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sabato 12 settembre 2020

ci solleva dall'arbitrio dei sogni

 


        C'è una certa ora ...

                                                                  (Tjutčev)


C'è una certa ora - come un peso buttato via:

quando in noi l'arroganza è domata.

Un'ora di apprendistato, in ogni esistenza

trionfalmente ineluttabile.


Un'alta ora, in cui, deposta l'arma

ai piedi di chi ci ha indicato - il Dito,

la porpora di guerriero con il pelo di cammello

scambiamo sulla sabbia del mare.


Oh, quell'ora, che all'impresa come una Voce

ci solleva dall'arbitrio dei giorni!

Oh quell'ora, in cui come spiga matura,

ci pieghiamo sotto il nostro peso.


E la spiga cresce e scocca l'ora della gioia,

e il grano brama la macina.

Legge! Legge! Già nell'utero della terra

giogo da me concupito.


Ora dell'apprendistato! Ma un'altra luce

ci si fa vedere e conoscere - appena accesa l'aurora.

Te benedetta, ora suprema della solitudine

che passo passo la segui!



15 aprile 1921


di Marina Cvetaeva


Sostiene Jorge Luis Borges che “qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà di un solo momento: quello in cui l’uomo sa per sempre chi è”. 

La poesia di Marina Cvetaeva parla proprio di questo, di quel momento, di quell'ora che è come un peso buttato via. Un grave fardello pesava su di noi, rallentava il passo: in quei giorni la mente sta ferma e il cuore si fa pesante. Ed ecco viene l'ora in cui questo peso, d'un tratto, è buttato via. Come è possibile? In un verso straordinario la poetessa russa cattura con esattezza il carattere speciale di questo tempo: quando in noi l'arroganza è domata. Ogni parola è qui scelta e disposta nel verso con nitidezza:  l'orgoglio (гордыню in russo vuol dire arroganza ed anche orgoglio) infatti è domato da una forza più grande, non è abbandonato con il distacco della raggiunta sapienza, ma vinto da sconfitte e delusioni, sottoposto alla ferrea legge dell'inevitabile. Non ha 'rinunciato' la Cvetaeva al suo orgoglio, come - forse - non possiamo rinunciarci noi. Piuttosto ne contempla la sconfitta.

Un'ora di apprendistato tuttavia è questa: l'io lirico dice di aver imparato qualcosa di importante, come un apprendista che ruba il mestiere all'artigiano suo maestro. Credeva di sapere  - nella sua/nostra arroganza - ha invece sperimentato - così come fa l'apprendista di una bottega - imparando ciò che non conosceva. 

Quest'ora è poi un'ora di trionfo, un'alta ora che ci solleva all'impresa dall'arbitrio dei giorni. Non è un'ora qualsiasi, un momento di un tempo, sempre uguale, senza volto. E' l'ora in cui ci appropriamo davvero del nostro destino; come il generale che celebra il trionfo tra i canti dei suoi soldati dirigendosi verso il tempio dove deporrà le armi del nemico vinto. 

Abbiamo qui la rappresentazione di due diversi movimenti: il primo indica la direzione che spinge all'impresa. La vita acquista sapore e significato nell'ora in cui scopriamo l'impresa a cui siamo destinati. Il secondo movimento rappresenta il distacco, il sollevarsi dall'arbitrio dei giorni ... Mi fermo un attimo, quasi senza fiato di fronte ad un verso meraviglioso, in cui brilla la ragione stessa del linguaggio poetico che, secondo Ezra Pound ,"è l'arte di caricare ogni parola del suo massimo significato". Profondissima intuizione, se di intuizione si tratta e non invece, come sembra, di ispirazione. L'ora del nostro apprendistato è l'ora che ci solleva, ci libera, potremmo anche dire, da una forza contraria che si oppone al nostro sollevarci e all'impresa che ci attende. Tale forza ha un nome, quello di arbitrio, che ben si adatta ad un imperio ferreo ed insensibile, incapace per natura di dare giustificazione delle sua azioni. L'arbitrio dei giorni è ciò che spesso viviamo: giorni si accumulano su giorni secondo un ordito la cui tessitura ci pare incomprensibile più che ingiusta. Al giorno della gioia succede quello della amarezza, a quello del morso dell'amore quello dello sguardo indifferente; il passo che ieri procedeva sicuro sulle creste ventose si muta d'un tratto nella esitante cautela. E' da tutto questo che l'ora dell'apprendistato ci solleva.

Oh quell'ora, in cui come spiga matura,

ci pieghiamo sotto il nostro peso

La stessa ora che solleva all'impresa è anche quella in cui, simili ad una spiga matura, ci pieghiamo sotto il nostro peso, forse l'ultimo passaggio del nostro apprendistato. Accogliere con gioia il destino che ci sottrae all'arbitrio del tempo, bramare la macina e l'ora dell'aurora che si accende. Un'altra luce ci si fa vedere e conoscere e possiamo benedire la suprema solitudine che ne segue il passo.

domenica 22 marzo 2020

ricordate il vento del mattino e la steppa in argento?





Cari compagni di strada che con noi divideste l'asilo notturno!
Verste, e verste, e verste, e pane raffermo...
Rimbombo dei carri zigani,
di fiumi che fuggono a ritroso -
rimbombo...

Ah, nella precoce, paradisiaca, zigana aurora,
ricordate il vento del mattino e la steppa in argento?
La fumata turchina sulla montagna
e del re zigano -
la canzone ? ...

Nella nera mezzanotte, sotto la cortina dei rami antichi,

noi vi regalammo stupendi - come la notte - figli,
miseri - come la notte - figli, 
e rimbombava l'usignolo -
di gloria.

Non vi trattennero, compagni di strada di un'età portentosa,

le nostre povere voluttà e i poveri nostri conviti.

Ardenti fiammeggiavano i falò,

ci cadevano addosso sui tappeti -
gli astri ...


29 gennaio 1917

       di Marina Cvetaeva

Ci sono poesie che sono come un portale magico, o come una cabina di teletrasporto in un'astronave. Insomma, in un attimo sei lì, dove i versi ti precipitano, in un paesaggio di "interminati spazi", verste, e verste, e verste di cammino, condividendo pane raffermo, tra il rimbombo dei carri zigani e quello dei fiumi che fuggono a ritroso. Siamo in Russia lungo una strada che sembra non finire mai, ci accompagnano alcuni cari compagni di strada, con i quali a sera ci fermiamo per dividere l'asilo notturno. Una strofa appena e non ci sono più le mura di casa attorno, i corridoi che in queste giornate di quarantena percorriamo, gli oggetti quotidiani della nostra secessione dalla vita sociale.

Tutto è nel segno di un'esistenza girovaga, persino l'aurora si sveglia fuggendo ai suoi obblighi e reclama il diritto ad essere zigana; anche lei, di solito così puntuale. E l'immaginazione si lascia portare dal vento del mattino, percorre con lui la steppa vestita in argento, tende l'orecchio alla canzone del re zigano.

In ogni poesia, per quanto sia bella c'è sempre un verso in cui sembra che il poeta sia riuscito a concentrare una forza espressiva non comune, che urge e afferra e non lascia scampo. Per me Marina Cvetaeva ha fatto una specie di magia nell'ultima strofa: 

Ardenti fiammeggiavano i falò,
ci cadevano addosso sui tappeti -
gli astri ...





lunedì 15 luglio 2019

Ci sono al mondo esseri superflui





Ci sono al mondo esseri superflui,

creature in più, aggiunte senza peso.

(Assenti dagli elenchi e dai prontuari,

inquilini dei pozzi più neri.)


Ci sono al mondo esseri cavi, esseri presi

a spinte, muti: letame

e chiodo per gli strascichi di seta.

Ripugnano anche al fango delle ruote.


Ci sono al mondo diafani, invisibili:

(screziati dal marchio della lebbra!)

Ci sono Giobbe, che potrebbero invidiare

Giobbe… ma ai poeti, a noi poeti,


noi paria e pari a Dio –

è dato, straripando dalle rive,

rotti gli argini, rubare

anche le vergini agli dèi.


22 aprile 1923

                                                                                       di  Marina Cvetaeva



venerdì 5 luglio 2019

Un mondiale nomadismo è cominciato nel buio

                                         
fotografia di Dmitry Donskoy
                                                                   


                                                                                                                  di Marina Cvetaeva

Un mondiale nomadismo è cominciato nel buio:

sono gli alberi che vagano sulla terra notturna.

Sono i grappoli che fermentano in vino dorato,

sono le stelle che di casa in casa peregrinano,

sono i fiumi che il cammino cominciano a ritroso!

E io ho voglia di venire da te sul petto - a dormire.



                                                                                                                    14 gennaio 1917




Ovunque è turbamento in quel lontano inverno del 1917: gli alberi si muovono nella notte e i fiumi scorrono a ritroso. Le stelle nel cielo vanno vagando come in un pellegrinaggio senza meta e i grappoli in inverno si mutano in vino dorato. Allo sconvolgimento della natura corrisponde quello della storia: sono quelli i mesi in cui l'Europa è ferita da una guerra che ne cambierà per sempre il destino e la Russia è attraversata da una violenza che travolge tutto, furiosamente.

... un mondiale nomadismo

Nulla è più al suo posto, ogni ordine tradizionale sembra vacillare, tutto si muove senza una direzione, una meta.

C'è un luogo tuttavia verso il quale Marina Cvetaeva vuole dirigersi, incurante di tutto quello che accade attorno a lei. E' il petto del suo amore, l'unico posto dove posare il capo, il solo dove poter abbandonarsi. Forse non sarà abbastanza per sfuggire alla forza devastatrice che agita la storia, ma è lì che lei vuole essere, in nessun altro luogo vale la pena dimorare.

E io ho voglia di venire da te sul petto - a dormire...



lunedì 24 giugno 2019

Come pupilla nera



di Marina Cvetaeva, Come pupilla nera










Come pupilla, nera; come pupilla, succhiante
la luce – ti amo, perspicace notte.

Dammi voce per cantarti, o progenitrice
delle canzoni, nella cui mano è la briglia dei quattro venti.

Chiamando te, te glorificando, io sono soltanto
una conchiglia dove ancora non s’è taciuto l’oceano

Notte! Ho già scrutato a sazietà nelle pupille umane
Inceneriscimi!  Nero sole – notte!




Per Marina Cvetaeva uno dei modi per conoscere il mondo e se stessa è dormire e sognare. Significativamente in russo la stessa parola (son) esprime sia il sonno che il sogno e spesso la Cvetaeva gioca abilmente con il doppio significato della parola. A questo proposito scrive: “il sogno  – questa sono io in piena libertà , è quell’aria che mi serva per respirare. E’ il mio tempo, è la mia ora del giorno, è la mia stagione dell’anno, la mia longitudine e latitudine. Soltanto in esso sono io. Il resto è casualità”.
Il motivo del vedere in sogno (in russo snovidenie) costituisce tra l’altro uno dei motivi ricorrenti della corrispondenza tra la Cvetaeva e Boris Pasternak; soltanto nell'esperienza del sogno/sonno l’uomo si risveglia alla percezione più nitida della realtà del mondo. Ciò è particolarmente evidente nella poesia Come pupilla nera, dove viene tematizzata la notte, il tempo cioè in cui è possibile entrare - o profondarsi come direbbe Dante - in una consapevolezza della realtà altrimenti inattingibile.
A tal riguardo Pietro A. Zvetermich, che ha curato l’edizione e la traduzione degli scritti della poetessa moscovita ha sottolineato con chiarezza come la Cvetaeva cercava di fare della sua poesia uno strumento di “reperimento, di scoperta del concreto di cui è tessuta la vita reale con tutti i suoi minimi – mediocri, esaltanti o miseri –dettagli”. La poesia è anzitutto un’operazione conoscitiva.
La notte è perspicace: sotto il suo manto le cose non si nascondono, ma si rivelano nella loro essenza; non più sottoposte agli inganni della luce del giorno e dello stato di veglia, si manifestano per quello che sono.
La notte è una pupilla nera che succhia la luce, vuole assorbire tutto, con avidità; la notte è un modo di guardare al mondo, una finestra aperta su ogni minimo dettaglio, mediocre, esaltante o misero che sia. Si condensa in questo sguardo tutta la tensione verso lo sforzo di penetrare il reale, ciò che per la poetessa russa, come abbiamo visto, è il vero unico possibile destino del discorso poetico.
Solo dallo sguardo della notte e nella notte può nascere il canto: Dammi voce per cantarti, o progenitrice/delle canzoni… La voce del poeta è un dono della notte, non una creazione del soggetto. Come una matrice o un utero, la notte è progenitrice della poesia che solo da essa può emergere. Chi è il poeta allora? Una conchiglia dove ancora non s’è taciuto l’oceano. Bellissimo quell’avverbio: ancora. Non manca molto forse a che quella voce che fa risuonare la conchiglia si tacerà per sempre, ma non ancora, ancora per un po’ essa riecheggia…
Lo scioglimento finale giunge rapido, con uno scarto improvviso ed amaro: ho già scrutato a sazietà nelle pupille umane. Non ci dice cosa ha visto, le ambizioni deluse, le vittorie o le sconfitte, le passioni, il momento esatto in cui ha creduto di avere al suo fianco qualcuno e questo invece era altrove.

I dettagli mediocri, esaltanti o miseri...

C’è tutta la fragilità della sventura umana in questa espressione: ho già scrutato a sazietà. L’ultimo verso è come il sigillo impresso sulla volontà fermamente perseguita di avvicinamento alla verità che ormai non può che essere non già desiderio di morire, ma di non esistere, diventare… nulla, cenere infeconda, nel Sole nero della notte. 

Eppure, giunti nel preciso punto dove la Cvetaeva voleva che la seguissimo, ad una longitudine e latitudine esattamente determinati dal timbro della sua voce non fioca, né esile, dietro i suoi passi serrati, al cospetto di questo immenso Sole nero che disvela e incenerisce, non possiamo fare a meno di intuire la speranza incofessata e fragile di un chiarore appena visibile, capace di sfidare il nulla. Perché inesausto è il desiderio di cantare, di non arrendersi al mormorio dell'oceano che ancora non s'è taciuto. Il canto nasce dalla notte ma non è a lei destinato, è quello che rimane, ciò su cui persino il Nero sole non ha dominio.

Altre voci forse ci guideranno verso quell'accenno di chiarore che non è di qui, poiché è da un altrove impensabile che giunge. Tuttavia solo da questa ultima tappa del nostro viaggio al termine della notte, deposte tutte le facili illusioni, possiamo scorgere quel tenue chiarore. Di questo viaggio è Marina Cvetaeva che dobbiamo ringraziare.