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giovedì 24 dicembre 2020

le stelle accorrono

 

Giotto, la Natività (fonte Wikipedia)


LA LUCE CHE VIENE


Perfino così tardi avviene:

l’amore che arriva, la luce che viene.

Ti svegli e le candele si sono accese forse da sé,

le stelle accorrono, i sogni entrano a fiotti nel cuscino,

sprigionano caldi bouquet l’aria.

Perfino così tardi gli ossi del corpo splendono

e la polvere del domani s’incendia in respiro.


      di Mark Strand,  traduzione di Damiano Abeni



Natale 2020 -  Voglio fare gli auguri a tutti i lettori e i viaggiatori che incrociano quando possono le poesie di questo blog. Auguri con una poesia ovviamente, di pochi versi, ma preziosissimi per la loro capacità di illuminare  - al modo di una stella tenue -  una parte di quel mistero che oggi ci va interrogando. L'oscurità non ha l'ultima parola sui destini dell'uomo, la luce viene, persino quando ormai si è smesso di attenderla, persino così tardi, in modi del tutto inconsueti, come delle candele che danno luce senza che alcuno le abbia accese. Come la fanciulla di Nazareth che mescola insieme in questa notte le grida del parto e le preghiere che porta nel cuore.

E tutto, persino delle vecchie ossa, si riveste di splendore e fiamma.





domenica 26 aprile 2020

sulle tenui frontiere che scorgi a malapena

Lobster girl, di Bob Bartlett, 2004


 PER LEI 

Potrebbe essere ovunque
una notte qualsiasi a tua scelta,
nella tua camera vuota e buia

o per strada
o sulle tenui frontiere
che scorgi a malapena, a malapena sogni.

Non proverai alcun desiderio,
niente ti metterà in guardia,
non un vento improvviso, non l'immobilità dell'aria.

Lei apparirà,
l'aspetto di una donna che conoscevi:
l'amica che ha buttato via la vita,

la ragazza seduta all'ombra della palma.
I bracciali le brilleranno,
diverranno le luci

di un paese cui volgesti le spalle anni fa.

da "L'ora tarda" di Mark Strand, traduzione di Damiano Abeni


sabato 7 dicembre 2019

dove tutto piange per come va il mondo



Foto di Rachel Talibert

CENTO VIRGILIANUS


E così, passando sotto la cupola del cielo immenso,
sospinti da tempeste e mari in burrasca, giungemmo,
chiedendoci su quale spiaggia del mondo
fossimo stati gettati. L'ululare dei cani 
si udiva per tutto il crepuscolo
e sulle tombe il crepitare che fa
un fuoco di stoppie sferzato dal vento;
e poi, da cortili ghiacciati
i lamenti striduli delle  donne si alzarono
contro le silenti stelle dorate.
All'inizio, non ci mancavano le città da cui eravamo partiti -
le case dipinte di rosa e di verde, i cigni che si cibano
tra le canne del fiume, gli scrosci di luce estiva
che  scorrono sui  pascoli.
Che importava  se avevamo sperato di trovare Apollo qui,
finalmente in trono, che importava se un freddo attanagliante
ci gelava le ossa. Eravamo giunti in un luogo
dove tutto piange per come va il mondo.

   di Mark Strand

Un "centone" è un componimento costruito con la giustapposizione di espressioni, versi o emistichi di un autore famoso, questo genere fu particolarmente coltivato nella classicità e nel Medioevo.
L'ispirazione di questa poesia, composta nel 1987, venne a Strand durante un periodo di inattività che lo aveva portato a dedicarsi al giornalismo e alla critica, fino a quando - è stato lui stesso a dichiararlo - fu ispirato da un seminario su Virgilio e dalla lettura della traduzione dell'Eneide di Robert Fitzgerald. Cento Virgilianus apparve poi nella raccolta The Continuous Life, pubblicata nel 1990.

A parlare in questa poesia è uno dei marinai di Enea, uno qualunque, nemmeno il nome sappiamo di lui, descrive il viaggio sotto la cupola del cielo immenso, una navigazione perigliosa, segnata da burrasche e tempeste che hanno gettato i Troiani, profughi per volere del Fato, su una terra ignota e straniera.

Sono le sensazioni uditive a colpirci: l'ululare dei cani, il crepitare del fuoco, i lamenti striduli delle donne. Mentre nel crepuscolo la vista coglie  un paesaggio ostile: tombe su cui si accendono fuochi di stoppie e cortili ghiacciati. Non sembra un bel posto per costruirci una casa, del resto non è che l'hanno scelto, vi sono stati gettati. Eppure...

Eppure la felicità passata non è rimpianta, né le speranze deluse lasciano nello sconforto. Apollo non abita in questa terra desolata così come il caldo e la luce delle pianure della Troade sono solo un ricordo lontano, ma non motivo di lamento.

... Eravamo giunti in un luogo
dove tutto piange per come va il mondo.

Che importa tu dici, coraggioso compagno di Enea, che importa questo freddo che un fuoco di stoppia non riscalderà, che importa il trono vuoto di Apollo che non indicherà la rotta, almeno per  il momento. E' qui, dove tutto piange per come va il mondo, il luogo dove vale la pena stare, qui dove il destino di ogni essere ferito da sventura e miseria è sottratto a oblio e indifferenza.




giovedì 10 ottobre 2019

Ad Elisabetta ....qualcosa che potresti portare con te


Starry Night, Vincent van Gogh



Per Jessica, mia figlia


Stasera sono passato a piedi
vicino a casa,
e ho avuto paura
non del percorso randagio
che ho fatto dell'amore e del sé,
ma di ciò che è buio e distante.
Camminavo, ascoltavo il vento tra le piante,
e sentivo il freddo sulla pelle,
ma ciò su cui mi sono fermato a pensare
erano le stelle splendenti
e nell'arco immenso del cielo.

Jessica, è tanto più facile
pensare alle nostre vite
mentre ci muoviamo sotto l'effimero sfolgorio delle foglie,
amando quel che abbiamo, 
piuttosto che pensare com'è che
piccoli esseri come noi
viaggino nel buio
senza un palese percorso
né un fine in vista.

Eppure ci sono state occasioni che ricordo
sotto lo stesso cielo
quando le ossa del corpo si sono fatte luce,
e la ferita del cranio
s'è aperta a ricevere
i raggi freddi del cosmo
e sono state, per un istante,
esse stesse cosmo,
ci sono state occasioni in cui riuscire a credere
che fossimo figli delle stelle
e che le nostre parole fossero fatte della stessa
polvere che fiammeggia nello spazio,
occasioni in cui riuscivo a percepire la levità del respiro,
il peso di un'intera giornata
giunto a un punto di riposo.

Ma stasera
è diverso.
Intimidito dal buio
in cui insieme vaghiamo, o svaniamo,
immagino una luce
che non ci permetta di separarci troppo,
una luna segreta, o uno specchio segreto,
un foglio di carta,
qualcosa che potresti portare con te
nel buio
quando io sono lontano.

                                                        di Mark Strand




venerdì 19 luglio 2019

Viviamo vite instabili


  


A passeggio con te

                                                                                                      di Mark Strand


Priva dell'arguzia e della profondità
propria dei paesaggi
luminosi dei nostri sogni,
questa campagna
che percorriamo a piedi
non è meno bella per il fatto
che è solo ciò che sembra essere.
Innalzandosi dallo stagno
tinto della propria ombra,
l'albero a cui ci appoggiamo
non è mai stato inteso perché posasse
per qualcos'altro,
tanto meno per noi.
Né questi campi
e fossi erano stati progettati
con noi in mente.
Viviamo vite instabili
e restiamo in un certo posto
solo quanto basta a renderci conto
che non gli apparteniamo.
Perfino le nuvole, che si fermano
silenziose sopra di noi
sono nebulose pur senza
assomigliarci, e assalendo
l'aria vuota,
non prendono in considerazione
la nostra solitudine attuale.
Ma poi, perché dovrebbe importarci?
Ce ne stiamo già andando,
come a dire:
noi non siamo qui
noi siamo sempre stati lontani.

Due persone che percorrono a piedi una campagna: uno stagno, un albero, dei campi, sopra di loro nubi silenziose. Questo scorcio di natura non ha nessuna delle qualità che hanno i paesaggi luminosi che ci appaiono in sogno.
Solo uno stagno, un albero, dei campi, né per questo sono meno belli. Sono belli per quel che sono.
Non sono stati pensati per noi, né progettati in funzione nostra, non ci assomigliano - dice l'io lirico che qui parla al plurale - e noi non apparteniamo a loro.

Poi il verso bellissimo, essenziale, una sententiaViviamo vite instabili

All'uomo appartiene l'instabilità, l'effimera bellezza di una stagione che trascorre, l'ombra fugace sul volto che d'un tratto non è più quello conosciuto, il perduto vigore delle gambe aduse alle vette più ardite. Propria dell'uomo è l'incertezza e l'inquietudine.
Anche in questa poesia di Mark Strand tuttavia non dovremmo fare l'errore di concentrarci sulle ombre che le cose proiettano. Certo, non apparteniamo a quella sfera dell'essere a cui appartengono lo stagno, l'albero, i campi, persino le mutevoli nuvole.  Sarebbe solo illusione consolatoria il pensarlo.

Noi non siamo qui... noi siamo sempre stati lontani

Alla sostanziale estraneità dell'uomo rispetto al mondo Strand non intende lasciare l'ultima parola; in questo senso va inteso ciò che ha scritto Caterina Ricciardi,  secondo cui l'intento del poeta sarebbe "quello di inter­ro­gare entità inco­no­sci­bili, aprire porte proi­bite, come fecero altri in altri tempi e con altre alle­go­rie, e altri intenti, incluso quello di ritor­nare a rive­dere la luce" ("il Manifesto, 15/06/2014, "Mark Strand: aspetta, silenzio").

Se lo stagno, l'albero, i campi, le nuvole in cui si muovono i protagonisti della poesia appaiono del tutto insensibili al destino dei due viandanti e la voce dell'io lirico rimarca il fatto che condizione naturale e immutabile dell'uomo è l'essere lontani, proprio lungo quel confine incerto tra i due mondi, traversando quello spazio indicibile della linea d'ombra, lungo il meridiano zero dell'esistenza, proprio là deve incamminarsi il poeta.

sabato 13 luglio 2019

Un cacciatore di ombre



UN ALTRO POSTO

                                                                                                di Mark Strand

Cammino
nel poco di luce
che c'è

insufficiente sia alla cecità
che al veder chiaro
ciò che verrà

eppure vedo
l'acqua
l'unica barca
l'uomo in piedi

non è uno che conosco

questo è un altro posto
il poco di luce che c'è
s'apre come una rete
sul nulla

ciò che verrà
è arrivato a questo punto
altre volte

questo è lo specchio
in cui dorme il dolore
questo è il paese
dove non viene più nessuno

                                                     
C'è un io che parla in questa poesia - quelli bravi lo chiamano l'io lirico - e questo io ci dice che cammina in un poco di luce che non è cecità, ma neppure un veder chiaro/ciò che verrà . Eppure qualcosa vede, ci assicura l'io lirico: non vede tutto ciò che lo circonda, non vede quel che verrà, ma qualcosa vede.

Una distesa d'acqua, una barca solitaria, un uomo in piedi, sconosciuto.

L'immagine è precisa, levigata, essenziale, come spesso accade nelle poesie di Strand, che diffida delle parole linguisticamente incerte o elusive. Ciò che nella luce fioca è percepito viene restituito con tutta la precisione possibile.

Questo - tuttavia - è un altro posto. Non è la strada che facciamo per andare a lavoro, non il letto dove abbracciamo la sposa al mattino, non la vetrina su cui indugia lo sguardo, non il caffè dove ci raggiunge il vociare confuso di volti sconosciuti o il sorriso sperato dell'amica attesa. Secondo quanto Mark Strand stesso ha scritto «Da qui sgorga la poesia: abitiamo in un posto / che non è nostro, e, soprattutto, non è noi»

 La poca luce che in questo luogo si diffonde  s'apre come una rete/sul nulla. Di fronte a questi versi conviene fermarci, perché sono come un precipitato di energia: la luce si apre come una rete sul nulla... L'immagine, ancora una volta, appare nitida, precisa, anche se il significato - certo - risulta meno chiaro, richiede uno sforzo intenso, un cambio di passo. La luce fioca prova ad abbracciare la realtà, come una rete gettata nell'acqua per prendere dei pesci, ma è sul nulla che essa si apre...

Non si deve pensare qui ad un esito nichilistico della poesia. Luigi Sanpietro in un articolo apparso su Il Sole 24 ore ha definito Strand  come "un cacciatore di ombre" Un cacciatore di "ciò che presuppone un corpo, cioè una sostanza. È un detective metafisico che si sofferma sulle tracce di chi – o di ciò – che ora, qui, è assente e non si vede, ma che deve pur esserci o esserci stato". (https://st.ilsole24ore.com/art/cultura/2011-07-17/cacciatore-ombre-165630.shtml?uuid=AaQipvoD).
Egli  si muove piuttosto  verso una sorta di certezza nei confronti delle cose invisibili, che però in luogo di apparire negativa – il nulla alla fine di tutto – è invece protesa a sporgersi sul confine oltre il quale devono arrestarsi la voce e lo sguardo. Nella intuizione tuttavia che le ombre possano essere la proiezione, il presupposto di qualcosa che rimane.

Nell'ultima strofa, che si compone di quattro versi di straordinaria intensità espressiva, un aspetto apparentemente paradossale viene in evidenza. Questo luogo altro, questo luogo di confine, è specchio/in cui dorme il dolore. Il dolore non scompare, non è riscattato, non lo si può obliare, ma dorme, come sopito, senza più imprimere il proprio sigillo sui corpi degli uomini, ma pur sempre parte del tutto. L'altro posto,  l'altrove, in cui siamo capitati, non a caso, è uno specchio... il luogo dove all'uomo è dato ri-conoscersi.

Eppure... questo posto altro è anche il paese dove non viene più nessuno...