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domenica 23 ottobre 2022

... quando Amor mi spira







Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore 

trasse le nove rime, cominciando 

‘Donne ch’avete intelletto d’amore’».                            


E io a lui: «I’ mi son un che, quando 

Amor mi spira, noto, e a quel modo 

ch’e’ ditta dentro vo significando».                                


«O frate, issa vegg’io», diss’elli, «il nodo 

che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne 

di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!                               


Io veggio ben come le vostre penne 

di retro al dittator sen vanno strette, 

che de le nostre certo non avvenne;                             


e qual più a gradire oltre si mette, 

non vede più da l’uno a l’altro stilo»; 

e, quasi contentato, si tacette.    


Ma dimmi se io vedo qui colui che trasse fuori

la nuova poesia, cominciando (la canzone)

"Donne ch'avete intelletto d'amore".


Ed io a lui: "Io sono uno che quando             

Amor mi ispira, annoto, e tutto ciò che             

egli detta nel cuore, vado trascrivendo.


 Oh fratello, ora vedo - disse egli - il nodo che

 trattenne il Notaio (Jacopo de' Lentini), Guittone e me

  al di là dello stile nuovo e dolce che io ascolto !

 Io vedo bene come le vostre penne (la vostra poesia)

 si tengono strette dietro a colui che detta

 cosa che con le nostre penne non accadde.


e chi più si inoltra a comprendere questa differenza, 

non  può vedere differenza maggiore 

tra l'uno e l'altro modo di  fare poesia", e come appagato, tacque.



            Dante, Purgatorio XXIV canto


Il passo è molto noto: sulle scoscese vie del monte del Purgatorio si incontrano due poeti, Dante e l'anima di Bonagiunta da Lucca, un poeta della generazione precedente a quella degli stilnovisti, un poeta stimato ed apprezzato. Questi appare desideroso di interpellare il fiorentino con una domanda che dà l'avvio ad uno dei dialoghi più famosi della Commedia: sei proprio tu ? sei colui che ha aperto la strada a nove rime, ad una nuova poesia, quando hai composto la canzone ’Donne ch’avete intelletto d’amore’ ?  

Sia detto per inciso, il lettore moderno dovrebbe soffermarsi di più su questo prodigioso endecasillabo, in cui le donne smettono di essere lo specchio meraviglioso della creatività divina e si svincolano dal ruolo, pur nobilissimo del miracolo degno delle più grandi lodi, rivelando infine che proprio nella natura femminile risiede, in forma specialissima, la facoltà di intendere la virtù d'Amore. 

Ma torniamo alla domanda di Bonagiunta, nella quale scorgiamo il carattere di un'urgenza non solo intellettuale, dal momento che subito ci si fa chiaro che non si tratta di una mera curiosità: capire, sciogliere il garbuglio di dubbi non ancora lasciati alle spalle vuol dire infatti trovare il senso autentico dell'impegno di un'intera esistenza. Non di dotte ed astratte discussioni di letterati quindi si tratta, ma del bilancio del proprio faticoso cammino.  La risposta di Dante, come sanno coloro che su questi versi hanno affinato, in faticose veglie, la propria vocazione, ha sollecitato l'indagine di molti studiosi. Di questi troppo lungo sarebbe anche trascrivere l'elenco dei nomi, figuriamoci dare conto dei loro contributi. E tuttavia proviamo anche noi a comprendere cosa si celi nei versi  dell'exul inmeritus a proposito delle sue nove rime. 

Lo facciamo oggi attraverso le riflessioni di una scrittrice piuttosto nota, Elena Ferrante. L'autrice de L'Amore molesto si è soffermata sull'episodio della Commedia nel saggio che chiude "I margini e il  dettato", un suo recente libro, nel quale sono raccolte alcune lezioni attorno alla "smania di scrivere", ovvero alle difficoltà, alla necessità e all'impegno di scrivere. Il saggio si intitola significativamente La costola di Dante, in riferimento all'importante ruolo svolto da Beatrice nell'ordito strutturale del poema: a lei infatti non solo è affidato il compito di salvare Dante dalla selva oscura, ma soprattutto sono le sue parole vere, sulla cima del Purgatorio, a prendere il posto delle ornate parole di Virgilio come via di salvezza.

Secondo la scrittrice nell'episodio di Bonagiunta si deve vedere soprattutto la "messinscena di un fallimento": i versi del XXIV canto pongono in luce il fatto che l'esperienza umana dell'alfabeto è un'arte esposta alle delusioni più cocenti. La portata di tale insuccesso, inoltre, finisce per provocare nel lettore una speciale commozione per le parole pronunciate dal rimatore Bonagiunta. Nel dialogo tra i due poeti  si manifesta la dote più stupefacente del poeta fiorentino, l'immedesimazione; è vero che egli si pone come l'orgoglioso fondatore di un nuovo stile, ma è anche nel contempo il sorpassato Bonagiunta, ne veste le intime contraddizioni, fa sue le esitazioni dell'altro. Una descrizione nella Commedia - sottolinea Elena Ferrante - non è mai solo questo, ma sempre un "trapianto di sé, un salto rapidissimo del cuore dall'interno all'esterno"
Mi sembra che tale linea interpretativa getti una luce nuova e molto interessante sull'episodio della Commedia. Indizi della sua validità sono a mio avviso il fervore concitato della domanda, ma dimmi... e il vigore espressivo di quell'avverbio: issa, ora, che colloca la presa di coscienza in un sentimento che potremmo 'tradurre' nella formula solo adesso, un hic et nunc che giunge pur sempre oltre il tempo della vita mortale. Nello stesso modo forse è da considerare l'espressione quasi contento, nella quale il valore attenuativo di quasi sottolinea il carattere drammatico dell'esperienza del poeta lucchese, appagato nella sua richiesta di verità, eppure non del tutto quietato. Grato per la luce ricevuta ed insieme non ancora del tutto libero da un'ombra di pensoso rammarico.

La malinconica constatazione di incapacità confessata da Bonagiunta - nota Elena Ferrante - ci pone una domanda: "perché uno riesce e altri falliscono?" A leggere i versi del canto sembrerebbe soprattutto una questione di velocità: coloro che rimasero al di là del nodo, fallirono non per il fatto che mostrarono poca attenzione a ciò che Amore spira e detta, ma in quanto non riuscirono a stargli dietro, come un segretario al quale il suo signore detti le sue parole troppo velocemente. In effetti, il prestare orecchio allo spirare e al dittare dentro, perché la penna significhi e noti, è sì l'enunciazione di una poetica, ma soprattutto l'esplicitazione di una difficoltà. Necessari sono forse una pratica assidua, un esercizio estenuante, l'acribia dello studium, oppure la tensione che sempre comporta ogni ars? Sono queste cose che vanno apprese e coltivate? Insomma quale natura possiede il vincolo che impedì a Bonagiunta di tener dietro alla dettatura di Amore? 

Secondo la scrittrice per rispondere a questa domanda è necessario ritornare a quel XIX capitolo della Vita Nuova, in cui Dante racconta di come in lui si manifestò, per la prima volta, la volontade di scrivere in una forma nuova, nuove poesie, nove rime appunto. Quel momento è descritto come il sopraggiungere di un'intuizione in base alla quale - è il poeta della Commedia a parlare - " la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa". Questo dunque il nodo che trattenne i rimatori precedenti al di qua del dolce stile, il motivo del cruccio dell'anima di Bonagiunta, il fardello in cui è avvolto il suo camminare quasi contento verso la cima del monte, dove potrà finalmente deporlo per sempre. 

Lo voglio sottolineare di nuovo: i versi del canto non ci chiamano, sul ciglio impervio di quel sentiero, a fare da spettatori ad una disputa accademica, a lambiccamenti eruditi. Ben altro è in gioco: la poesia per Dante, in quel frangente in cui la lingua parlò quasi come per se stessa mossa, si è manifestata come strumento volto a salvare l'uomo, emancipandolo dalla condizione di miseria ed afflizione morale per condurlo alla pienezza di sé. Il coinvolgimento del lettore, la sua partecipazione esistenziale, a cui abbiamo prima accennato, è  di continuo ricercata, ma in quanto essenziale alla possibilità di una svolta nella conduzione della sua vita. Mario Luzi, a questo proposito, ha notato come la poesia per Dante è costantemente mossa da un principio essenziale di rigenerazione. Dalla lettura del poema si deve ricavare un modello attivo di comportamento, la decisione di una condotta futura, che guidi il lettore ad uno stato di grazia. Lo stesso Pietro, il figlio maggiore di Dante, nel suo commento ha lasciato scritto che l'ammaestramento tratto dalla Commedia è diretto "ad aprire gli occhi della mente per considerare dove ci troviamo, se sulla giusta via verso la patria celeste, oppure no". Né bisogna dimenticare che la coscienza del proprio ruolo, quello cioè di profeta (nel senso originario di colui che parla per un altro) investito da Dio di una missione vitale, è connessa con il dolore dell'esilio, anzi nasce dall'esperienza dell'ingiusto esilio. Come ha notato, con straordinaria sensibilità, Attilio Momigliano, Dante fa dell'esilio "il malinconico piedistallo del giudice solenne dell'umanità".

Se tuttavia la nuova poesia, ispirata da Beatrice, è quella che nasce quando la lingua prende a parlare quasi per se stessa mossa, quale rilievo possono avere allora le disciplina, lo studio, il tirocinio di chi è chiamato a significare ciò che l'Amore rivela? Come tenere insieme l'alto compito affidato alla missione del poeta-profeta e questo carattere spontaneo del suo parlare in poesia? Non c'è dubbio - ha ragione Elena Ferrante - che Dante è diverso dai poeti precedenti (e in ciò risiede parte del suo successo) perché aveva riconosciuto l'insufficienza della scrittura, ne comprendeva i limiti, i rischi, consapevole com'era che tale insufficienza è parte della caducità dell'umano. 

Grati davvero ad Elena Ferrante per aver richiamato l'attenzione sul dialogo tra Dante e Bonagiunta, mi sembra che ci si possa spingere ancora un po' nella fatica di intellegere. Siamo lì, sulle balze del Purgatorio, indugiando ad ascoltare le parole appassionate dei due poeti ed ecco, ciò che possiamo portarci via è la presa di coscienza della penuria delle possibilità espressive della scrittura? A prima vista un misero bottino. Se non che abbiamo cominciato a sospettare che solo a partire dal riconoscimento di questa penuria, solo costruendo sugli effimeri pilastri su cui si regge, è possibile far vivere la poesia che ci salva dai quieti sobborghi dell'appagamento, l'espressione è di Emily Dickinson, che ha, a mio avviso colto perfettamente la natura della poesia nei versi che qui riporto.

Potesse un Labbro mortale intuire

Il Carico primordiale

Di una Sillaba pronunciata

Si sgretolerebbe sotto quel peso -


La Preda di Zone Sconosciute -

Il Saccheggio del Mare

I Tabernacoli della Mente

Che hanno detto a me la Verità -

Proprio di recente qualcosa del genere ce lo ha mostrato anche la poesia The secret Muse di Roy Campell, di cui ci siamo occupati da poco (potete leggerla insieme al mio commento nel blog): nei versi del poeta sudafricano appare chiaro lo scarto inevitabile tra ciò che la Musa vuole svelare e ciò che il pensiero può trattenere, così come avviene nella nuova poesia della Commedia, tra ciò che Amore ditta dentro (quanto è essenziale questo dentro!) e la penna dello scrivano che prova invano a stargli dietro.  Non ci si può accostare alla comprensione delle nove rime a mio avviso, se non a partire dalla comprensione che l'irruzione di tale poesia ha in sé qualcosa di inaccessibile, di abissale persino. 

La poetica del Paradiso, la sua drammaticità è in questa tensione tra l'irruzione dell'eterno ed i limiti dell'umano, tra il desiderio di raggiungere la luce e la constatazione che solo un'ombra è quella che si può ridire. Infine solo guardando negli occhi dell'amata Beatrice, solo nello sguardo di Uno che ci ama,  è possibile fissare gli occhi al sole oltre nostr'uso (potete scrivere uno con la minuscola e l'idea funziona lo stesso).

Nel momento in cui ci apprestiamo a concludere, lasciamo la parola a Dante che queste cose, enormi e sconvolgenti, le dice proprio all'inizio della cantica del Paradiso, in due terzine tra le più belle dell'intero poema:

Nel ciel che più de la sua luce prende 

fu’ io, e vidi cose che ridire 

né sa né può chi di là sù discende;                                 


perché appressando sé al suo disire, 

nostro intelletto si profonda tanto, 

che dietro la memoria non può ire.    

domenica 16 gennaio 2022

qualcosa nella vita che alla mezzanotte si conforma

 




Quando le luci si spengono

poco per volta ci si abitua al buio

come quando il vicino, sollevando alto

il lume, sigilla il suo addio –


Dapprima – i passi si muovono incerti

nel buio improvviso –

poi – lo sguardo si abitua alla notte –

e senza incertezze affrontiamo la strada –


Ed è così nelle oscurità più fonde –

in quelle notti lunghe della mente

quando non c’è luna che sveli un suo segno –

quando non c’è stella che – dentro – si accenda –


E i più coraggiosi – per un poco brancolano –

e battono – a volte – dritti in fronte –

contro il tronco di un albero –

ma poi imparano a vedere –


E allora è la Notte che si trasforma –

oppure un qualcosa nella vita

che alla mezzanotte si conforma –

E la vita procede quasi senza incertezza.


Emily Dickinson (da "Silenzi", a cura di Barbara Lanati)


la versione originale ... molto molto bella:


We grow accustomed to the Dark —

When Light is put away —

As when the Neighbor holds the Lamp

To witness her Good bye —


A Moment — We Uncertain step

For newness of the night —

Then — fit our Vision to the Dark —

And meet the Road — erect —


And so of larger — Darknesses —

Those Evenings of the Brain —

When not a Moon disclose a sign —

Or Star — come out — within —


The Bravest — grope a little —

And sometimes hit a Tree

Directly in the Forehead —

But as they learn to see —


Either the Darkness alters —

Or something in the sight

Adjusts itself to Midnight —

And Life steps almost straight.



Mi hai sorpreso qualche giorno fa. Leggo sempre con interesse le tue cose, seguo i tuoi interventi, apprezzo la cura che metti nelle tue analisi, mai superficiali, sempre capaci di raccontarmi qualcosa di nuovo su terre lontane e antichi conflitti dimenticati. All'improvviso mi hai sorpreso con un messaggio inaspettato, senza giri di parole. 

Questa poesia è per te.

Racconta di quelli che come noi si mettono per strada, anche se hanno la notte nella mente e dentro nemmeno una stella brilla. Brancoliamo per un po' - certo - e a volte ci facciamo male. Poi impariamo a vedere. Ma forse non dipende da noi ... è la Notte che cambia,  qualcosa nella vita prende le misure all'oscurità, qualcosa - piano piano - si conforma alla Mezzanotte. Questo il segreto.

domenica 14 marzo 2021

da allora vaghiamo





In molti e inspiegabili luoghi
Proviamo una Gioia -
Inspiegabile, pure, ma sincera come la Natura
O la Deità -

Arriva, senza sorprendere
Si dissolve - allo stesso modo -
Ma lascia una sontuosa Indigenza -
Senza Nome -

Profanarla con una ricerca - non possiamo
Non ha casa essa -
Né noi che l'abbiamo una volta ghermita -
Da allora vaghiamo.


Emily Dickinson


Per il momento è tutto...

E' giunta l'ora di tirare la nostra barca in secco, lavorare un po' sullo scafo, aggiustare vele e corde, ma soprattutto studiare la rotta su nuove mappe, interrogare il cielo con un vecchio cannocchiale.
Il viaggio verso la stella tenue non si ferma di certo. 

Se volete lasciare un saluto per il nocchiere che finora ha tenuto il timone, lasciate un vostro messaggio, lui non lo direbbe mai, ma credo che gli farà piacere.



martedì 9 giugno 2020

i tumuli della memoria




L'acqua, la insegna la sete
La terra, gli oceani trascorsi.
Lo slancio - l'angoscia -
La pace - la raccontano le battaglie -
L'amore, i tumuli della memoria -
Gli uccelli, la neve.

di Emily Dickinson


Conosciamo il mondo intorno a noi dalle tracce imperfette che attraversiamo, da ciò che ci manca. Così il marinaio, dopo aver vegliato al respiro dell'oceano, riconosce il profilo della terra che lo attende. E forse non è nei racconti delle battaglie che il cuore del guerriero si ricorda della pace lasciata chissà dove, tanto tempo prima? Non sfugge a questa legge l'amore: sono i tumuli della memoria ad insegnare cosa esso sia per davvero.

Come le lievi impronte che un uccello disegna sulla neve fresca. 

domenica 8 marzo 2020

Ogni vita converge a qualche centro


Fotografia di Andrew Bergh


Ogni vita converge a qualche centro,
Dichiarato o taciuto.
Esiste in ogni cuore umano
Una mèta

Ch'esso forse osa appena riconoscere,
Troppo bella
Per rischiare l'audacia
Di credervi.

Cautamente adorata come un fragile cielo,
Raggiungerla
Sarebbe impresa disperata come
Toccar la veste dell'arcobaleno.

Ma più sicura quanto più distante
Per chi persevera:
E come alto alla lenta pazienza
Dei santi è il cielo!

Non l'otterrà forse la breve prova
Della vita, ma poi
L'eternità rende ancora possibile
L'ardente slancio.

di Emily Dickinson, traduzione di Margherita Guidacci

Disorientamento è forse uno dei termini più efficaci per esprimere lo stato presente della nostra era di passioni tristi; tracciare la rotta è difficile quando incerta è la mèta, la fine del viaggio un enigma incomprensibile, se non una beffa crudele. Come un faro che si accende in una notte priva di stelle la poesia di Emily Dickinson rischiara la vista. Il primo verso richiama per contrasto il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia di Giacomo Leopardi: un nomade del deserto, Vecchierel bianco, infermo,/Mezzo vestito e scalzo, domanda alla silenziosa Luna: "ove tende/Questo vagar mio breve" ? Alla fine della strofa seguente la risposta chiarisce 

dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei precipitando, il tutto obblia

Davvero ineguagliati e struggenti i versi di questa seconda strofa, in cui tutta la vita di ogni cuore umano è rappresentata e - ancor più importante - amata. Ecco, il pastore dell'Asia che

Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro, ...

... ed ecco gli uomini e le donne di questi nostri ultimi giorni, che corrono e si affrettano verso un treno che li porti lontano dalla paura, dal pericolo, sì anche da ciò che è giusto. Ecco il soldato, nella canzone di Roberto Vecchioni, corre verso Samarcanda su un cavallo veloce, figlio del lampo, degno di un re, per scappare dalla morte che ovviamente lo attende alle porte della città.
Spesso il nostro viaggio è così: un vagare senza scopo o un fuggire verso ciò che ci attende: perdersi tra le valli di un deserto o precipitarsi verso l'unico luogo che vorremmo evitare. 

 La lirica di Emily Dickinson  si apre con un verso che ha una intensità emotiva enorme: 

Ogni vita converge a qualche centro

Ogni vita umana ha un senso, una direzione, una méta. Forse l'animo appena la riconosce, tanto è bella che non sembra possibile rischiare tutto per raggiungerla.

Raggiungerla
Sarebbe impresa disperata come
Toccar la veste dell'arcobaleno

disperata, ma ancora possibile ... ancora

giovedì 12 dicembre 2019

Io vivo nella Possibilità





Io vivo nella Possibilità,
una casa più bella della Prosa,
di finestre più adorna,
e più superba nelle sue porte.

Ha stanze simili a cedri,
impenetrabili allo sguardo,
e per tetto la volta
perenne del cielo.

L’allietano visite dolcissime.
E la mia vita è questa:
allargare le mie piccole mani
per accogliervi il Paradiso

di Emily Dickinson (traduzione di Margherita Guidacci)

Forse è in questa lirica di Emily Dickinson che è possibile trovare la più convincente definizione di poesia... il luogo della possibilità. Una casa ricca di finestre e superba nelle sue porte, stanze che si innalzano come cedri del Libano verso la volta perenne del cielo.

Se c'è qualcosa che vale la pena fare abitando nella possibilità questo è mettersi in ascolto, ricevere ciò che è più grande e che discende dall'Alto...

allargare le mie piccole mani
per accogliervi il Paradiso



domenica 1 settembre 2019

Vincendo me col lume del sorriso


Nella poesia Il sorriso di lei , pubblicata qualche giorno fa, Emily Dickinson elabora un'immagine particolarmente coinvolgente: una donna il cui viso non è diverso da tanti altri sorride, ma questo sorriso stringe in una morsa il cuore con una trafittura della gioia (secondo la felice espressione di C. S. Lewis),

... come quando
un uccello si alza in volo, vuole cantare,
poi ricorda il Proiettile che l'ha ferito

Lo spirito vorrebbe cantare, è per questo che si vola, ma una ferita dolorosa sopraggiunge...

Allora si aggrappa a un ramo sottile,
convulso, e la musica intanto si schianta
come perle finite in un pantano.   

Leonardo da Vinci, Sant'Anna, particolare
L'uccello si tiene ad un ramo sottile mentre si agita in modo convulso e il suo canto si schianta giù, come qualcosa di prezioso e raro che finisce nel fango. Tutta la forza della poesia si gioca sull'istante in cui convivono insieme, sul sorriso di lei, il desiderio del canto e la consapevolezza del dolore che sopraggiunge.

Leonardo da Vinci ha colto nel volto di Sant'Anna questa particolare qualità che il sorriso di una donna assume talvolta, quasi velata da un presentimento di dolore o da una pensosa consapevolezza.
Maria tende le braccia verso suo figlio che gioca con un agnello (prefigurazione della sua futura Passione), mentre Anna osserva la scena con un sorriso indimenticabile: presagisce che la vita di quella sua figlia non sarà come quella delle altre fanciulle, vede forse la spada che le trafiggerà il cuore? l'angoscia della Via dolorosa e del Golgota ? Sorride Anna, di fronte a un mistero che le sfugge o forse già intuisce che quella storia non finirà in un sepolcro vuoto?

La suggestione che ci spinge dietro a questo strano sorriso, in cui convivono dolore e felicità ci conduce ora ad una delle cose più belle della letteratura italiana: il sorriso di Beatrice nell'opera poetica di Dante.Tra i numerosi luoghi in cui il poeta fiorentino si sofferma su tale immagine, è in questa terzina, tratta dal canto XVIII del Paradiso che essa appare espressa in modo mirabile:

Vincendo me col lume del sorriso
ella mi disse: "Volgiti e ascolta
chè non pur ne' miei occhi è paradiso.

Si tratta, a mio personalissimo avviso, della più intensa, struggente e potente visione della gentilissima. Non a caso a proposito di questi versi il Momigliano ha scritto che la terzina "è scritta con una mano d'incomparabile leggerezza, e conserva alla Beatrice beata, insieme con la luminosità del paradiso, un'ombra, meno di un'ombra, di compiacimento femminile".
Già nella Vita Nuova tuttavia, al capitolo XXI nella parte finale del sonetto Ne li occhi porta la mia donna Amore, Dante si soffermava sul riso della donna:

Quel ch'ella par quando un poco sorride
non si può dicer né tenere a mente,
sì è novo miracolo e gentile

Gabriel Rosettti, Dante’s Dream at the Time of the Death of Beatrice

Il sorriso della gentilissima è ineffabile, la mente non può trattenerlo, è una cosa miracolosa, diversa da tutte le altre alle quali l'uomo è abituato. Non è un caso tuttavia che proprio questo sorriso sia collocato da Dante in una sezione particolare della Vita Nuova, immediatamente prima del racconto della morte del padre di lei, del suo dolore amarissimo e del suo pianto pietoso. Episodio seguito immediatamente da quello di un'esperienza personale di infermità fisica ed interiore del poeta, che culmina nel sogno-visone della morte dell'amata.
Non è possibile, nell'esperienza esistenziale ed artistica di Dante, separare il sorriso di Beatrice dalla sua morte prematura, il suo potere miracoloso dalla disperazione che la sua scomparsa terrena produce. L'alzarsi in volo dallo schianto del canto.

Il novo miracolo di questo sorriso è lo stesso a cui allude William Blake quando in una sua poesia scrive che esso:

... a fondo nel profondo del cuore penetra,
E affonda nelle midolla delle ossa -
E mai nessun Sorriso fu sorriso,
Ma solo quel sorriso solo,

Sorriso che dalla culla alla fossa
Sorridere si può una volta sola,
Quando è sorriso,
Ha fine ogni miseria.

Proprio così ... ha fine ogni miseria.


venerdì 30 agosto 2019

Il sorriso di lei



Leonardo da Vinci, Sant'Anna con la Vergine, il Bambino e l'agnello


                                                                                                                 
 Il sorriso di lei non era diverso dagli altri

Stessa forma, fossette ai lati

Eppure ti faceva stare male,

come quando un uccello 

si alza in volo, vuole cantare,

poi ricorda il proiettile che l'ha ferito

Allora si aggrappa a un ramo sottile,

convulso e la musica intanto si schianta

come perle  finite in un pantano.                                                                                                 



                                                               di E. Dickinson

sabato 22 giugno 2019

Non avessi visto il sole



di Emily Dickinson, Non avessi visto il sole 



Se non avessi visto il sole

avrei potuto sopportare l'ombra,

ma la luce ha reso il mio deserto

ancora più selvaggio.