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domenica 20 ottobre 2024

è un rullo di tamburo

 



Il nuovo cammino

    che sto per cominciare

corre in ogni direzione

    traversa monti e mari.

Ma se devo dire 

    quale ne sia la forma,

è un rullo di tamburo, uno squillo di tromba.

        

        Musō Sōseki, 1351 -  da "Jisei -Poesie dell'addio" SE editore


Nella cultura letteraria giapponese una delle forme tradizionali più amate e durature è costituita dal Jisei, un componimento poetico con cui l'autore, all'avvicinarsi della propria morte, si congeda con il mondo e la vita. Un esempio pregevole di tale forma è quello che potete leggere qui sopra composto da Musō Sōseki nel trentesimo giorno del nono mese del secondo anno Kannō, ovvero nell'anno1351della nostra era. Era costui un monaco che visse alla corte imperiale ed uno dei più celebrati creatori di giardini zen, alcuni dei quali si possono visitare ancora oggi in Giappone. Oltre che architetto di giardini zen, Musō Sōseki fu anche un calligrafo ed un poeta di grande talento. 

Nel suo jisei l'incombere della morte è rappresentato come un cammino sconosciuto che si apre tra monti e mari, senza una meta precisa, mosso non più da traguardi prestabiliti, ma dall'anelito alla Via, all'esperienza dell'illuminazione; del nuovo viaggio - avverte il poeta - non è facile definire i caratteri, ma se proprio si deve ricorrere alle parole, esso può essere paragonato al rullo di un tamburo o ad uno squillo di tromba. Un suono dunque, dotato di una sua vibrante energia, tutta spirituale: si innalza al di là delle rupi scoscese, oltre il fragore delle onde, al di là dei ripidi passi battuti dal vento. Il suono della tromba, il rullare del tamburo evocano il viaggio dell'io, finalmente liberato dal giogo della necessità (secondo il poeta greco Eschilo tale è la condizione umana), nulla rimpiangendo ma tutto amando.


        

                    

domenica 14 febbraio 2021

come il fiore del Loto



Quando cade,

solo allora galleggia

il fiore del loto.

                                Yamamoto Yosaburō

                                                  Diciotto aprile del ventesimo anno Shōwa (1945)

Questa è la poesia dell'addio (o Jisei come dicono i Giapponesi) che scrisse il sottotenente Yamamoto prima di decollare con il suo aeroplano per il suo ultimo viaggio: un'azione suicida destinata a colpire un bombardiere B-29 nemico. Erano quelli i giorni in cui prendeva corpo l'ultimo disperato tentativo di difendere "la terra del sole", poche settimane prima che una strana luce cancellasse per sempre la città di Hiroshima. Quei giovani aviatori passeranno alla storia come Kamikaze.
 Il Jisei in questione è citato nella preziosa raccolta curata da Ornella Civarda per la casa editrice SE, di cui ho già avuto modo di parlare su questo blog. Chi oggi si recasse nel giardino del tempio buddista di Renjōji, poco lontano da dove decollò il giovane Yamamotō, lo troverebbe scolpito sulla pietra del monumento alla pace che lì è stato eretto dopo la guerra.

Se vogliamo provare ad avvicinarci all'ispirazione profonda di questa poesia, non possiamo partire che dal fiore del Loto, a cui è connessa, nella cultura orientale, una vasta rete di significati simbolici, iconografici e spirituali: solo a titolo di esempio, si può citare il fatto che uno dei testi fondativi del buddismo è conosciuto come Sutra del Loto. 

Il Loto è una pianta acquatica meravigliosa, le foglie possono raggiungere un metro di diametro; galleggia in stagni e pozze d'acqua mentre le sue radici  prendono nutrimento dal fango melmoso in cui affondano.  Bellissimo sulla superficie di uno stagno, il fiore è inseparabile tuttavia dall'opacità delle acque sottostanti e dall'impurità della terra umida dalla quale trae vita. Il Loto è in questo senso immagine dell'Illuminazione: siamo radicati nel fango, ovvero nella catena delle aspettative e dei desideri sempre insoddisfatti, nella prigione dell'attaccamento che rende tutto oscuro. Ma possiamo anche diventare il fiore bellissimo che galleggia sulle acque senza esserne macchiato: i piedi sono piantati nel fango, la purezza dei colori galleggia sulle acque.

In questa struggente poesia del commiato, scritta in un mattino di aprile nell'imminenza di un volo senza ritorno, il fiorire del Loto, il suo galleggiare sulle acque stagnanti e torbide, e quindi il dischiudersi della vista che diviene limpida, libera da ogni inganno, è associato al cadere. E' probabile che il giovane Yamamoto avesse in mente il tempo in cui cadono i fiori di ciliegio, che da sempre in Giappone ha un profondo significato simbolico ed è vissuto intensamente, come una festa piena di malinconica gratitudine. Ciò che è bello - infatti - è destinato a cadere, a trascorrere velocemente, ma la bellezza che ci circonda è pur sempre attorno a noi e il suo trapassare può essere ancora vissuto con una commossa partecipazione che non indulge all'illusione. 

C'è un paradosso straordinario e potente in questa immagine: un fiore dalla bellezza inebriante diventa ciò che è per il fatto di allungare le sue radici attraverso acque putride ed opache e agganciarle nel fango e nella melma. 

Non posso fare a meno di pensare, tuttavia, che il nostro pilota poeta abbia voluto in questi versi dare espressione ad un altro cadere, più prossimo e drammatico per lui: quello del suo aeroplano, in mezzo alle nubi e alle esplosioni, mentre vola verso il suo obiettivo. Cadere dunque, per fiorire, precipitare tra il fuoco per galleggiare, sulle acque stagnanti dell'inazione e della rassegnazione. E il sorriso del risveglio che distende lo sguardo nella contemplazione del trascorrere del tutto.





martedì 10 novembre 2020

Una voce mi chiama

 



Una voce mi chiama

via da questa vita fugace

come una pioggia 
   
     d'estate


                  Shida Yaba  Terzo giorno del primo mese
                                       del quinto anno Genbun (1740)


Quello che avete appena letto è un tipo di poesia in voga in Giappone da secoli. E' chiamato Jisei, la poesia dell'addio, quella che si compone in prossimità della morte, quando il mondo comincia a declinare attorno a noi e ci apprestiamo ad abbandonare ogni cosa, ogni ricordo. Come in molti altri aspetti della vita i giapponesi sembrano attenersi ad un codice ben codificato, insito profondamente nei loro costumi. Lo ha ben spiegato Mario Vattani nel bel libro di cui è autore, "Svelare il Giappone": vi è come un ritmo giapponese di fare le cose, una forma riconoscibile in gran parte delle azioni che un uomo o una donna compiono abitualmente: accenno, pausa, azione perché "eseguire un'azione in modo sbrigativo, con una sola mossa, è volgare e animalesco". 
E' questa una forma che chi ha praticato una delle tante discipline marziali legate all'arte della spada conosce bene. Ogni allievo lo ha colto, osservando il proprio sensei nell'atto di riporre la spada nel fodero: accenno, pausa, azione.

Così sembra essere anche per questa forma di scrittura, Jisei, la poesia del commiato. Quasi che non vogliano invadere con un'emozione improvvisa la sfera interiore di chi è vicino, i Giapponesi da secoli, al presentimento della morte sono soliti affidare alla poesia il compito di aiutare lo "spirito ad allentare i legami con il mondo delle forme e a rilassare i contorni dell'io, così da renderlo partecipe della natura divina che palpita in ogni creatura". A spiegarci tutto ciò è Ornella Civardi che ha curato la raccolta intitolata "Jisei, poesie dell'addio" per l'elegante casa editrice SE. 

Shida Yaba, l'autore dell'haiku, che avete appena letto era stato discepolo di Matsuo Bashō, probabilmente il massimo maestro di questo genere di poesia - alcuni suoi componimenti potete leggerli anche qui sul blog. Yaba è già piegato dalla malattia quando si fa consegnare carta e pennello per comporre insieme le 17 sillabe che formano il suo haiku. Mancano in realtà ancora una ventina di giorni alla sua morte e il poeta avrà modo di scriverne ancora uno, di intensa e inconsueta mestizia prima di chiudere gli occhi per sempre. 

La poesia del terzo giorno del primo mese del quinto anno Genbun si apre con un richiamo rivolto al poeta, la voce probabilmente è proprio quella di Bashō, il suo maestro.  Certo non è una voce qualunque quella che il poeta sente, ma quella voce che custodiva nel suo cuore, probabilmente proprio quella che si attende di ascoltare. Accade anche ad alcune anime, quando sono tese come la corda di uno strumento musicale, pronte a risuonare ad uguale accordo, ad uguale intensità. 

In molti, credo, abbiamo fatto esperienza di questo particolare senso dell'ascolto: la voce di qualcuno che è importante per noi ci raggiunge prima che il senso della vista ne sveli la misura del passo, l'atteggiamento del viso, il sorriso consueto. Per chi è innamorato un tale momento è prezioso come il rumore delle acque di un torrente di montagna a lungo cercato tra forre e boschi. Il respiro si fa quasi esitante in quell'istante. 

La voce del maestro chiama, anzi chiama via, non per esortare ad un distacco più risoluto, ma a lasciare un peso ormai superfluo, un impedimento inutile. Via da questa vita fugace. L'inganno è voler trattenere ciò che deve passare, rivendicare ciò che è bene disperdere, indugiare tristemente su ciò che si deve contemplare nel suo trascorrere. 

come una pioggia d'estate.