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domenica 31 dicembre 2023

Come spade in disordine




 Come spade in disordine

                                Omaggio minimo a Stéphane Mallarmé


Come spade in disordine 

la luce scorre sui campi.

Isole d'ombra svaniscono 

e tentano, invano di sopravvivere più lontano.

, di nuovo, le raggiunge il fulgore 

del Mezzogiorno che ordina le sue truppe 

e stabilisce i suoi domini.

L'uomo nulla sa di questi combattimenti silenziosi.

La sua vocazione di penombra, la sua abitudine all'oblio,

le sue usanze, infine, e le sue miserie, 

gli negano la gioia di questa festa imprevista 

che accade per disegno capriccioso 

da chi, dall'alto lancia dadi muti

la cui cifra mai conosceremo. 

I saggi, frattanto, predicano il conformismo.

Solo gli dèi sanno  che questa virtù incerta

è un altro vano tentativo di abolire la sorte.

                      Alvaro Mutis , Somma di Maqroll il gabbiere, Einaudi - traduzione di Fabio Rodriguez Amaya


Ed ecco la versione originale:


Como espadas en desorden

  la luz recorre los campos.

Islas de sombra se desvanecen

e intentan, en vano, sobrevivir más lejos.

  Allí, de nuevo, las alcanza el fulgor

del mediodía que ordena sus huestes

y establece sus dominios.

El hombre nada sabe de estos callados combates.

Su vocación de penumbra, su costumbre de olvido,

sus hábitos, en fin, y sus lacerias,

  le niegan el goce de esa fiesta imprevista

que sucede por caprichoso designio

de quienes, en lo alto, lanzan los mudos dados

cuya cifra jamás conoceremos.

Los sabios, entretanto, predican la conformidad.

Sólo los dioses saben que esta virtud incierta

es otro vano intento de abolir el azar.


Da poco è passato il solstizio d'inverno: il Sole lentamente comincia a riprendersi ciò che la Notte gli aveva sottratto. La luce ogni giorno ritorna a scorrere sui campi con lampi e bagliori che sembrano spade, sparse qua e là. Il fenomeno, consueto e misurabile, della vittoria quotidiana del Sole diventa nella poesia di Álvaro Mutis una battaglia nella quale si scontrano in silenzio truppe di opposti schieramenti: le ombre tentano invano di contrastare l'inevitabile dominio della luce del Mezzogiorno. Ma l'uomo non si accorge di questa quotidiana e silenziosa lotta, la vocazione alla comoda e rassicurante penombra e la consuetudine allo smemoramento gli ottundono i sensi più reconditi, quelli dello spirito. Smarrita dunque la gioia della festa improvvisa per la vittoria della luce, subentra l'appagamento nutrito di abitudine. C'è del resto uno strano paradosso nei versi che abbiamo appena letto: perché dovremmo festeggiare ciò che sappiamo accadrà inevitabilmente? Il sorgere del Sole non è forse un evento che la fisica è in grado di misurare con approssimazioni quasi nulle? Non sappiamo con certezza che domani l'alba si leverà a quella data ora? e che la Luna si mostrerà a quell'altra? Come può esserci una festa per ciò che accade ogni giorno? 

Il poeta a queste domande sembra rispondere nei versi successivi, dove per prima cosa si fa riferimento ad un disegno capriccioso, poi ad un lancio di dadi muti e infine al fatto che per noi è impossibile decifrare ciò che su quei dadi è iscritto. Sono tutte espressioni con cui la poesia - a mio avviso - ci invita a riconsiderare le nostre certezze, il nostro modo di vedere ciò che ci accade intorno. Presumiamo di sapere, quando invece siamo spettatori distratti di un mistero che ci sfugge, creduli seguaci di una saggezza rassicurante ed illusoria. Se a noi è preclusa una più profonda comprensione del senso della vita - ci avverte il poeta - gli dèi e solo loro hanno compreso che esta virtud incierta, questa fallace attitudine tutta umana, non è che un altro, vano tentativo di abolire il caso, la sua imprevedibile autorità. 

L'ultimo verso è una vera e propria citazione della celebre poesia di Mallarmé Un coup de dés n'abolira jamais le Hasard: qui si chiarisce  anche il significato della dedica al poeta simbolista posta all'inizio di Como espadas en desorden. Come nei versi di Mallarmè, anche nella poesia di Mutis, il lancio dei dadi disegna il perimetro di un'esperienza interiore in cui convivono la sete di assoluto e l'impossibilità di raggiungerlo, la tensione verso il raggiungimento di certezze incrollabili e la consapevolezza che la casualità è elemento essenziale della nostra esperienza.

I versi di Álvaro Mutis forse sono avari di parole rassicuranti e a prima vista possono sembrare cupi e disperati, ma non lo sono. Piuttosto indicano una possibilità fragile, l'avvio di una strada nascosta e difficile, poco segnata sulle mappe, un sentiero come quelli che piacciono a chi viaggia guidato da una stella tenue. Il primo passo lungo tale sentiero in realtà non è un passo, è lo sguardo con cui guarderemo domani il Sole a Mezzogiorno.






                  

lunedì 8 febbraio 2021

per coloro che vegliano la miniera del tempo

 



Città


Un pianto,

un pianto di donna

interminabile,

acquietato,

quasi tranquillo.

Nella notte, un pianto di donna mi ha svegliato.

Prima un rumore di una serratura,

dopo piedi che vacillano,

e poi, all'improvviso, il pianto.

Sospiri intermittenti

come scrosci di un’acqua interiore,

densa,

imperiosa,

inesauribile,

come una chiusa che accumula e libera le sue acque

o come un'elica segreta

che ferma e riprende il suo lavoro

travasando il bianco tempo della notte.

Tutta la città è andata riempiendosi di questo pianto,

fino ai retri dove si accumulano le immondizie,

sotto le cupole degli ospedali,

sulle terrazze dell’estate,

nelle celle discrete  della prostituzione,

tra i fogli che scivolano lungo viali solitari,

con il vapore tiepido di certe cucine militari,

tra le medaglie che riposano nei cofanetti di teck,

un pianto di donna che ha pianto lungamente

nella stanza a fianco,

per tutti quelli che scavano la propria tomba nel sonno,

per coloro che vegliano la miniera del tempo,

per me che lo ascolto

senza conoscere altro

che il suo fragile rotolare all’intemperie

inseguendo le tacite sabbie dell’alba.


            di Álvaro Mutis, traduzione di Fabio Rodriguez Amaya


Nella notte, da una stanza chiusa a chiave si alza il pianto di una donna. Sembra non finire mai, poi si acquieta, diventa quasi tranquillo, riprende, denso, inesauribile. Come una diga che riversa le sue acque, tutte. La città lentamente si riempie di questo pianto, fino ai luoghi dove non tutti vanno, dove non si spinge lo sguardo volentieri. Si alza tra le cartacce di un viale solitario, oltre le stanzette dove le monete comprano l'illusione della passione, tra le medaglie concesse per antiche imprese. 

Non è solo per sé che piange questa donna eppure il suo pianto è come l'orazione di un'anacoreta che sfregia il silenzio del deserto. Il pianto della donna è per molti, ma solo un uomo sembra ascoltare. Si tratta di un personaggio conosciuto, il marinaio Maqroll, il Gabbiere, l'io poetico a cui Mutis ha affidato il compito di cantare le sue storie. E Maqroll è sveglio, ascolta il pianto che ora si arresta ora fluisce inarrestabile. Non sa nulla, se non  il suo fragile rotolare. Strano movimento questo del rotolare, non dipende dai muscoli, né dal senso di orientamento, ma dalla gravità e dalla inclinazione della terra. Basta un sussulto e si comincia a girare su se stessi,  nemmeno serve volerlo. Un rotolare fragile sembra una attività pericolosa; certo una cosa fragile che rotola andrà facilmente in frantumi, gli urti lasceranno cicatrici e  toglieranno via qualche pezzo. 

Nei versi finali di questa poesia i sensi vengono imprigionati da suoni e colori ora apollinei ora dionisiaci (secondo la bella espressione di Fabio Rodriguez Amaya), immagini di vita e di morte si confondono procedendo lungo traiettorie misteriose . Siamo di fronte all'epifania di un oracolo, nell'ora dell'estremo pericolo. Ma non abbiamo la vista sufficientemente aguzza, i sillogismi si arrestano impotenti sulle labbra.

Resta - e non è poco - il destino di ascoltare quel pianto. Forse è tutto quello che fa ancora la differenza: vegliare ed ascoltare.


giovedì 31 dicembre 2020

misura bene lo stupore delle differenze

 



CREPA MATTUTINA


Scava la tua miseria,

sondala, scopri le sue caverne più nascoste.

Olia gli ingranaggi della tua miseria,

mettila sul tuo cammino, fatti strada al suo fianco

e bussa a ogni porta

con le cartilagini bianche della tua miseria.

Confrontala con quella di altre genti

e misura bene lo stupore delle differenze,

la singolare acutezza dei suoi bordi.

Riparati negli angoli lievi della tua miseria.

Tieni presente in ogni istante

che la sua materia è la tua materia,

l’unico porto di cui conosci ogni rada,

ogni boa, ogni segnale dalla terra tiepida

dove giungi a regnare come Crusoe

tra la moltitudine di ombre

che ti sfiorano e che urti

senza cogliere né il suo proposito né i costumi.

Coltiva la tua miseria,

rendila duratura,

nutriti della sua linfa,

avvolgiti nel manto tessuto coi suoi fili più segreti.

Impara a riconoscerla fra tutte,

non permettere che sia familiare agli altri

né prolungata abusivamente dai tuoi.

Sia per te come acqua battesimale

sgorgata dalle grandi fogne municipali,

come i rivoli che nascono nei mattatoi.

Si confonda con le tue viscere, la tua miseria;

contenga fin da ora i capitoli della tua morte,

gli elementi del tuo abbandono più certo.

Non lasciare mai da parte la tua miseria,

anche se riposassi ai suoi argini

come vicino al corpo bianco

da cui si è ritirato il desiderio.

Tieni sempre pronta la tua miseria

e non permettere che evada per distrazione o per inganno.

Impara a riconoscerla fin nei suoi segni più lievi:

l’accartocciarsi delle sottili foglie del carbonero,

l’aprirsi dei fiori al primo fresco della sera,

la solitudine di una gabbia da circo bloccata nel fango

del cammino, la fuliggine nei sobborghi,

la gavetta d’ottone che misura la minestra nelle caserme,

i vestiti disordinati dei ciechi,

le campanelle che disperdono il richiamo

sul retro seminato di eucalipti,

lo iodio delle navigazioni.

Non mescolare la tua miseria con le questioni di ogni giorno.

Impara a conservarla per le tue ore di svago

e intreccia con lei la vera,

la sola materia duratura

del tuo episodio sulla terra.


         di Álvaro Mutis da “SUMMA DI MAQROLL IL GABBIERE”


Ci accingiamo in queste ore a salutare questo anno così difficile e mentre riguardavo le pagine del mio diario di bordo mi è venuto in mente Maqroll il gabbiere, un tipo che dovete assolutamente conoscere, sebbene i posti che ama frequentare non siano proprio raccomandabili. 

Nelle navi a vela di un tempo il gabbiere era il marinaio che si arrampicava sugli alberi e sui pennoni più alti per manovrare le vele o stare di vedetta. Ora le cose sono un po' cambiate ma lui spesso è solo lassù, vede prima degli altri l'ombra della terra a lungo attesa, l'arrivo di un fortunale che oscura il cielo, il soffio di una balena che si alza a tribordo. Il poeta colombiano Álvaro Mutis ha fatto del marinaio Maqroll, un gabbiere appunto, il protagonista dei suoi romanzi, la voce principale della sua poesia.

Mentre veglia sull'albero più alto, Maqroll percorre con lo sguardo "profumi, case abbandonate", vede alzarsi il fumo degli alambicchi, ode il canto delle Terre Alte. Il gabbiere scorge e grida allegrie e miserie, la stoltezza degli uomini, la danza dell'allegria. Contempla insieme la vita sofferta a sorsi e il filo di una spada rosa dalla ruggine. Guardando le cose da lassù ha imparato che la vita è la presa di coscienza della sconfitta, ma la sua via non è quella della resa, ma quella gioiosa della disperanza, in cui ha ancora senso la parola del poeta:

Lo stesso Maqroll ci avverte al riguardo in un'altra poesia dal titolo "I lavori perduti" : 

A nulla serve che il poeta lo dica ... la poesia è fatta da sempre. Vento solitario. Artiglio disseccato e friabile di un uccello potente e tranquillo, vecchio d'età  e valoroso nel suo ultimo istante.