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sabato 9 maggio 2020

Haiku n.7






Silenzio:

penetra la roccia

il canto delle cicale 


di Matsuo Bashō

Secondo Bashō, “assecondare i movimenti del cosmo” ed “essere amico delle quattro stagioni” significa immergersi nella bellezza della natura disponendo rettamente il proprio cuore: «Portato il proprio cuore in alto, alla più elevata comprensione bisogna tornarsene nel mondo».

Per entrare nel respiro di questo haiku bisogna probabilmente ricorrere ad uno dei termini fondamentali dell'estetica giapponese quello di fūryū una parola che ha un'origine antica ed un campo di applicazione molto ampio.  Tra i diversi significati della parola, dobbiamo ricorrere ad uno in particolare, fortemente influenzato dallo Zen: esso deriva dai due caratteri che formano la parola, 風流, " vento" e "che scorre"  

Così come il vento che soffia, che passa, possiamo solo avvertire fūryū   non vederlo. Lo sentiamo scorrere, ma non lo possiamo afferrare, né vedere.  Tuttavia fūryū è-  allo stesso tempo - qualcosa di cui possiamo accorgerci, anche se è inafferrabile. Ancor di più, proprio come il vento, fūryū  ci dischiude in un mondo di bellezza transitoria senza parole, di cui si può fare esperienza solo nell'istante: subito dopo è perduto per sempre. 

sabato 21 dicembre 2019

Solstizio d'inverno



Utagawa Hirosige, Bel tempo dopo la neve


Languore d’inverno:

nel mondo di un solo colore

il suono del vento.


di Matsuo Bashō



Salutiamo il solstizio d'inverno con un haiku di Matsuo Bashō. Un minimo orizzonte di parole, secondo la definizione di Roland Barthes, racchiude tutto ciò che vedete, un frammento del fluire della vita dell'Universo sospeso in una percezione irripetibile:
uno stato di estenuazione fisica ed interiore, ma al tempo stesso di composto rilassamento ...  languore d'inverno.
La vista percorre lo spazio d'intorno, un mondo di un solo colore. Tutto è bianco per la neve caduta, immobile, la natura sembra trattenere le sue voci, sospendere il suo stesso respiro, ma ecco a risvegliare in noi la consapevolezza del trascorrere di ogni cosa, anche del gelido inverno, anche della notte che lentamente retrocede al giorno, ... il suono del vento.

Ci sono tempi 'invernali' che dobbiamo attraversare, ore in cui sembra che tutto è diventato di un solo colore e che tutto sia cristallizzato, spossessato da ogni vitalità. Orazio ha colto in modo molto efficace questa sensazione in una delle sue Odi più celebri:

Tu vedi come si levi, bianco per la neve profonda,
il Soratte, come non sostengano più il peso
i boschi affaticati e per il gelo

penetrante i ruscelli si siano fermati.

Ogni verbo in questi versi indica una stasi, una fissità addirittura innaturale per i boschi e i fiumi. Così si sente il poeta nella stagione della sua vita in cui la giovinezza è già un ricordo. L'inverno della vita non genera rimpianto, ma l'invito al suo amico a porre legna abbondante sul fuoco e a versare il vino migliore per scacciare freddo e paura. L'amicizia e il vivere dando valore al giorno (quem Fòrs dièrum cùmque dabìt lucro/adpòne) sono i rimedi dati all'uomo.

Bashō ci mostra una strada diversa, che conduce nel cuore stesso di quel mondo di un solo colore, lì tra il bianco della neve, tra i boschi che quasi non ne sostengono più il peso e dove l'acqua stessa pare fermarsi ... tendere lo spirito, affinare la percezione, ecco 
... il suono del vento.









lunedì 29 luglio 2019

Haiku n.5

Chi è un viaggiatore?



Brughiera:

dirigo il mio cavallo

dove cantano gli uccelli.


                                          di Matsuo Bashō

Cosa fa di un uomo o di una donna un viaggiatore? Non uno che si limita a traslocare il proprio corpo in un altro luogo, anche lontano, ma quel particolare tipo della specie umana che chiamiamo viaggiatore?
Innanzitutto saper leggere una mappa, che sia una carta stradale, la mappa di intricati vicoli della città vecchia, o la carta di un sentiero, senza questa speciale qualità siamo destinati al novero dei "traslocatori". Il viaggiatore infatti non deve dimenticare di essere innanzitutto un esploratore.

Bashō, che percorse per anni strade e contrade del Giappone, ci indica in questo suo componimento un altro requisito irrinunciabile. Per quanto si possano programmare bene le tappe, le spese, i luoghi da visitare, il vero viaggiatore è dotato di un istinto che lo porta ad esplorare o ad abbandonarsi al vagabondare verso qualcosa che da qualche parte richiama. Nella poesia Bashō spinge il cavallo verso il canto degli uccelli, probabilmente allontanandosi dalla sua meta, spinto da un'urgenza che non ha nome.
Un improvviso riverbero della luce o un suono inatteso ed ecco che prendiamo una strada sconosciuta, poco battuta, a tratti impervia ... 
l'inatteso diviene meraviglia.

giovedì 11 luglio 2019

Haiku n.3





è primavera:

una collina che non ha nome

velata nel mattino

                                                                      
                                                                                   di Matsuo  Bashō (1644-1694)
                                                                                       

E poi? 

Spesso la reazione del lettore occidentale di fronte a uno haiku è più o meno questa. Non appena questo coglie l'immagine al centro delle diciassette sillabe che la compongono, la poesia si congeda da lui, lo abbandona veloce, lasciando un senso di incertezza se non di insoddisfazione. Dov'è la storia? si chiede il nostro lettore interdetto da una brevitas che sembra non mantenere ciò che promette.

In un precedente post dicevo che negli haiku non c'è mai  descrizione, piuttosto osserviamo - come dice  Elena Dal Pra - il cristallizzarsi, il coagularsi di un intuizione estetica, possibile solo a patto che il soggetto riesca a scomparire per lasciare tutto il posto all'oggetto, all'evento che diventa quasi un "correlativo oggettivo" nipponico, un 'espressione immediata e disinteressata che "non descrive, non declama, non giudica e non spiega, ma solamente presenta un'immagine...". Un frammento della storia del mondo colto nell'attimo del suo realizzarsi, indipendentemente dalla condizione o dalla prospettiva del soggetto.

Eccoci allo haiku di oggi: siamo di fronte ad un momento preciso della ruota delle stagioni, la primavera, con tutto quello che ciò comporta in termini di colori, di profumi, di fragranza dell'aria, del trascorrere inarrestabile del tempo. Il poeta dice semplicemente è primavera, poiché nell'estrema parsimonia verbale di questo genere di poesia l'indicazione del tempo ha - secondo la felice espressione di un valido studioso come Kennet Yesuda - la stessa funzione che ha la luce nella pittura espressionista. Lo svolgersi del tempo ci invita ad entrare nell'irripetibile fluire della vita.

Una visione di seguito ci appare: una collina senza nome, un luogo indefinito, che non possiamo rivendicare, fare nostro come facciamo con tutto ciò che ha un nome. Non diamo forse nomi a ciò con cui entriamo in relazione? Un cucciolo di cane è soltanto una delle tante varianti della biologia finché non gli viene dato un nome. Lo stesso accade con i luoghi della nostra memoria, quelli che identifichiamo come momenti importanti della nostra esistenza: per me, ad esempio, sono l'alba sulle colline della Galizia, il sole che riluce sulle pietre di Dùn Aengus, le rive del fiume Uebi Scebeli.

una collina senza nome ... l'immagine definisce invece i confini di uno spazio che non deve essere contaminato da alcuna emozione personale, né da alcuno sforzo di  logica concettuale, quella con cui attribuiamo identità assolute alle cose intorno a noi: quelle colline, quel riflesso del sole, le acque di quel fiume.

Nella visione del Buddismo  Zen tutto è mutamento, perché tutto è in perpetuo cambiamento. Una cosa non resta la stessa durante due attimi consecutivi e poiché le cose si trasformano di continuo esse non possono mantenere la propria identità assoluta. La cose nel tempo sono momentanee; nello spazio sono sprovviste di identità assoluta. Allo stesso modo le cose sono dinamiche e vive mentre i nostri concetti sono statici e poveri. Il mondo dei concetti è diverso dal mondo della realtà in sé  che si può conoscere solo per esperienza diretta. Ciò è chiamato saggezza non-immaginativa, una forma di conoscenza che nasce dalla meditazione, nella quale non si distingue l'oggetto dal soggetto: raggiungere la verità significa risvegliarsi nel seno della realtà (Thich Nhat Hanh, Introduzione allo Zen).

Nello Haiku di Bashō  la collina senza nome è poi descritta come velata nel mattino. La vista è offuscata dalla bruma del mattino, qualcosa si sottrae alla nostra pretesa di misurare e definire lo spazio. Qualcosa nell'indefinito chiarore del mattino sfugge all'esigenza tipicamente umana di descrivere il mondo per concetti e definizioni, lasciandoci in una salutare inquietudine. Si apre in questo modo la possibilità  di vedere qualcosa di universale e immutabile dietro a ciò che la parola e la logica non possono esprimere.

I Giapponesi a questo riguardo usano il termine yugen (幽玄) che può essere tradotto come “leggermente scuro”, ma ricopre una più ampia gamma di significati. Non serve infatti solo a descrivere il fascino delle cose in penombra di cui non riusciamo a conoscere del tutto i limiti ed i particolari, ma si usa anche per indicare ciò che, essendo oscuro, è insondabile, misterioso ed imperscrutabile, al di là dell’umana comprensione(http://www.sesshutoyo.com/…/estetica…/wabi-sabi-aware-yugen/).
Un paesaggio, un’opera d’arte, persino l'espressione improvvisa di un volto, ci trasmettono yugen quando riusciamo a cogliere in esse un bagliore, un’impressione che per un attimo, al di là delle capacità del linguaggio, sembri rivelarci un varco nel mistero dell’universo.


domenica 9 giugno 2019



Nobiltà di colui

che non deduce dai lampi

la vanità delle cose



Matsuo Bashō