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lunedì 6 gennaio 2020

Ci fu una Nascita, certo

Adorazione dei Magi (incompiuto) di Leonardo da Vinci, Uffizi


Viaggio dei Magi

“Freddo è stato il nostro cammino,
Giusto il periodo peggiore dell’anno
Per un viaggio, e un viaggio così lungo:
Le strade infossate e il freddo pungente,
Davvero la stagione morta dell’inverno.”
E i cammelli piagati, ostinati, con le zampe gonfie,
Che si stendevano nella neve molle.
A volte rimpiangevamo
I nostri palazzi d’estate sulle colline, con le terrazze,
Le giovani avvolte di seta che portavano sorbetti.
Poi i cammellieri che bestemmiavano e complottavano,
Se ne andavano, o chiedevano vino e donne,
E i fuochi dei bivacchi che si spegnevano, i pochi alloggi,
Le città ostili e i paesi inospitali
E i villaggi sporchi che alzavano i prezzi:
Un cammino duro è stato.
Alla fine preferimmo viaggiare di notte,
Sonnecchiando a tratti,
Con voci che cantavano alla nostre orecchie,
Che questa era tutta follia.

Poi all’alba siamo scesi in una valle temperata,
Stillante, sotto la linea della neve, profumata di vegetazione,
Con un corso d’acqua e un mulino che batteva nel buio,
E tre alberi sullo sfondo di un cielo basso.
E un vecchio cavallo bianco partì al galoppo sul piano.
Quindi arrivammo a una taverna con una vite sulla soglia,
Sei mani alla porta aperta che giocavano a dadi per monete d’argento,
E piedi che scalciavano otri vuoti.
Ma non c’erano notizie, così proseguimmo
E arrivammo di sera, non un momento troppo presto,
E trovammo il posto: era (si può dire) soddisfacente.

Tutto questo fu molto tempo fa, ricordo,
E lo rifarei anche, ma scrivi
Questo scrivi
Questo: abbiamo fatto tanta strada per vedere
Una Nascita o una Morte? Ci fu una Nascita, certo,
Ne abbiamo avuto le prove oltre ogni dubbio.
Avevo visto nascita e morte,
Ma pensavo fossero diverse: questa Nascita era
Per noi un’agonia dura e amara, come una Morte, la nostra morte.
Ritornammo ai nostri luoghi, a questi Regni,
Ma non eravamo più a nostro agio qui, nelle antiche disposizioni,
Con un popolo estraneo aggrappato ai suoi dei.
Sarei contento di un’altra morte.

di T.S. Eliot da "The Ariel poems", traduzione di Massimo Bagicalupo


Dove comincia la storia che ha ispirato la poesia di Eliot ? Forse comincia in quelle terre prossime ai Due Fiumi, dal desiderio di un uomo di nome 'Aḇrāhām (che tra l'altro vuol dire Padre di molti): una discendenza. Esci dalla tua terra, dalla casa di tuo padre e va' nel paese che ti indicherò. 
Come 'Aḇrāhām anche i nostri Magi se ne vanno dalla loro terra: non più i  palazzi d’estate sulle colline, con le terrazze,/ Le giovani avvolte di seta ... via, lungo una strada di strade infossate e freddo pungente, nelle orecchie le risa beffarde degli uomini concreti, voci che cantavano alla nostre orecchie,/Che questa era tutta follia... 

Eliot - lo avrete notato - in questa poesia dà voce ad uno dei Magi della tradizione inaugurata dal vangelo di Matteo (se volete informazioni maggiori sugli aspetti storici e sapienziali della storia in questo link trovate un articolo sintetico ma completo di Franco Cardini Giù le mani dai Re magi! di Franco Cardini); quello che rende la poesia di Eliot così suggestiva e potente è il fatto che la scena si svolge dopo che questo sapiente è tornato al suo paese. In tal modo il viaggio diviene, nel suo ricordo, un iter tanto fisico quanto spirituale e le riflessioni che ne scaturiscono, le domande che presuppongono, le verità a cui alludono vanno al cuore dell'esperienza di quella notte in cui trovarono il posto che cercavano:

abbiamo fatto tanta strada per vedere
Una Nascita o una Morte? 

Certo è una Nascita quella che li attendeva, Ne abbiamo avuto le prove oltre ogni dubbio. Ma questa Nascita è diversa, è come un’agonia dura e amara, come una Morte, la nostra morte. Questa morte è  allegoria di ciò che l'uomo è chiamato ad abbandonare, dopo essersi imbattuto nel Mistero ed aver sperimentato quella che C. S. Lewis  chiama "trafittura della gioia". 

Il ritorno alla vita precedente diventa impossibile, non ci si riconosce più nelle antiche disposizioni, qualcosa è cambiato e nulla sarà più lo stesso. Al cospetto della Nascita qualcosa "deve" morire perché si possa vivere davvero. 
Una Nascita o una Morte? 

La domanda contiene probabilmente un'allusione alla passione di Cristo. Lo confermerebbe anche il riferimento ai tre alberi sullo sfondo di un cielo basso, che secondo la critica è un'allusione alle tre croci del Calvario. Del resto già nel racconto di Matteo l'esegesi ha scorto riferimenti alla passione nel dono della mirra, utilizzata nei riti di sepoltura. Anche la tradizione iconografica, specie in Oriente ha da sempre collegato simbolicamente il momento della nascita di Cristo e quello della sua  passione. 
Nella celebre icona della Natività di Rublev il bambino è collocato in un antro scuro, come quello del sepolcro ed il suo corpo è fasciato in un modo che ricorda quello di un defunto.




Anche l' Adorazione dei Magi di Leonardo da Vinci sembra riprendere tale allegoria. Nel quadro, a cui era legato moltissimo il regista russo Andrej Tarkovskij (sui rapporti tra Tarkovskij e la pittura di Leonardo: leonardo-da-vinci-nei-film-di-tarkovskij), l'albero occupa il centro spaziale e costituisce l'asse attorno al quale tutti i personaggi - e il senso stesso della rappresentazione - si dispongono. L'albero, che è uno dei pochi elementi completati nel disegno e nel colore di tutta l'opera, è secondo una tradizione molto antica risalente ai Padri della Chiesa immagine della Croce: il nuovo albero della Vita, destinato a prendere il posto di quello del giardino edenico. Non solo strumento di morte e umiliazione dell'innocente ma sorgente di una vita nuova. 

L'accostamento tra albero della Vita e Santa Croce ad esempio è al centro di un componimento in esametri, per lo più sconosciuto, risalente ad un periodo tra III e IV secolo, il De Ligno Crucis, noto anche come De ligno vitae.  Protagonista del componimento è un albero che sorge al centro della Terra, raggiunge con la sua chioma il cielo e diffonde i suoi rami in tutto il mondo. 
È l’Albero della Vita, un simbolo che, sicuramente, non nasce con il cristianesimo ma venne riadattato dagli autori cristiani accostandolo all’immagine della Croce. Non si dimentichi che in epoca medievale la simbologia dell’Albero della Vita e del Legno della Croce sarà davvero molto diffusa, come si vede nel mosaico absidale di San Clemente, risalente al secolo XII, in cui questa valenza del simbolo cristiano per eccellenza appare in modo evidente. La croce fiorisce su un verde e lussureggiante cespo di acanto, dal quale si dipartono numerosissimi girali che si estendono in tutte le direzioni, con i loro fiori e i loro frutti.


Una Nascita o una Morte? 

Il viaggio dei Magi, nella poesia di Eliot, è un viaggio soprattutto interiore, il suo punto di arrivo è un'esperienza su cui l'io lirico è - per così dire - reticente o elusivo: E trovammo il posto: era (si può dire) soddisfacente. Tuttavia l'inaspettato mette in discussione certezze e abitudini, costringe a farsi domande. Al cospetto di quella Nascita in terra straniera c'è qualcosa che va abbandonato, qualcosa che deve morire per poter nascere di nuovo e vivere pienamente.

sabato 17 agosto 2019

Sorpreso dalla gioia



Sorpreso dalla gioia


Foto di Steve Harrington


Sorpreso dalla gioia - impaziente come il vento

mi voltai per condividere il mio rapimento - Oh con chi

ma con te, sepolta profondamente nella silente tomba

quel posto che nessuna vicissitudine può trovare?

Amore, fedele amore, ti richiamo alla mente -

ma come potrei dimenticarti?  - Attraverso quale potere,

anche per la parte più breve di un'ora,

sono stato così ingannato da essere cieco

alla mia perdita più atroce! - Il ritorno di quel pensiero

fu la peggiore fitta che il dolore mi inflisse mai,

salvarne uno, uno soltanto, quando mi trovavo desolato

sapendo che il più grande tesoro del mio cuore non c'era più

che né il tempo presente, né gli anni a venire

potranno restituire alla mia vista quel viso celeste

                                                                                                                William Wordsworth


Mi sono imbattuto in questo sonetto di Wordsworth grazie a C. S. Lewis che scelse di intitolare la sua 'autobiografia spirituale'  proprio con il verso Surprised by joy. 
Il poeta romantico ricorda il momento in cui è afferrato da una gioia improvvisa, subito dopo vorrebbe condividere questa sensazione, impaziente come il vento, ma il ricordo della morte della figlia rapido lo afferra e lo tiene stretto nelle sue mani, rinnovando sgomento e dolore e la consapevolezza che il tempo non potrà mai lenire una sofferenza tanto grande.

Wordsworth appare stupito dalla sensazione di una  gioia che non sa da dove provenga, tanto più che un'angoscia feroce gli opprime l'animo, la silente tomba, dove giace sua figlia, un luogo che nessuna vicissitudine può raggiungere. La condizione interiore del poeta, dominata da afflizione e lutto, per quanto sia il frutto di un'esperienza soggettiva, è in fondo paradigma di quella umana, poiché tutti siamo sottoposti allo stesso destino di dolente finitezza. È quello che Giacomo Leopardi ci fa sentire nei versi de L'ultimo canto di Saffo: Arcano è tutto/fuor che il nostro dolor. Negletta prole/ nascemmo al pianto... le parole che pronuncia la poetessa di Lesbo prima di morire.

Eppure la gioia ci sorprende, come un nemico in un'imboscata, pur trovandoci nella sventura, lì dove il pensiero non potrebbe dare ragione di alcuna speranza. Il poeta inglese è consapevole che la ferita che gli morde il cuore non la guarirà il tempo, eppure la gioia, inspiegabilmente, lo ha trovato, quando non era più attesa. L'inizio della poesia possiede il vigore di un fumo d'incenso che sale verso il cielo: la gioia che sorprende è associata all'impazienza di condividerla, come in un riflesso automatico, indipendente dalla volontà. Non è una cosa che possiamo trattenere o chiudere in un recinto questa gioia, perché non è nostra davvero se non la condividiamo.

C'è un punto all'esordio della poesia su cui mi sembra opportuno soffermare l'attenzione ed è quando la voce del poeta dice mi voltai.  Perché dice così? E perché merita che ci soffermiamo su questa immagine? Questo voltarsi è spostare lo sguardo dalla fonte della gioia verso qualcuno che sia un testimone della improvvisa felicità che ci ha trovato. È troppo diversa tale gioia da ciò che abbiamo sperimentato per essere vera, non assomiglia a nulla di quello che conosciamo, c'è bisogno di qualcuno che ce lo confermi. Nella poesia di Wordsworth tuttavia quel qualcuno è perduto, è in un luogo inaccessibile, lontano da ogni vicissitudine ma anche irraggiungibile da ogni richiamo. Ci si volta verso ciò che si ama, come Orfeo verso la sua sposa Euridice o verso qualcosa che mai penseremmo di poter perdere come Dante verso il suo maestro Virgilio nell'imminenza dell'incontro con Beatrice, sulla cima del Purgatorio. Wordsworth si volta indietro verso colei che ha amato di più e che la morte gli ha portato via. La gioia che lo ha toccato, come una scossa di luce, ha per un attimo lenito la piaga che non può guarire.

Quanto è umano e delicato questo voltarsiquanta poesia nasconde sotto la sua ombra.

Quando dunque il poeta inglese scrive mi voltai non distoglie lo sguardo da una presenza numinosa, la cui luce sfolgorante la vista umana non può sostenere, ma cerca un testimone di ciò che Milton,  sforzandosi di rappresentare l'Eden, chiama l'enorme beatitudine (dove enorme  deve essere inteso nel suo antico e pieno significato di "fuori dalla norma").

delucidare il significato profondo della gioia di cui parla il sonetto è  ancora C.S. Lewis. Nel primo capitolo della sua autobiografia (pp.17-19) egli descrive tre diversi momenti della sua infanzia in cui aveva sperimentato tale sensazione e collega il sentimento della gioia ad un desiderio intenso e indefinibile, che rapidamente dispare lasciando nell'animo insieme a turbamento e stupore la brama di riaccedervi e il senso di una vicenda incommensurabile. La gioia, nella prospettiva di Lewis ha poi nella sua natura il fatto che non è troppo diversa da una particolare forma di infelicità, da un dolore "di genere particolare", di un genere desiderabile, qualcosa di simile a ciò che in tedesco è chiamato sehnsucht. Se seguiamo ciò che scrive Lewis, al quale morì la madre quando aveva sette anni, negli stessi tempi in cui aveva vissuto quella prima trafittura della goia, tale esperienza si distingue da ogni altro piacere, in quanto si manifesta come una  fitta, uno spasmo, un'inconsolabile nostalgia. L'essere che la prova può perdersi - come a lui capitò - anche in un deserto esistenziale di ghiaccio millenario, non importa: all'istante si ritroverà "in un'unica, intollerabile sensazione di desiderio e di perdita", che d'un tratto diventa tutt'uno con la dissoluzione dell'emozione stessa. Infine questa particolare tipologia di gioia "non è mai in nostro potere": ci imbattiamo in essa, da lei siamo sorpresi, ma non potremmo mai possederla né anticipare la sua venuta, giunge come un ladro nella notte, quando meno ce lo aspettiamo.

In che relazione si trovano allora, nella poesia di Wordsworth, la gioia che sorprende e la desolata consapevolezza del dolore per cui pare non esserci rimedio? E non sembra forse che l'autore del sonetto consideri il rapimento della gioia come un inganno, come un'improvvisa perdita della vista?
In tal caso, il vedere, la consapevolezza, la realtà sarebbero solo nel distacco pieno di afflizione dal suo più grande tesoro. La gioia che sorprende, in questo senso, se non coincide con l'oscuramento della verità o con il suo impossibile oblio, nel suo dileguarsi è in relazione evidente con il ritorno del pensiero, che riporta il poeta alla condizione di desolazione in cui gli è impossibile persino salvare un solo pensiero: tutto torna - in un istante - sotto il dominio della necessità. Forse non è oscuramento né oblio, ma non dovremmo allora pensare alla gioia come una sospensione, provvisoria e infine più dolorosa, della consapevolezza?

Spesso è così e forse poté essere questa l'esperienza di Wordsworth la cui poesia si chiude con una commovente ammissione di un vuoto incolmabile. Tuttavia un'altra strada ci viene indicata dal momento in cui comprendiamo che la natura propria di questa particolare gioia, diversa da tutte le altre, non sta in ciò che essa è, ma in ciò che essa addita: "una nuda alterità, ignota, indefinita, desiderata" secondo quanto scrive Lewis. Lungi da essere un obnubilamento della coscienza, la gioia che sorprende si rivela piuttosto la sua espressione più limpida e lucida.

Et unde hoc mihi ? 

"A che debbo che la madre del Signore venga presso di me ?". Con queste parole, lo racconta l'evangelista Luca, Elisabetta saluta sua cugina Maria, che porta in grembo il figlio della promessa : sono parole che sgorgano impetuose suggerite dallo Spirito che la riempie. Da dove, perché giunge tutto questo a me ? sembra dire Elisabetta, lei la donna anziana e sterile che già aveva assaporato l'inattesa, impensabile, inesprimibile gioia di aspettare un figlio.

La gioia ci viene incontro, è lei a trovarci là dove non ci aspetteremmo di vederla. Tutte le trafitture della gioia non sono infine che tracce che immettono nei territori dello stupore.