Cerca nel blog

Visualizzazione post con etichetta Jorge Luis Borges. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Jorge Luis Borges. Mostra tutti i post

sabato 30 settembre 2023

Se il sonno fosse...

 

Hypnos, il dio del sonno



Se il sonno fosse (c’è chi dice) una
tregua, un puro riposo della mente,
perché, se ti si desta bruscamente,
senti che t’han rubato una fortuna?

Perché è triste levarsi presto? L’ora
ci deruba d’un dono inconcepibile,
intimo al punto da esser traducibile
solo in sopore, che la veglia dora

di sogni, forse pallidi riflessi
interrotti dei tesori dell’ombra,
d’un mondo intemporale, senza nome,

che il giorno deforma nei suoi specchi.
Chi sarai questa notte nell’oscuro
sonno, dall’altra parte del tuo muro?



Il testo originale è così bello in spagnolo che merita di essere letto in originale:

Si el sueño fuera (como dicen) una
tregua, un puro reposo de la mente,
¿por qué, si te despiertan bruscamente,
sientes que te han robado una fortuna?

¿Por qué es tan triste madrugar? La hora
nos despoja de un don inconcebible,
tan íntimo que sólo es traducible
en un sopor que la vigilia dora

de sueños, que bien pueden ser reflejos
truncos de los tesoros de la sombra,
de un orbe intemporal que no se nombra

y que el día deforma en sus espejos.
¿Quién serás esta noche en el oscuro
sueño, del otro lado de su muro?


Nella poetica di Jorge Luis Borges alcuni temi ed immagini ricorrono con una frequenza significativa: l'orologio, lo specchio, l'ombra, il labirinto ed - appunto - il sueño che in spagnolo vuol dire al tempo stesso "sonno" e "sogno". A questo tema lo scrittore ha anche dedicato un piccolo studio, una storia generale dei sogni, che attinge ai suoi scritti e alle sue letture sterminate, da Plutarco a Mircea Eliade, passando da William Butler Yeats e l'epopea di Gilgamesh. Questo piccolo gioiello è stato pubblicato nella Piccola Biblioteca Adelphi con il titolo "Libro dei sogni", un'esperienza di lettura straordinaria, un viaggio tra i secoli, le civiltà più lontane e i luoghi più suggestivi.

La poesia di Borges prende avvio da un'ipotesi, da un interrogativo: se il sonno è solo una pausa, una tregua rispetto alla vita e alle sue faticose battaglie, come mai, se qualcuno ci sveglia in modo brusco, ci sembra di essere stati derubati di una misteriosa ricchezza, di un bene inestimabile, intimamente nostro.  

Il risveglio a cui allude il poeta  non è quello dell'ozioso, forzatamente sottratto alla sua inerzia, né quello del melanconico, prigioniero incatenato alle proprie angosce. E' piuttosto un'altra l'esperienza che è al centro delle immagini  evocate dai versi di Borges. Ciò si può cogliere alla fine della seconda quartina, lì dove si prova a descrivere il dono del quale siamo derubati. Questo dono sfugge innanzitutto ad ogni tentativo di rappresentazione razionale, è inconcepibile, nel senso che il pensiero non è capace di descriverne la natura. Siamo, al tempo stesso, consapevoli della straordinaria fortuna che nel sonno ci viene consegnata e del tutto incapaci di misurarne i caratteri o le forme. 
Un'altra qualità, tuttavia, il poeta intuisce come propria di tale dono: esso è talmente intimo - ovvero così connaturato alla profondità della nostra anima (in quel luogo dove abbiamo spesso difficoltà noi stessi a spingere lo sguardo) che le parole sono insufficienti, non bastano a tracciare una definizione. E se proprio volessimo dargli un nome - ci avverte Borges - potremmo usare la parola sopore, ma si tratterebbe pur sempre di un azzardo, di un maldestro tentativo, di un'approssimazione scivolosa. 

Non sembra proprio una  gran cosa questo dono ... non è forse il sopore uno stato di obnubilamento dei sensi? un ottenebramento della coscienza? In verità questa impressione immediata si svela subito fallace non appena leggiamo ciò che il sopore realizza, cioè ricoprire la materia umile e dimessa dello stato di veglia con il pregiato oro dei sogni. Siamo di fronte ad un ribaltamento deciso del normale sistema di valori secondo cui i sogni sono ombre evanescenti, mentre è sulla realtà del giorno che si possono costruire certezze affidabili. Al contrario i versi del poeta argentino ci spingono in una direzione diversa: sono i sogni - ciò che in essi si riesce a scorgere - ad essere la cosa più importante. Certo, non sono che pallidi riflessi di tesori più grandi, che abitano nell'ombra, in un mondo senza tempo e senza nome. E tuttavia ciò che nei sogni si riflette - forse in modo imperfetto - è ciò che più ci avvicina all'essenza stessa delle cose. Se questa non può che sfuggirci, non cesseremo di cercarla, seguendo quelle tracce labili e interrotte che intravediamo di tanto in tanto quando abbiamo gli occhi aperti.


domenica 9 agosto 2020

Nel sonoro apice della notte

 

RUBAIYAT

Torni la voce del persiano a dire
con la mia voce che il tempo è la varia
trama di sogni avidi che siamo
e il segreto Sognatore sperde.

Torni a dire che è polvere la carne,
cenere il fuoco, il fiume la fugace
immagine di questa nostra vita
che lentamente scorre via veloce.

Ci rammenti che l' arduo monumento
che erige la superbia è come il vento
che passa, e che alla luce inconcepibile
di Chi è eterno, un secolo è un momento.

Ci rammenti che l'aureo usignolo
canta una sola volta nel sonoro
apice della notte e che le avare
stelle ci negano il loro tesoro.

Torni la luna al verso che componi
come nel primo azzurro fa ritorno
al tuo giardino. Quella stessa luna
del tuo giardino ti cercherà invano.

Siano sotto la luna delle tenere
sere tuo umile esempio gli specchi.
d'acqua dei pozzi nei quali talvolta
si replica qualche immagine eterna.

Ritornino la luna del persiano
e gli indecisi ori dei crepuscoli
deserti. Oggi è ieri. Sei coloro
il cui volto ora è polvere. Sei i morti.


  di Jorge Luis Borges, da "ELOGIO DELL' OMBRA"



Rubaiyat vuol dire in persiano "quartine", la forma poetica preferita dal poeta, matematico e filosofo Omar Khayyam, vissuto tra l'XI e il XII secolo. Il padre di Borges aveva tradotto in spagnolo una scelta di queste quartine dalla versione inglese curata da Edward Fitzgerald. Tali traduzioni, con una nota introduttiva dello stesso Jorge furono poi pubblicate sulla rivista "Proa", che rappresentò  una delle punte più avanzate della cultura argentina degli anni Venti.
Tornano in questa poesia alcuni dei temi cari a Borges: lo scorrere del tempo, la ricerca disperata di un senso profondo nascosto nelle cose che accadono a cui  forse non possono dare risposte i dogmi e le certezze della ragione e della religione. L'invito piuttosto a cercare gli specchi d'acqua dei pozzi dove a volte si replica qualche immagine eterna. 
Ancora più prezioso mi sembra oggi, in questa strana estate in cui la compagnia degli uomini è temuta e desiderata con uguale insensatezza, l'invito della terza stanza a rammentare (la più alta forma di conoscenza) 


... che l' arduo monumento
che erige la superbia è come il vento
che passa, e che alla luce inconcepibile
di Chi è eterno, un secolo è un momento.



giovedì 4 giugno 2020

che da lontano il nostro sangue sente

Jorge Luis Borges visto dal grande disegnatore e fumettista Enrique Breccia


ODE COMPOSTA NEL 1960

Il chiaro caso o le segrete leggi
imposte a questo sogno, il mio destino,
vogliono, o necessaria e dolce patria
che non senza vergogna e gloria conti
centocinquanta laboriosi anni,
che io, l'istante, parli con te, il tempo,
e che l'intimo dialogo ricorra,
com'è uso, alle cerimonie e all'ombra
che aman gli dèi e al pudore del verso.

Patria io t'ho sentita nei tramonti
rovinosi delle periferie
e nel fiore del cardo che l'australe
reca all'androne e nel paziente piovere
e nel lento costume delle stelle,
nella mano che accorda una chitarra,
nella gravitazione del tuo piano
che da lontano il nostro sangue sente
come il britanno il mare e nei pietosi
simboli e nei boccali d'un soffitto,
dei gelsomini nell'umile amore,
nell'argento di un quadro e nel soave
contatto con l'acagiù silenzioso,
nei gusti delle carni e della frutta,
nella bandiera quasi azzurra e bianca
d'una caserma, nelle storie stracche 
di coltello e cantone e nelle sere 
uguali che si spengono e ci lasciano
e nel vago ricordo compiaciuto
di cortili con schiavi che portavano
il nome dei padroni e nelle povere
pagine di quei libri per i ciechi
che l'incendio disperse e nel cadere 
delle epiche piogge di settembre
che nessuno dimentica, ma questi
sono appena i tuoi modi e i tuoi simboli.

Tu sei più del tuo lungo territorio
e più dei giorni del tuo lungo tempo,
tu sei più della somma inconcepibile
delle generazioni. Non sappiamo
come sei tu per Dio entro il vivente
seno degli archetipi immortali,
eppure per il tuo volto intravisto
noi viviamo e moriamo e aneliamo,
oh indivisa e misteriosa patria.

di Jorge Luis Borges, da L'artefice


Jorge Luis Borges prova nella poesia "Ode composta nel 1960" ad esprimere dove ha trovato la sua patria, l'Argentina: nei tramonti rovinosi delle periferie, nella mano che accorda una chitarra, nella vasta pianura che "il nostro sangue sente di lontano" e  nella bandiera scolorita di una caserma e nelle canzoni di coltello che i gauchos si raccontano sotto le stelle...


Se Borges ha amato in modo appassionato la sua terra, ci ha insegnato ad amare anche ogni uomo che si prenda cura dell'orizzonte e del paesaggio che ha ricevuto in dono: quel tramonto, quel cortile, quella rupe e l'albero vicino a lei, il fiume ed il suo rumore ed  i loro nomi.

mercoledì 19 febbraio 2020

Davanti alla canzone dei deboli, accesi la mia voce di tramonti



QUASI GIUDIZIO FINALE


Il mio girovago far niente vive e si scatena  nella varietà della notte
La notte è una festa lunga e sola.
Nel mio segreto cuore io mi giustifico ed esalto:
ho testimoniato il mondo; ho confessato la rarità del mondo.
Ho cantato l'eterno: la chiara luna ritornante e le guance che invogliano l'amore.
Ho commemorato con versi la città che mi cinge e i sobborghi che si straziano.
Ho detto stupore dove altri dicono soltanto abitudine.
Davanti alla canzone dei deboli, accesi la mia voce di tramonti.
Gli antenati del mio sangue e gli antenati dei miei sogni ho esaltato e cantato.
Sono stato e sono.
Ho legato con salde parole il mio sentimento che poté essersi dissipato in tenerezza.
Il ritorno di una antica viltà ritorna al mio cuore.
Come il cavallo morto che la marea infligge alla spiaggia, ritorna al mio cuore.
Stanno ancora accanto a me, comunque, le strade e la luna.
L'acqua continua ad essere dolce nella mia bocca e le strofe non mi negano la loro grazia.
Sento lo sgomento della bellezza: chi oserà condannarmi se questa grande luna della mia solitudine                                                                                                                  [ mi perdona?

di Jorge Luis Borges

lunedì 30 dicembre 2019

un’Itaca di verde eternità


Tetons and Snake river by Ansel Adams


ARTE POETICA


Guardare il fiume ch’è di tempo e acqua
e ricordare che anche il tempo è un fiume,
saper che ci perdiamo come il fiume
e che passano i volti come l’acqua.

Sentire che la veglia è anch’essa un sonno
che sogna d’esser desto e che la morte
che teme il nostro corpo è quella morte
di ogni notte, che chiamiamo sonno.

Decifrare nel giorno o l’anno un simbolo
dei giorni dell’uomo e dei suoi anni,
convertire l’oltraggio empio degli anni
in una musica, un rumore e un simbolo,

dire sonno la morte, nel tramonto
vedere un triste oro, è la poesia
eterna e povera. La poesia
che torna come l’aurora e il tramonto.

A volte appare nelle sere un volto
e ci guarda dal fondo d’uno specchio;
l’arte deve esser come quello specchio
che ci rivela il nostro stesso volto.

Narran che Ulisse, stanco di prodigi,
pianse d’amore nello scorgere Itaca
verde e umile. L’arte è anch’essa un’Itaca
di verde eternità, non di prodigi.

È anch’essa come il fiume interminabile
che passa e resta e riflette uno stesso
Eraclito incostante, che è lo stesso
ed un altro, come il fiume interminabile.

                                              di Jorge Luis Borges



sabato 16 novembre 2019

Semplicità


Si apre il cancello del giardino
Foto di Grete Stern
con la docilità della pagina
che una frequente devozione interroga 
e all’interno gli sguardi
non devono fissarsi negli oggetti
che già stanno interamente nella memoria.
Conosco le abitudini e le anime
e quel dialetto di allusioni
che ogni gruppo umano va ordendo.
Non ho bisogno di parlare
né di mentire privilegi;
Bene mi conoscono quelli che mi attorniano,
bene sanno le mie ansie e le mie debolezze.
Ciò è raggiungere il più alto,
quello che forse ci darà il Cielo:
non ammirazioni, né vittorie
ma semplicemente essere ammessi
come parte di una realtà innegabile,
come le pietre e gli alberi.

                                 di Jorge Luis Borges


Il cancello di un giardino si apre davanti a noi, allo stesso modo - docilmente - della pagina di un libro al quale torniamo con amore e devozione. Credo che ognuno abbia presente in cuor suo di che pagina si tratti; l'abbiamo sottolineata, annotata o forse vi abbiamo lasciato una data.

All'interno del giardino oggetti consueti su cui lo sguardo non ha bisogno di indugiare, essi sono impressi nella memoria, interamente. Siamo entrati in uno spazio a cui apparteniamo: conosciamo le abitudini e le anime che lo abitano, ne intendiamo il dialetto di allusioni con cui sono solite rivolgersi tra di loro, una lingua in cui la parola non indica ma allude, non denomina ma crea, non enumera ma confonde... Che posto è questo?

Anche il parlare qui è un di più, soprattutto inutile è il mentire privilegi, troppo conoscono quelli che vi abitano debolezze e ansie di chi arriva.

Entrare in questo giardino 

è raggiungere il più alto,
quello che forse ci darà il Cielo

il più alto... ben oltre i palazzi dei principi e le austere aule della scienza, al di là delle sorgenti di fiumi sconosciuti o di cime mai conquistate; non ammirazioni, né vittorie attendono l'ospite, solo essere ammessi come parte di una realtà innegabile. Come acqua che scorre verso valle, come stelle che percorrono strade sempre uguali, come le pietre e gli alberi.

Questo posto è casa, il luogo del ritorno, la freccia che arriva al bersaglio, il porto che attende dopo lungo peregrinare.  Ma che vuol dire essere ammessi ?

Per rispondere a questa domanda mettiamoci di fronte al quadro del Guercino Il ritorno del figliol prodigo, ora esposto nel  Kunsthistorisches Museum di Vienna. 


Il racconto del Vangelo di Luca a cui Giovanni Francesco Barbieri si ispirò per la composizione del quadro è troppo noto perché lo si debba riassumere. Molte sono le interpretazioni che critici ed esegeti hanno dato alla parabola e da ultimo vi si è cimentato anche Massimo Recalcati (il coraggio del figliol prodigo di sfidare il padre). Sebbene la poesia di Borges e il racconto evangelico divergano sotto diversi aspetti, dal quadro di Guercino mi sembrano emergere alcuni punti interessanti. Guercino coglie della storia del figliol prodigo il momento in cui il padre, come nota Recalcati "non punisce il figlio che ritorna, non applica su di lui la Legge, non lo castiga", ma lo accoglie di nuovo in casa, lo ammette - nuovamente - nel posto che è la sua naturale dimora. I modi con cui questo gesto del padre si realizza sono il fulcro del dipinto di Guercino: la mano destra del padre abbraccia la schiena del giovane figlio, con una naturalezza non priva di energia, mentre quella sinistra prende in mano con sollecitudine la veste bianca, destinata a sostituire i cenci con cui si è presentato. 
Questa tensione, questo movimento, efficacemente reso nel quadro, mi sembra in forte sintonia con il raggiungere il più alto che il figlio sperimenta, simboleggiato dalla lucentezza della veste bianca impugnata dal padre: il giovane figlio ribelle, solo ora che ritorna alla casa del padre è davvero capace di comprendere il senso dell'eredità che ha ricevuto. 

Se guardiamo la posizione della testa leggermente reclinata e la posizione delle braccia del giovane che si spoglia, non possiamo non cogliere la naturalezza delle movenze, la confidenza e la semplicità dei gesti. Una semplice armonia lo avvolge, non ha bisogno di parole, di scuse, di vanterie.

Ad ammettere nel più alto, non sarà l'essere stati giusti, né aver superato prove come quelle che Perceval  superò nel "castello meraviglioso" dove è custodito il Graal... semplicemente essere ammessi, come accade ad un figlio che ritrova la strada per casa da cui era partito...

ora è tornato, come parte di una Realtà innegabile.





lunedì 16 settembre 2019

La strada è una ferita aperta nel cielo



          “Tranquera al atardecer”, Argentina. Agosto 2018 - foto di J. M. Ciampagna



ULTIMO SOLE A VILLA ORTÙZAR

Sera come di Giudizio Finale.
La strada è una ferita aperta nel cielo.
Non so più se fu Angelo o un occaso la chiarezza che 
                                  [bruciò nel profondo.
Insistente, come un incubo, pesa su di me la distanza.
All'orizzonte un reticolato gli duole.
Il mondo è come inservibile e gettato.
Nel cielo è giorno, ma la notte è traditrice nei fossati.
Tutta la luce è nei muretti azzurri e in quello 
                                                 [schiamazzare di ragazze.
Non so più se è un albero o è un dio, quello che sporge
                                                  [dal cancello arrugginito.
Quanti paesi in una volta: il campo, il cielo, i dintorni.
Oggi sono stato ricco di strade e di occaso affilato e
                                                  [della sera fatta stupore.
Lontano, mi restituirò alla mia povertà.


                                     di Jorge Luis Borges

lunedì 9 settembre 2019


ASSENZA



San Telmo, Buenos Aires



Dovrò rialzare la vasta vita
che ancora adesso è il tuo specchio:
ogni mattina dovrò ricostruirla.
Da quando ti allontanasti, 
questi luoghi sono diventati vani
e senza senso, uguali 
a lumi del giorno.
Sere che furono nicchia della tua immagine,
musiche in cui sempre mi attendevi, 
parole di quel tempo,
io dovrò frantumarle con le mani.
In quale profondità nasconderò la mia anima
perché non veda la tua assenza
che come un sole terribile, senza occaso,
brilla definitiva e spietata?
La tua assenza mi circonda
come la corda la gola
il mare chi sprofonda.

                                                                                               di Jorge Luis Borges



lunedì 1 luglio 2019

Il mio nome è qualcuno e chiunque

Vanteria di quiete

di  J.L. Borges



Scritture di luce investono l'ombra, più prodigiose di meteore.
L'alta città inconoscibile calpesta la campagna.
Sicuro della mia vita e della mia morte guardo gli ambiziosi e vorrei capirli.
Il loro giorno è avido come il lazo nell'aria
La loro notte è tregua dell'ira nel ferro, pronto ad attaccare.
La mia umanità  sta nel sentire che siamo  voci di una stessa penuria.
Parlano di patria.
La mia patria è un palpito di chitarra, alcuni ritratti e una vecchia spada,
l'orazione evidente del bosco di salici ai tramonti.
Il tempo mi sta vivendo.
Più silenzioso della mia ombra, attraverso la folla della loro innalzata cupidigia.
Essi sono imprescindibili, unici, meritevoli del domani.
Il mio nome è qualcuno e chiunque.
Avanzo con lentezza, come chi viene da tanto lontano che non spera di giungere.