Canta, mio cuore, i giardini che non sai; giardini
come fusi fossero nel vetro, chiari, irraggiungibili.
Acqua e rose di Ispahan o di Shiraz,
cantali beato, loda loro, ineguagliabili.
Mostra, mio cuore, come essi siano a te irrinunciabili.
Che a te pensano, i loro fichi che maturano.
Che tu con loro, come brezze divenute volto
tra i fiorenti rami, in rapporto ti trattieni.
Fuggi quell'errore che porta alla rinuncia
dell'avvenuta decisione, questa: d'essere!
Filo di seta t'intrecciasti nell'ordito.
A qualunque immagine tu ti sia intimamente unito
(fosse pure un momento da pena di vita generato)
senti che tutto il tappeto di lode vi è generato.
da "I sonetti a Orfeo" di Rainer Maria Rilke
Aggiungo poche righe, scritte in circostanze più complicate del solito, a commento di questa poesia, tratta dalla seconda parte de "I sonetti a Orfeo", la raccolta di liriche nella quale il poeta praghese sembra seguire con maggiore consapevolezza la via inaugurata nelle " Elegie di Duino". E' stato scritto che Rilke aveva trovato nelle Elegie il compito per la sua arte: "rappresentare le cose, le semplici cose, in modo tale che in questa rappresentazione fosse possibile scorgere l'amore che era nello sguardo di chi le aveva guardate e rese nella forma incancellabili per la nostra esperienza." Tuttavia a questo disegno si opponeva sin da subito la sensazione della caducità connaturata alla vita stessa, e delle cose e di chi le osserva. Che senso può avere scrivere versi, anche i più straordinari, mentre il mondo muta ed è sottoposto alle ingiurie del tempo? Come dunque rispondere alla coscienza del carattere transitorio ed effimero dell'esistenza?
Rilke nelle sue lettere, a questo riguardo, descriverà la propria svolta come opera di un turbine creativo, il cui centro di propagazione è il mito di Orfeo, il dio-cantore che con la sua lira (immagine dell'arte poetica) disegna figure nella volta del cielo, simili a costellazioni celesti: segno delle cose caduche che supera la caducità.
Nella lirica Canta mio cuore, i giardini che non sai possiamo riconoscere alcune di queste figure: la prima occupa le due quartine, nelle quali è evocato lo splendore dei giardini persiani di Shiraz e Ispahan. Tutto è bellezza ed armonia qui, ma anche lontananza: i giardini sono infatti magnifici, come fusi fossero nel vetro, e al tempo stesso irraggiungibili, ineguagliabili e infine irrinunciabili. Il protagonista lirico non li conosce tramite i sensi, ma in una dimensione più profonda ed intima: i fichi maturando pensano a lui e le brezze con lui si trattengono volentieri.
La seconda figura giunge dopo l' esortazione a fuggire l'errore, di fronte alla bellezza dei giardini - pur nella loro drammatica irraggiungibilità - non si deve rinunciare a ciò che si è deciso: l'inaudito sì alla vita, l'amore per ciò che è più vivo, l'accettazione del trascorrere delle cose.
Veniamo infine alla seconda figura orfica della lirica. La prima terzina si chiude con l'immagine di un filo che si è intrecciato con l'ordito di un tappeto; si tratta di una metafora di valore esistenziale, essa riguarda il poeta, il dio-cantore, noi lettori infine. Così come il filo di un tappeto si lega e si annoda secondo modi e disegni non sempre chiari, persino quando intreccia disegni segnati da pena e affanno, quel singolo filo canta la bellezza di tutto il tappeto, ne significa tutta la bellezza.