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giovedì 30 novembre 2023

storia di Lara, la dea Muta

Palazzo Massimo, Museo Nazionale Romano, Niobide ferita


Spesso al verificarsi di eventi tragici e sconvolgenti sentiamo la spinta a definire i caratteri di tali eventi sotto la specie della novità che sbalordisce, cerchiamo nel male che si manifesta accanto a noi le prove di una natura difforme, mostruosa, ma restiamo sgomenti quando questo male si fa prossimo, vicino, imprevedibile. In simili circostanze capita a volte che l'animo si volga ai racconti del mito, a quell'antica sapienza che da essi non smette di scaturire.
C'è una storia che ci giunge da Roma  e che mi è tornata in mente in questi ultimi giorni. A raccontarcela è un poeta latino, Ovidio, in un'opera che aveva scritto per riabilitarsi agli occhi di Augusto,  I Fasti. Ovidio aveva ragione di essere preoccupato, perché l'imperatore era decisamente irritato con lui per i versi leggeri, irriverenti, spesso licenziosi che era solito pubblicare in deciso contrasto con il programma culturale ufficiale. Con i Fasti il poeta intendeva probabilmente dare prova di poter sostenere, con un'opera seria, l'ambizioso programma di restaurazione morale voluto da Augusto. Quanto poi sia stata sincera l'adesione del poeta a tale programma e quanto adeguati gli strumenti espressivi in suo possesso è questione su cui la critica non ha cessato di confrontarsi. 

La storia della ninfa Lara prende avvio sullo sfondo più volte esplorato dai racconti tradizionali degli amori di Giove: il dio si è acceso di passione per la ninfa Giuturna, ma questa continua a sfuggirgli. Lui la insegue, le tende agguati, soffre umiliazioni non degne di un dio così grande, aggiunge Ovidio. Nulla sembra funzionare, troppo svelta ed agile si rivela la ninfa, allora il re degli dei convoca  tutte le ninfe che vivono nel Lazio e ordina loro di aiutarlo nella sua impresa. Spiega pure - a sua giustificazione - che, in cambio della grande voluttà da lui provata giacendo con Giuturna, questa avrebbe ottenuto grandi vantaggi. Magna voluptas per il dio, magna utilitas per la dea; non c'è che dire, uno scambio equo...

Tutte le Ninfe ascoltano i compiti che vengono loro assegnati, annuiscono. Ci si può forse opporre al volere del re degli dei? E' a questo punto che comincia la vicenda della ninfa Lara, sorella dunque di Giuturna e figlia di Almo (nume tutelare di uno degli affluenti del Tevere). Il nome Lara, ci spiega Ovidio, alluderebbe alla sua propensione a parlare invano, alle chiacchere incontrollate. Lara insomma non è una che riesce a stare zitta.

...Spesso Almo le aveva detto :

"Figlia, frena la lingua, ma lei non la frena.

E appena giunge al lago della sorella Giuturna,

"fuggi le rive" dice, e riferisce le parole di Giove.

Poi visita anche Giunone , e commiserando le spose, 

le dice: "Tuo marito ama la Naiade Giuturna".

La sequenza di questa azione non sembra del tutto coincidere con la caratteristica della femmina pettegola e troppo loquace. Non è per mancanza di autocontrollo che Lara rivela ciò che le era stato ordinato di tacere: la ninfa va in cerca della sorella con una evidente precipitazione, non altrimenti si spiega la congiunzione simul ac. Giuturna viene a conoscere i piani predatori di Giove non per una confidenza imprudente, ma grazie ad un atto voluto, che ha il colore della ribellione, o almeno a noi piace vederla così.

La reazione è feroce, crudele. 

Giove s'infuria, le strappa la lingua che lei

aveva usato senza moderazione, e chiama Mercurio;

"Conduci costei ai Mani - è luogo adatto ai silenziosi -;

ninfa, certo, ma sarà ninfa della palude inferna".

La punizione inflitta alla ninfa ribelle segue la legge del contrappasso, ma indica anche il destino futuro di Lara con un'aggiunta beffarda, sprezzante: la relegazione negli Inferi non priva la dea del suo rango, ma ne sancisce la sottomissione assoluta, giacché lei, privata della voce, abiterà un luogo adatto ai silenziosi. Ovidio a volte ci sorprende: il poeta della leggerezza elegante, dell'ironia distaccata, improvvisamente crea un'immagine di pura incandescenza espressiva, come questa della ninfa che si aggira nella palude infera, luogo adatto per chi non può parlare più. 

Gli ordini di Giove si compiono. Un bosco accoglie i viandanti:

si dice che allora il dio che la guidava si sia acceso di lei.

Le usa violenza, lei implora con lo sguardo invece

di parole, e cerca invano di parlare con le labbra mute.

La sventura di Lara si manifesta ora in modo completo, nulla di lei trova scampo, nulla le è risparmiato. Mercurio le usa violenza e di nuovo il poeta del disimpegno ci sorprende con i suoi versi, che si avvicinano, come di raro avviene nella letteratura antica, a mostrare l'orrore dello stupro: lo sguardo implora, l'espressione del volto chiede quella compassione che la sua lingua muta non può esprimere. L'ultima immagine è straziante, Lara cerca ancora scampo in parole che dalla sua bocca non possono uscire, l'animo pretende dal corpo quello che è impossibile, ma non può fare a meno di continuare a chiedere. Lo sguardo di Mercurio come non è stato capace di incontrare quello implorante di Lara così non si accorge nemmeno di quelle che parole che disperatamente provano a farsi voce. Invano.

Ed ecco  i versi originali di Ovidio

 forte fuit Nais, Lara nomine; prima sed illi
     dicta bis antiquum syllaba nomen erat,                               600
ex vitio positum. saepe illi dixerat Almo
     'nata, tene linguam': nec tamen illa tenet.
quae simul ac tetigit Iuturnae stagna sororis,
     'effuge' ait 'ripas', dicta refertque Iovis.
illa etiam Iunonem adiit, miserataque nuptas                          605
     'Naida Iuturnam vir tuus' inquit 'amat.'
Iuppiter intumuit, quaque est non usa modeste
     eripit huic linguam, Mercuriumque vocat:
'duc hanc ad manes: locus ille silentibus aptus.
     nympha, sed infernae nympha paludis erit.'                        610
iussa Iovis fiunt. accepit lucus euntes:
     dicitur illa duci tum placuisse deo.
vim parat hic, voltu pro verbis illa precatur,
     et frustra muto nititur ore loqui,
fitque gravis geminosque parit, qui compita servant               615
     et vigilant nostra semper in urbe Lares.

                            Ovidio, Fasti, II, vv.599-616

lunedì 4 maggio 2020

Io la so la scienza dei commiati


Dante Gabriel Rossetti, Studio per Delia

TRISTIA

Io so la scienza dei commiati, appresa
fra lamenti notturni e chiome sciolte.
Stan ruminando i buoi, dura l’attesa:
ultim’ora di veglia delle scolte
cittadine; e mi piego al rito della notte
dei galli, quando – in spalla il carico di strazio
del viaggio – guardavano lontano umidi occhi,
e pianto di donne al canto si univa delle muse.

Chi, alla parola «commiato», sa quale
distacco giungerà per noi fra poco,
che cosa presagisce lo strepito dei galli
mentre la fiamma arde sull’acropoli,
e perché all’alba di una vita nuova,
mentre il bue rumina pigro nell’andito,
il gallo, araldo della vita nuova,
sulla cinta muraria sbatte le ali?

E amo il filato, amo la tessitura:
il fuso ronza, va su e giú la spola.
Guarda: scalza, leggera come fosse peluria
di cigno, Delia già incontro ti vola.
O gramo ordito del vivere nostro,
che povera è la lingua della gioia!
Tutto fu in altri tempi, tutto sarà di nuovo;
solo ci è dolce l’attimo del riconoscimento.

Ma cosí sia: giace in un lindo piatto
d’argilla una traslucida figura,
come una pelle stesa di scoiattolo,
e a scrutare la cera una ragazza è curva.
Non sta a noi trarre auspici sul greco Erebo:
la cera è per le donne ciò ch’è il bronzo per l’uomo.
Noi sfidiamo la sorte dei guerrieri;
destino è ch’esse traendo auspici muoiano.

 di Osip  Mandel’štam, 1918 (da "Ottanta poesie", Einaudi editore, traduzione di Remo Faccani)


Tristia è la lirica che dà il nome alla seconda raccolta di versi di Mandel´štam. Fin dal titolo rimanda all'opera di Ovidio, scritta durante l'esilio a Tomi sul Mar Nero, dove il poeta latino era stato relegato da un decreto di Augusto.  
Lo stesso Ovidio è l'eroe lirico della poesia qui presentata: è l'ultima sua notte a Roma. Il tempo scorre lentamente, si carica di fatica, come il ruminare dei buoi, sulle spalle è già pronto il fardello della sacca, il carico di strazio; è l'ultima guardia, le sentinelle stanche forse già attendono la fine del loro travaglio. Un pianto di donne si unisce al canto delle muse, il rumore delle ali di un gallo sulle mura, il fuoco arde sull'acropoli. Ma chi conosce il senso di questi segni che annunciano la vita nuova  che attende?

Ecco una donna che, scalza e leggera, corre incontro al suo amato, porta il nome di Delia (la donna cantata nei carmi di Tibullo), un istante solo lungo l'ordito della vita: che povera è la lingua della gioia!  Già... quanto sono inadatte le parole a raccontarla.

Il tempo del commiato è trascorso, le donne proveranno a trarre auspici sul futuro, su pelli di scoiattolo e la cera fusa che si rapprende sull'acqua, il fuso riprende a filare, sola resta la strada...

Noi sfidiamo la sorte dei guerrieri

domenica 19 gennaio 2020

ama e non si rende conto d'amare


Guido Reni Atalanta ed Ippomene

Il mito di Atalanta è molto antico, compare già in un frammento di Esiodo, Omero poi conosceva il racconto della caccia di Calidonia e della triste fine di Meleagro, in cui la bella cacciatrice - ma questo Omero preferisce tacerlo - ebbe un ruolo fondamentale. La storia di Atalanta, è ripresa infine da Ovidio nel decimo libro delle Metamorfosi; per bocca della stessa Venere veniamo a sapere del modo in cui finalmente la giovane figlia di Scheneo giunse alle nozze e all'amore. 

Atalanta rifiuta il matrimonio, le sta stretto il ruolo di moglie, piuttosto che allevare figli preferisce vagare per monti e selve armata di arco e frecce. La sua bellezza però attirava pretendenti da tutta la Grecia. Ad essi imponeva una dura condizione: una corsa avrebbe deciso il loro destino, le nozze per chi l'avesse vinta, la morte per chi risultasse sconfitto. Al luogo della gara era giunto anche il giovane e bellissimo Ippomene, che vinto dal desiderio per la bella cacciatrice decide di accettare la sfida. Atalanta sa che il giovane non ha alcuna speranza e per la prima volta prova un sentimento a cui non sa dare nome ...

Ippomene tuttavia riuscirà vittorioso, grazie ad alcune mele d'oro, avute in dono da Afrodite, dalle quali emanava un fascino irresistibile e che decideranno la gara. E' proprio questa la scena raffigurata da Guido Reni nel quadro esposto al Museo Nazionale di Capodimonte.

Lasciamo la parola ora ad Ovidio

Mentre parla, la figlia di Scheneo lo guarda illanguidita
e più non sa cosa preferire, se vincere o essere vinta.
E pensa: 'Quale dio, nemico della bellezza, vuol perdere
 costui, spingendolo a chiedere la mia mano, a rischio
della sua vita preziosa? Non penso di valere tanto!
E non è la sua bellezza a toccarmi (anche se toccarmi potrebbe),
ma il fatto che è ancora un ragazzo. Non mi turba lui, ma l'età sua.
Ma poi, è tanto prode da non tremare al pensiero della morte?
è veramente il quarto nella discendenza dal nume del mare?
e ancora, mi ama e brama di sposarmi sino al punto
di morire, se una sorte crudele dovesse negarmi a lui?
Vattene, straniero, finché puoi; rinuncia a queste nozze di sangue.
Matrimonio crudele è il mio. Nessuna rifiuterà di sposarti,
troverai sicuramente una fanciulla saggia che ti desideri.
Ma perché per te mi angoscio, dopo averne mandati a morte tanti?
Vedrà lui! Che muoia dunque, se la strage di tanti pretendenti
non gli è servita di lezione e in tale disgusto tiene la vita.
Ma allora morirà, perché con me voleva vivere,
e sconterà con una morte ingiusta la colpa d'avermi amato?
La mia vittoria non sarà certo tale da suscitare invidia.
Ma non è colpa mia. Avessi tu almeno il senno di rinunciare!
o, visto che non ragioni più, fossi almeno più veloce!
Oh, che sguardo virgineo in quel suo viso di fanciullo!
Povero Ippòmene, come vorrei che tu non m'avessi mai visto!
Meritavi di vivere; e se più fortunata io fossi,
se un destino inesorabile non m'impedisse le nozze,
tu eri l'unico, che avrei voluto avere accanto nel mio letto'.
Così ragiona, e inesperta com'è, toccata dal suo primo amore,
non sapendo che cosa sia, ama e non si rende conto d'amare.

I versi di Ovidio ci mostrano i momenti precedenti l'inizio della gara e si concentrano sull'interiorità della bionda cacciatrice. Il suo animo è per la prima volta incerto, non sa cosa sia meglio, non sa cosa lei vuole davvero. Vincere o essere vinta ed amare? Sembra quasi che smarrisca il senso stesso della sua identità quando si chiede se davvero vale così tanto. Tutto il discorso di Atalanta è scandito da un incessante sequenza di ma e di antitesi, da un alternarsi di decisioni e di ripensamenti, di speranze - rinuncia a queste nozze di sangue - e rassegnazione - Povero Ippòmene [...] Meritavi di vivere. Nel turbamento dell'animo risuonano i congiuntivi dell'impossibilità: Avessi tu almeno il senno di rinunciare! o ancora, fossi almeno più veloce! Fino al verso più bello, perché in fondo sappiamo tutti che non è vero quel che la mente della bella Atalanta va ripetendosi: vorrei che tu non m'avessi mai visto! 

Nel racconto di Ovidio l'amore è prima di tutto un mutamento del senso della vista. Quello che abbiamo sempre veduto in un certo modo ora diviene altro: il contendente da sconfiggere ora diventa un giovane che merita di vivere, il ruolo che si crede di aver scelto una sorte crudele, un destino inesorabile. Tale visione ha come effetto quello di mutare non di meno il soggetto che osserva il mondo attorno a sé. Egli non sa più con certezza chi è, Ma perché per te mi angoscio, dopo averne mandati a morte tanti? La bionda guerriera, "un'Artemide alla sedicesima" - come alcuni l'hanno definita - non può smettere di porsi domande alle quali non aveva mai pensato prima. Non è più la stessa, quasi contro la sua volontà e prima ancora di cogliere le mele d'oro che l'astuto Ippomene getterà sul suo cammino, non sapendo che cosa sia, ama e non si rende conto d'amare.


Il poeta persiano Jalal ad-din Rumi, detto il Moulana (il Maestro) nato nel 1207, mi sembra esprimere al meglio tale forza dell'amore in questi versi tratti dal suo canzoniere, il Divan:

Tu mi domandi, "A chi appartieni?" "Che cosa ne so, io?"
Mi chiedi: "Perché sei così pazzo?" "Che cosa ne so, io?"
Mi domandi:"Come puoi, così vecchio e malfermo,
aspirare al mio amore?" "Che cosa ne so, io?"
Sono sbattuto tra le onde dell'oceano del tuo amore.
Mi domandi:"Dove sei?" "Che cosa ne so, io?"
Mi domandi:" Ma perché sei in questa gabbia,
se sei un uccello dell'aria? " Che cosa ne so, io?
Camminavo sulla buona via, ma mi smarrii
a causa di quel Turco del Katai . Che cosa ne so, io?
E ora non distinguo sventura da piacere.
Tu sei il culmine nella gioiosa avversità. Che cosa ne so, io?


L'esperienza dell'amore non è solo lo sconvolgimento di cui i poeti hanno cantato, ma uno sguardo che non osserva più il mondo nello stesso modo, una temperatura della luce che sfida le leggi della fisica e del tempo ... il congiuntivo dell'impossibilità che custodisce da sempre il respiro degli amanti.