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giovedì 29 dicembre 2022

Canta, mio cuore, i giardini che non sai



Canta, mio cuore, i giardini che non sai; giardini
come fusi fossero nel vetro, chiari, irraggiungibili.
Acqua e rose di Ispahan o di Shiraz,
cantali beato, loda loro, ineguagliabili.

Mostra, mio cuore, come essi siano a te irrinunciabili.
Che a te pensano, i loro fichi che maturano.
Che tu con loro, come brezze divenute volto
tra i fiorenti rami, in rapporto ti trattieni.

Fuggi quell'errore che porta alla rinuncia
dell'avvenuta decisione, questa: d'essere!
Filo di seta t'intrecciasti nell'ordito.

A qualunque immagine tu ti sia intimamente unito
(fosse pure un momento da pena di vita generato)
senti che tutto il tappeto di lode vi è generato.


da "I sonetti a Orfeo" di Rainer Maria Rilke


Aggiungo poche righe, scritte in circostanze più complicate del solito, a commento di questa poesia, tratta dalla seconda parte de "I sonetti a Orfeo", la raccolta di liriche nella quale il poeta praghese sembra seguire con maggiore consapevolezza la via inaugurata nelle " Elegie di Duino". E' stato scritto che Rilke aveva trovato nelle Elegie il compito per la sua arte: "rappresentare le cose, le semplici cose, in modo tale che in questa rappresentazione fosse possibile scorgere l'amore che era nello sguardo di chi le aveva guardate e rese nella forma incancellabili per la nostra esperienza."  Tuttavia a questo disegno si opponeva sin da subito la sensazione della caducità connaturata alla vita stessa, e delle cose e di chi le osserva. Che senso può avere scrivere versi, anche i più straordinari, mentre il mondo muta ed è sottoposto alle ingiurie del tempo? Come dunque rispondere alla coscienza del carattere transitorio ed effimero dell'esistenza?

Rilke nelle sue lettere, a questo riguardo, descriverà la propria svolta come opera di un turbine creativo, il cui centro di propagazione è il mito di Orfeo, il dio-cantore che con la sua lira (immagine dell'arte poetica) disegna figure nella volta del cielo, simili a costellazioni celesti: segno delle cose caduche che supera la caducità. 

Nella lirica Canta mio cuore, i giardini che non sai possiamo riconoscere alcune di queste figure: la prima occupa le due quartine, nelle quali è evocato lo splendore dei giardini persiani di Shiraz e Ispahan. Tutto è bellezza ed armonia qui, ma anche lontananza: i giardini sono infatti magnifici, come fusi fossero nel vetro, e al tempo stesso irraggiungibili, ineguagliabili e infine irrinunciabili. Il protagonista lirico non li conosce tramite i sensi, ma in una dimensione più profonda ed intima: i fichi maturando pensano a lui e le brezze con lui si trattengono volentieri. 

La seconda figura giunge dopo l' esortazione a fuggire l'errore, di fronte alla bellezza dei giardini - pur nella loro drammatica irraggiungibilità - non si deve rinunciare a ciò che si è deciso: l'inaudito sì alla vita, l'amore per ciò che è più vivo, l'accettazione del trascorrere delle cose.  

Veniamo infine alla seconda figura orfica della lirica. La prima terzina si chiude con l'immagine di un filo che si è intrecciato con l'ordito di un tappeto; si tratta di una metafora di valore esistenziale, essa riguarda il poeta, il dio-cantore, noi lettori infine. Così come il filo di un tappeto si lega e si annoda secondo modi e disegni non sempre chiari, persino quando intreccia disegni segnati da pena e affanno, quel singolo filo canta la bellezza di tutto il tappeto, ne significa tutta la bellezza.




martedì 20 dicembre 2022

Che tutto desidera accoglierla





No, non lasciate chiuse

le porte della notte,

del fulmine, del vento,

di ciò che mai si è visto.

Restino aperte sempre

esse, le ben note.

E tutte, quelle ignote,

che si aprono

sui lunghi percorsi

da tracciare, nell’aria,

sulle rotte che stanno

cercandosi un varco

con volontà oscura

e ancora non l’hanno trovato

in punti cardinali.

Mettete alti segnali,

astri, meraviglie;

che si veda chiaramente

che è qui, che tutto

desidera accoglierla.

Perchè può venire.

Oggi o domani, o fra mille

anni, o il giorno

penultimo del mondo.

E tutto

dev’essere così piano

come la lunga attesa.


Eppure so che è inutile.

Che è un gioco mio, tutto,

aspettarla così

come folata o brezza,

temendo che inciampi.

Perchè quando lei verrà

sfrenata, implacabile,

a raggiungere me,

muraglie, nomi, tempi,

si frangeranno tutti,

travolti, penetrati

irresistibilmente

dall’immensa tempesta del suo amore,

ormai presenza.

    

              di Pedro Salinas