intravedere la soglia di quella vita nuova, di cui Salomone - si dice - abbia scritto

"Lasciamo dovunque i segni della nostra gioia

perché questo ci spetta, questa è la nostra parte."  (Sapienza 2.9)

Ecco seguiamola ancora per un attimo la poetessa mentre si appresta a disegnare il suo ultimo passo d'addio. 



giovedì 30 gennaio 2020

e restare in se stesso nulla vuole

Campi dei non beati


fotografia di Ansel Adams


Sazio son io della mia sete d'isole
del morto verde, dei muti greggi;
divenire voglio una riva, un piccolo golfo,
un porto di belle navi.

Da uomini vivi con caldi piedi
percorsa vuol sentirsi la mia spiaggia;
in bramosia d'offerta la sorgente
mormora e a gole vuol dar refrigerio

E tutto in sangue estraneo vuol levarsi
e in un diverso fiammeggiar di vita
annegare il suo anelito
e restare in se stesso nulla vuole.


di Gottfried Benn, da "Morgue" (Einaudi, traduzione di Ferruccio Masini)


Quando nel 1912 Gottfried Benn pubblica la raccolta "Morgue" ha ventisei anni, è un medico militare che esercita la sua professione a Prenzlau e a Berlino. Ferruccio Masini ha descritto l'atmosfera di quegli anni come un "periodo segnato dal sovvertimento dei vecchi schemi umanistico- liberali ad opera di una informe tempesta d'energie - l'espressione è di Musil. 

La Morgue, il tavolo operatorio, i corpi dissezionati,  le vite che questi resti impalliditi raccontano, sono lo strumento di una esigenza di svelamento della realtà che non procede solo nel segno della demolizione del linguaggio lirico e dei suoi clichés, dei valori del passato e delle sue liturgie. Tali immagini in Benn diventano, secondo Masini "i geroglifici di una negazione per la quale non occorre il grido, ma basta il gesto, e che non cerca figura né anima. "

“Imperdonabile Benn, - scrive Cristina Campo - e non certo nel suo sacco cinerognolo di peccatore politico [… ], bensì nella sua stola purpurea di confessore della forma: l’autore di alcune poesie solo possibili al magistero del più alto maestro in molti anni di lingua tedesca, poiché di questo si tratta, alla fine. Imperdonabile Benn, che afferma non dover essere il poeta lo storico del proprio tempo, anzi il precursore al punto da ritrovarsi di millenni alle spalle di quel tempo, l’antecessore al punto da poter profetare dei più lontani cicli avvenire. Testimone soltanto di ciò che immobilmente perdura: un guerriero, una stella, una morte, un cespuglio di sorbo".

La poesia Campi dei non beati è posta ad apertura dell'edizione Einaudi di Morgue, che raccoglie - ad opera del grande germanista Ferruccio Masini - i componimenti più significativi del periodo 'espressionistico' di Gottfried Benn, periodo al quale appartengono le cinque poesie che precisamente costituiscono il ciclo di Morgue. In questa poesia già dal titolo possiamo cogliere all'opera lo scrupoloso rovesciamento della prospettiva avviato dal poeta tedesco: non le "isole dei beati" dei poeti classici, non i campi Elisi di Virgilio sono qui la fonte d'ispirazione e l'oggetto del desiderio: Sazio son io della mia sete d'isole dice piuttosto il poeta. I luoghi verdeggianti e la mitezza delle greggi appaiono come un colore di morte e assenza di voce.

divenire voglio una riva, un piccolo golfo...un porto di belle navi. A tale immagine si sovrappone quella della spiaggia percorsa da uomini vivi, poi quella  della sorgente desiderosa di offrire refrigerio. 

Non si dovrebbe tuttavia scorgere in questi versi un accenno ad una visione solidaristica della vita o la fiducia in una forza immanente nella natura che inclina ogni aspetto di essa verso il suo scopo. Nel mondo di Benn - come nota il curatore dell'edizione italiana di Morgue - "sembrano salvarsi, sull'esile filo di una pietà non destinata all'uomo, solo le cose umili e dolci", mentre il tutto brama di annegare il suo anelito e non c'è nulla che voglia restare in se stesso. Ciò che è vivo vuole spegnere ogni desiderio di altra vita, se non quella 'assolutamente 'altra' che arde in un diverso fiammeggiar e nessuna cosa che contribuisce a formare tale tutto pare paga della condizione in cui si trova, del destino che gli spetterebbe.






giovedì 21 novembre 2019

una tribù di parole mutilate


Tristano e Isotta, Salvador Dalì

Anelli di cenere

(a Cristina Campo)

Sono le mie voci a cantare
perché non cantino loro,
gli imbavagliati grigiamente nell’alba,
quelli vestiti da uccello sconsolato nella pioggia.

C’è, nell’attesa,
un mormorio di lillà che si rompe.
E c’è, quando arriva il giorno,
una divisione del sole in piccoli soli neri.
E quando si fa notte, sempre,
una tribù di parole mutilate
cerca asilo nella mia gola,
perché non cantino loro,
i funesti, i padroni del silenzio.

             di Alejandra Pizarnik, traduzione di Roberta Buffi


Alejandra Pizarnik 
Alejandra Pizarnik nacque a Buenos Aires nel 1936, in una famiglia di immigrati ebrei di origine russa e slovacca. Nel 1954 si iscrisse alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Buenos Aires ma non terminò i suoi studi. Avida lettrice già in giovanissima età, pubblicò il suo primo libro, intitolato La terra più estranea, nel 1955. A questo seguirono L’ultima innocenza, nel 1956, e Le avventure perdute, nel 1958. Tra il 1960 e il 1964 visse a Parigi, dove collaborò con diverse riviste e quotidiani. A quel periodo risale la sua amicizia con Julio Cortázar, André Pieyre de Mandiargues, Cristina Campo e Octavio Paz, che scrisse il prologo alla sua quarta raccolta di poesie intitolata Albero di Diana (1962). Nel 1964 tornò a Buenos Aires e pubblicò le sue opere più conosciute: I lavori e le notti (1965), Estrazione della pietra della follia (1968) e L’inferno musicale (1971). Nel 1954 Pizarnik iniziò a scrivere un diario che l’accompagnò fino agli ultimi giorni della sua vita (dal sito della casa editrice LietoColle che ha pubblicato la traduzione delle sue poesie).
Nel 1972, all’età di trentasei anni, Alejandra si tolse la vita, nella stessa città in cui era nata.
Poesia completa raccoglie tutte le poesie di Alejandra Pizarnik; il volume è stato curato da Ana Becciu, poetessa e traduttrice letteraria.

 L’epistolario con Cristina Campo, alla quale la poesia Anelli di cenere  è dedicata, si compone  di una trentina di lettere – non ci sono pervenute quelle della Pizarnik – in francese, è stato scoperto, una decina di anni fa, da Stefanie Golisch, autrice di studi su Uwe Johnson e Ingeborg Bachmann, traduttrice verso il tedesco, tra gli altri, di Antonia Pozzi, Charles Wright e delle poesie di Cristina Campo.
In un'intervista che potete leggere per intero qui:  http://www.pangea.news/molti-vivono-al-margine-del-loro-destino-le-lettere-inedite-di-cristina-campo-ad-alejandra-pizarnik/  la Golisch scrive: "quando Cristina e Alejandra si conoscono, si conoscono già. Per quanto apparentemente diverse se non opposte, c’è qualche cosa che le accomuna e cioè l’ossessione del proprio io. Delle sue ferite e delle sue potenzialità. La convinzione che tutta la bellezza della vita si gioca dentro ogni singolo essere umano. Cristina Campo, la raffinata scrittrice e studiosa, molto discreta con la sua vita volutamente appartata, la sua naturale eleganza di altri tempi, che disprezzava i cosiddetti circoli letterari, dicendo di se stessa  di aver scritto poco e di aver voluto scrivere ancora meno e Alejandra Pizarnik, l’eterna ragazza dai tratti geniali, psichicamente labile che si compiaceva nel ruolo di uno sfrenato Rimbaud al femminile e che voleva fare del suo corpo il corpo della poesia. Sostiene George Bataille che quando due persone s’innamorano, sono le loro ferite che s’innamorano. Il compimento dell’amore sarebbe dunque il momento del massimo dolore: quando le due ferite si posano una sopra l’altra. Probabilmente ciò che Alejandra e Cristina avvertono istintivamente una nell’altra è la radicalità con cui la vita si misura in loro secondo i gradi d’intensità. Sotto la soglia della massima intensificazione di ogni attimo, nulla vale. Ciò che conta non sono tanto i mezzi della ricerca – abbandono incondizionato ai piaceri del mondo o elevazione spirituale – quanto il bisogno di bruciare vivi. Cristina Campo sublimerà la sua natura seguendo l’ideale della perfezione – a tutti i livelli –, per Alejandra significa: resistere giorno per giorno nella spietata battaglia tra l’io e il mondo. Perché soltanto a chi non diserta e non si risparmia, a chi si espone coraggiosamente alle sfide mortali che la vita gli lancia, sarà concesso di formulare – per dirlo con un’espressione di Ingeborg Bachmann – wahre Sätze,  frasi vere."


mercoledì 30 ottobre 2019

Solo resiste al tempo



Solo resiste al tempo
quel che si fa
col tempo.
E quello che si fa
con l’eternità?
La poesia viene
quando restiamo  
nell’inesauribile
compagnia della solitudine.
Viene come un sùbito
taglio, dove si mischiano
con fredda febbre,
sangue con sangue,
due separati
mondi.


di Hèctor Murena, traduzione di Cristina Campo





Héctor A. Murena  (1923–1975), è stato uno scrittore argentino. Si è cimentato con la saggistica, la poesia e la traduzione, ha avuto un ruolo di fondamentale importanza nella diffusione nella cultura di lingua spagnola di pensatori come  Jürgen Habermas, Theodor Adorno e Walter Benjamin. In Italia la casa editrice Irradiazioni ha pubblicato Il peccato originale dell'America, Homo Atomicus e La metafora e il sacro.

L’itinerario dello scrittore argentino venne a incontrarsi con quello di Elémire Zolla,  nell’esclusivo cenacolo romano che trovò espressione nella rivista “Conoscenza religiosa” per la quale  scrissero intellettuali come  Henry Corbin, Cristina Campo, Quirino Principe, Guido Ceronetti, Pietro Citati, Jorge Luis Borges, Eugenio Montale, Giuseppe Sermonti.  Se in Homo atomicus  lo scrittore argentino è riuscito a fornire nuove prospettive alla critica della civiltà di massa, è nei saggi raccolti in La metafora e il sacro che è possibile individuare la cifra della sua ricerca poetica. A partire da quanto dice Goethe nei versi finali del Faust:

 "Tutto il perituro non è altro che immagine”

e che è un po' la chiave di volta che sorregge l'ispirazione della poesia tradotta con straordinaria sensibilità da Cristina Campo.