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domenica 25 ottobre 2020

Val la pena tornare, magari diverso

 


Paesaggio


Quest’è il giorno che salgono le nebbie dal fiume

nella bella città, in mezzo a prati e colline,

e la sfumano come un ricordo. I vapori confondono

ogni verde, ma ancora le donne dai vivi colori

vi camminano. Vanno nella bianca penombra

sorridenti: per strada può accadere ogni cosa.

Può accadere che l’aria ubriachi.


                                                            Il mattino

si sarà spalancato in un largo silenzio

attutendo ogni voce. Persino il pezzente,

che non ha una città né una casa, l’avrà respirato,

come aspira il bicchiere di grappa a digiuno.

Val la pena aver fame o esser stato tradito

dalla bocca più dolce, pur di uscire a quel cielo

ritrovando al respiro i ricordi più lievi.


Ogni via, ogni spigolo schietto di casa

nella nebbia, conserva un antico tremore:

chi lo sente non può abbandonarsi. Non può abbandonare

la sua ebrezza tranquilla, composta di cose

dalla vita pregnante, scoperte a riscontro

d’una casa o d’un albero, d’un pensiero improvviso.

Anche i grossi cavalli, che saranno passati

tra la nebbia nell’alba, parleranno d’allora.


O magari un ragazzo scappato di casa

torna proprio quest’oggi, che sale la nebbia

sopra il fiume, e dimentica tutta la vita,

le miserie, la fame e le fedi tradite,

per fermarsi su un angolo, bevendo il mattino.

Val la pena tornare, magari diverso.


                       Cesare Pavese da “Lavorare stanca”

martedì 16 luglio 2019

a tutti quelli che sognano di fuggire all'alba, verso le colline e a quei pochi, coraggiosi, che lo fanno davvero...





Group of Dock Workers Having Lunch by the Cuyahoga River in Cleveland, Ohio



Esterno 

                                                                                                        di Cesare Pavese


Quel ragazzo scomparso al mattino, non torna.
Ha lasciato la pala, ancor fredda, all'uncino 
- era l'alba - nessuno ha voluto seguirlo: 
si è buttato su certe colline. Un ragazzo 
dell'età che comincia a staccare bestemmie 
non sa fare discorsi. Nessuno
ha voluto seguirlo. Era un'alba bruciata 
di febbraio, ogni tronco colore del sangue 
aggrumato. Nessuno sentiva nell'aria
il tepore futuro.
                   Il mattino è trascorso
e la fabbrica libera donne e operai.
Nel bel sole, qualcuno - il lavoro riprende 
fra mezz'ora - si stende a mangiare affamato. 
Ma c'è un umido dolce che morde nel sangue 
e alla terra dà brividi verdi. Si fuma
e si vede che il cielo è sereno, e lontano 
le colline son viola. Varrebbe la pena
di restarsene lunghi per terra nel sole.
Ma buon conto si mangia. Chissà se ha mangiato quel 
ragazzo testardo? Dice un secco operaio,
che, va bene, la schiena si rompe al lavoro,
ma mangiare si mangia. Si fuma persino.
L'uomo è come una bestia, che vorrebbe far niente. 

Son le bestie che sentono il tempo, e il ragazzo 
l'ha sentito all'alba. E ci sono dei cani
che finiscono marci in un fosso. La terra 
prende tutto. Chi sa se il ragazzo finisce 
dentro un fosso affamato? E' scappato nell'alba 
senza fare discorsi, con quattro bestemmie, 
alto il naso nell'aria.
                                   Ci pensano tutti
aspettando il lavoro, come un gregge svogliato.


La poesia di Cesare Pavese, Esterno è tratta dalla raccolta Lavorare stanca; il titolo allude probabilmente alla condizione altra, 'esterna'  del ragazzo rispetto a un mondo in cui la schiena si rompe al lavoro,/ma mangiare si mangia . In tale prospettiva essa illumina pienamente anche il titolo dell’intera raccolta, in cui il lavoro è visto come insieme di rapporti umani caratterizzati dalla legge dello sfruttamento economico e della  necessità. 

In un mattino di febbraio un ragazzo scompare, appende il suo attrezzo ad  un gancio sul muro e si avvia da solo verso le colline, orgoglioso, alto il naso nell'aria, senza fare troppi discorsi. Nessuno ha voluto seguirlo, nessuno ha sentito in quel freddo mattino il tepore futuro della primavera che viene.

E' l'ora di pranzo. gli operai consumano il loro pasto, mangiano il pane che è frutto della schiena rotta dalla fatica; è un piccolo attimo di libertà in una situazione in cui, per il poeta, evidentemente, non si è liberi: la fabbrica libera donne e operai.

Il pensiero di tutti va a quel ragazzo che ha sentito un richiamo al quale non sa resistere:c'è un umido dolce che morde nel sangue/e alla terra dà brividi verdi. Si fanno domande gli operai sulla sorte a cui potrà andare incontro il fuggitivo, ma il pensiero ritorna al lavoro necessario, a quello che darà loro il pane per i propri figli: come un gregge svogliato gli operai attendono di ricominciare. Il corpo, la fatica, l'umiliazione è quello che oggi si prenderà la fabbrica, non il cuore, quello viaggia con il ragazzo che si è buttato verso le colline...

Quello che mi piace di questa poesia è che lo stesso sguardo, composto e benevolo abbraccia il coraggio del giovane che sceglie di buttarsi verso le colline e gli operai che rimangono prigionieri del loro lavoro opprimente.

Tutti sono  coinvolti nella dolorosa esperienza del mestiere di vivere...