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mercoledì 27 gennaio 2021

nell'ossigeno di una Cracovia normale

 

The Holocaust Education & Archive Research Team 

Ruth

                                          in memoriam di Ruth Buczynska


È scampata alla guerra a Tarnopol. All'ombra e alla penombra. Al dolore.

È scampata alla paura dei ratti e degli stivali, dei conciliabolo e delle urla.

Adesso è morta, al buio, in corsia, nel silenzio bianco di un ospedale.

Era ebrea. Non ha mai capito il significato di quella parola, 

semplice, eppure del tutto incomprensibile, come l'algebra.

Talvolta lo intuiva. La Gestapo sapevo perfettamente cosa

volesse dire. Una grande tradizione filosofica in certi casi aiuta,

affila come coltelli le definizioni, precise come frecce buddiste.

Era bella. Doveva morire allora, insieme agli altri e alle altre,

sparire senza traccia, andarsene senza elegie, come tanti altri,

come l'aria, e invece è vissuta a lungo, alla luce del giorno,

nell'aria di tutti i giorni, nell'ossigeno di una Cracovia normale.

Spesso non capiva cosa significhi essere una bella donna.

Lo specchio taceva, avaro di definizioni filosofiche.

Non aveva dimenticato, eppure non parlava di quegli anni 

quasi mai. Una volta sola raccontò questa storia:

la sua amata gattina non voleva stare nel ghetto, di notte

tornò due volte dalla parte ariana. La sua gatta non sapeva

chi sono gli ebrei, e che cos'è la parte ariana.

Non lo sapeva e perciò schizzava come una freccia dall'altra parte.

Ruth era avvocato, difendeva gli altri. Forse per questo è vissuta a lungo.

Perché gli altri sono tanti e hanno bisogno di essere difesi.

Di accusatori non ne mancheranno mai, ma i difensori sono pochi.

Era una persona buona. E aveva un'anima. Talora crediamo di sapere

che significhi.



                                  di Adam Zagajewski

martedì 29 settembre 2020

e le foglie roteavano sulle cicatrici della terra

 



Prova a cantare il mondo storpiato


Prova a cantare il mondo storpiato.

Ricorda di giugno le lunghe giornate

e le fragole, le gocce di vin rosé,

e le ortiche implacabili a coprire

le dimore lasciate dagli esuli.

Devi cantare questo mondo storpiato.

Hai visto navi e yacht eleganti

Alcuni dinanzi avevano un lungo viaggio,

ad attendere altri era solo il nulla salmastro.

Hai visto i profughi andare da nessuna parte,

hai sentito cantare di gioia i carnefici.

Dovresti cantare il mondo storpiato.

Ricorda quegli attimi in cui eravate insieme

e la tenda si mosse nella stanza bianca.

Torna col pensiero al concerto, quando esplose la musica.

D’autunno raccoglievi ghiande nel parco

e le foglie roteavano sulle cicatrici della terra.

Canta il mondo storpiato

e la penna grigia perduta dal tordo,

e la luce delicata che erra, svanisce

e ritorna.


di Adam ZAGAJEWSKI, traduzione di Valentina Parisi 

domenica 2 agosto 2020

parlare di tenebra a un'ombra così luminosa



Ai piedi della cattedrale


Una volta a giugno, verso sera,
tornando da una lunga spedizione
e serbando ancora nella memoria
la fragranza fiorita degli alberi di Francia,
i campi gialli, i platani verdi,
che passavano di corsa davanti all'auto,
seduti sul ciglio ai piedi della cattedrale
discutevamo sottovoce della tragedia, 
di ciò che sarebbe stato, dell'inevitabile orrore,
e qualcuno disse, è pur sempre la cosa migliore 
che possiamo fare adesso -
parlare di tenebra a un'ombra così luminosa.

di Adam Zagajewski, traduzione di Valentina Parisi


domenica 5 luglio 2020

Ciò che pesa troppo




Ciò che

Ciò che pesa troppo
e trascina in basso
che fa male come il dolore
e brucia come uno schiaffo,
può essere  pietra
o àncora.

di Adam Zagajewski


Ci sono eventi, incontri, svolte improvvise o dolorose che pesano troppo, lo sappiamo e lo impariamo tutti, a volte molto presto, a volte ci mettiamo solo un po' di più. Ciò che pesa troppo incurva le spalle e spinge lo sguardo verso il basso, restringe il campo della nostra vista al prossimo passo, poco più avanti della punta del piede. Il cielo si fa come una lastra chiusa, del colore del piombo, a che guardarlo? Le cose che fanno male spesso ci atterrano, come un pugno che sul ring ci coglie impreparati. In un battere di ciglia siamo al tappeto. A volte invece il processo è più lento: i giorni, poco alla volta, senza quasi che ce ne accorgiamo, accumulano sul nostro capo peso su peso, dolore su dolore, delusione su delusione. Il risultato è lo stesso. Ciò che fa male, diventa pietra, una cosa pesante, che non ci abbandona mai, nemmeno per un attimo. E attorno a questa pietra si concentrano sempre più le nostre emozioni e sensazioni; ne sentiamo il peso gravoso, la sua ruvidezza lascia piaghe sulla mani, diventiamo solo questo. Un uomo, una donna ... che trascina una pesante pietra.

Adam Zagajewski in questa breve poesia ci fornisce la possibilità di guardare all'esperienza del dolore da una prospettiva diversa: ciò che pesa troppo non necessariamente diventa pietra, può invece essere anche un'àncora. Se la direzione del movimento può sembrare a prima vista indistinguibile, perché sia la pietra che l'àncora ci portano verso il basso, del tutto diverso è l'esito finale.

Il simbolo dell'àncora infatti richiama prima di tutto la necessità di rimanere fermi, saldi, là dove la vita sembra trascinarci via, sballottandoci qui e là, senza una meta, senza una direzione, in balia del vento o del mare mutevole. Gettare l'àncora vuol dire in questo senso riaffermare la fiducia nelle proprie forze, nel fatto che la vita ha un senso, uno scopo e che c'è un porto che ci attende per lo gran mar de l'essere (Paradiso, I, v. 113). 

Inoltre questo stesso simbolo disvela un altro aspetto della visione poetica di Zagajewski: l'àncora infatti da sola non può nulla, senza una catena di anelli resistenti e ben temprati che la leghi all'imbarcazione di cui è parte. Gli anelli sono gli altri: i membri della nostra comunità civile, gli amici e i familiari che vivono accanto a noi. Il nostro prossimo insomma Non lo sono necessariamente, né per loro natura; possono esserlo, così come uno stesso dolore è pietra per uno ed àncora per un altro, ma non ci potremo liberare da ciò che pesa troppo con le nostre sole forze. 

L'àncora, infine per fare il suo lavoro deve agganciarsi bene alle profondità della terra, al fondo del mare, all'abisso dove la luce sembra non giungere mai. Non saranno dunque le utopie astratte, le ambizioni a superare la precarietà ed i limiti della condizione umana che ci libereranno del peso del dolore divenuto pietra. E' solo dal punto più profondo della terra che prende a salire la strada verso il cielo.