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giovedì 30 ottobre 2025

quel che la vita mi riserva

 


 Amleto 


Il mormorio s'è spento. Sono in scena.
Appoggiato allo stipite della porta,
cerco di cogliere nell'eco lontana
quel che la vita mi riserva.

Mi fissa il buio della notte
con mille binocoli puntati.
Se solo è possibile, Abba Padre,
allontana da me questo calice.

Amo il tuo progetto ostinato
e sono pronto a recitare questa parte.
Ma ora si svolge un altro dramma
e per questa volta dispensami.

Ma meditato è l'ordine degli atti
e ineluttabile la fine del cammino.
Sono solo, tutto sprofonda nel fariseismo.
Vivere una vita non è attraversare un campo.

         di Boris Pasternak, le poesie di Jurij Zivago


“Esistono poeti nati – Pasternak”: bastano poche parole a Marina Cvetaeva per ritrarre indelebilmente l’autore del Dottor Živago, romanzo dal successo “fragoroso” (A. M. Ripellino). “Un’opera che scrivo solo per la mia anima,” confidò il poeta in una lettera alla cugina Olga Freidenberg, e che diventerà, invece, un caso letterario mondiale e uno dei libri più rappresentativi del Novecento. Un romanzo dal respiro epico, sintesi della visione di Pasternak della storia russa, e colmo dei temi e delle esperienze che hanno ispirato la sua poesia, esito di un percorso cominciato nella composizione musicale. La sua caratteristica più evidente è la struttura in prosa e in versi; la sua conclusione è affidata alle poesie di Jurij Živago raccolte in un quaderno che i suoi amici, Gordon e Dudorov, sfogliano “in una quieta serata estiva”, seduti “accanto a una finestra aperta sull’immensa Mosca serale”. Poesie che non sono una mera appendice, ma la luce che richiama e rischiara l’esistenza del protagonista, come se l’intera narrazione costituisse la biografia del loro autore, l’introduzione all’opera di Jurij Živago, medico e poeta. E sono, soprattutto, l’estremo frutto della creatività di Boris Pasternak, “poeta stupendo, oltremarino” (V. Majakovskij).

(Dall’interno copertina) 

Noi siamo attori appena entrati in scena, incerti su ciò che attende e consapevoli che è ineluttabile la fine del cammino. 


martedì 30 settembre 2025

Ora che spunta il giorno della paga


Astianatte 





Ora che te ne vai prendi con te il bambino

che vide la luce sotto quel platano,

un giorno che squillavano le trombe e lampeggiavano armi

e i cavalli sudati si chinavano a lambire

con le umide froge nella vasca

la verde superficie dell'acqua.


Gli ulivi con le rughe dei nostri genitori 

le rocce con la saggezza dei nostri genitori

e il sangue del fratello, fresco nella terra,

erano una gioia viva, un assetto ricco

per le anime che conoscevano la preghiera.


Ora che te ne vai, ora che spunta il giorno della paga,

ora che nessuno conosce

la sua vittima né la propria fine,

prendi con te il bambino che vide la luce

sotto le foglie di quel platano

e insegnagli a studiare gli alberi.


             da Le poesie, Ghiorgos Seferis, Crocetti Editore



                                                                                      φροῦδαί σοι θυσίαι χορῶν τ'

                                                                                     εὔφημοι κέλαδοι κατ' ὄρφ-

                                                                                      ναν τε παννυχίδες θεῶν

                         non ci saranno più sacrifici

                         voci ben auguranti di cori

                       veglie per gli dèi nel buio delle notti  

(Le Troiane, vv. 1071-1074)


Una mattina assolata. L'alba sorge sulle mura della città di Troia: del fumo si alza dalle tende dei  principi greci e da quelle dei loro soldati, innumerevoli attorniano la città assediata. Come ormai da lungo tempo il suono dilamenti e pianti, laggiù nel campo dei nemici e tra le strade e le case vicine.  Nulla sarà risparmiato a chi il Fato avrà voluto abbandonare alla sconfitta. 

E' questo il momento in cui l'io lirico comincia:  ora che te ne vai. Si rivolge ad una donna che sta per lasciare la sua terra con il figlio sotto il braccio. Conoscendo il titolo della poesia, capiamo che la donna non può essere che Andromaca, moglie di Ettore. Il poeta si sforza qui  di sottrarla al destino funesto che l'attende nei racconti del mito: Seferis si ribella,  ha deciso che almeno nei suoi versi lei non vedrà la distruzione di tutto ciò che ha amato e non andrà schiava in terra straniera. La voce che parla potrebbe essere quella di Ettore che le indica il platano laggiù sotto la cui ombra è nato il figlio che porta in braccio. Era il tempo in cui lo squillare delle trombe e il clangore delle armi annunciavano che era ancora possibile sperare. 

La seconda strofa è attraversata da un altro respiro, quello della memoria. Lo sguardo abbraccia gli ulivi e le rocce dintorno. Su questo paesaggio dell'anima  gli anni hanno tracciato i loro segni: rughe, affanni, e sogni, insieme alla saggezza che ora sembra salire verso il cielo come il fumo dai roghi non spenti. Persino il sangue fraterno che abbeverava la terra mai sazia era una gioia viva per le anime che conoscevano la preghiera. Ma ora, in questa mattina, è chiaro a tutti che gli dei hanno distolto per sempre lo sguardo dalla sventura della città.

L'ultimo movimento della poesia coincide con lo sguardo che accompagna la Madre verso la nave in procinto di partire. Questo è il giorno della paga ! Ma che vuol dire questa espressione? A cosa allude? Misterioso questo verso e molto bello. Forse la mattina in cui Andromaca rifiuta l'ingiunzione del destino che l'aspetta e sceglie di salvarsi con suo figlio è anche il giorno in cui  per ciascuno si manifesta che il destino ha preparato qualcosa per ognuno: Ettore dovrà provare la vergogna della paura prima di morire da valoroso nel duello contro Achille e subito dopo sarà questo a cadere per mano dell'inetto e vile Paride; le armi di Achille non andranno ad Aiace che le meritava più di ogni altro, i moniti di Cassandra non saranno ascoltati e così via. Non c'è giustizia nel mondo di Omero, solo un'amara equità, struggente e nobilmente accolta. Alla fine di questa lunga storia, cominciata forse con una mela d'oro lasciata cadere durante un banchetto, ognuno avrà la sua paga, anche se forse non quella che aveva previsto. 

Sulla via dell'esilio si incamminano invece Andromaca con il figlio e le donne troiane, ma un ultimo ammonimento giunge, con un tono che a me pare profondo e premuroso: insegnagli a studiare gli alberi, quasi il responso di un oracolo. Altro non si dice. Non c'è tempo. Ecco le donne, salite sulle navi, già volgono lo sguardo al mare.

Che le madri ascoltino la voce del poeta: insegnagli a studiare gli alberi


Nel suo discorso al momento dell'accettazione del premio Nobel Seferis disse alcune cose che vale la pena riportare nei giorni che stiamo vivendo: " [...] credo che la poesia sia necessaria a questo mondo moderno in cui siamo affetti da ansia e paura. La poesia ha le sue radici nel respiro umano: e cosa mai saremmo se il nostro respiro dovesse venir meno? La poesia è un atto di fiducia: e chi sa se il nostro disagio non dipenda da una mancanza di fiducia?

Oggi dobbiamo ascoltare quella voce umana che chiamiamo poesia, quella voce che rischia sempre di andare estinta per mancanza di amore, ma che sempre rinasce. Minacciata, trova sempre un rifugio. Rifiutata, rimette sempre radice nei luoghi più impensabili. Non fa distinzione tra luoghi grandi o piccoli; la sua patria è nel cuore degli uomini di tutto il mondo; ha la forza di scongiurare il circolo vizioso dell'abitudine."

domenica 31 agosto 2025

Sullo scettro di Zeus dorme l'aquila

 

Per Ierone Etneo



Strofe I           Cetra d’oro, di Apollo e delle Muse dai ricci di viole

                      il bene più esclusivo, tu, che il passo della danza ascolta

                                               per dare inizio alla festa splendida,

                      

                        e gli aedi si sottomettono alla tua guida,

                       quando fai udire il tuo suono e dai l’avvio al preludio

                  che conduce il coro: 


tu spegni al lampo guerriero la vampa

dell’eterno fuoco, e sullo scettro di Zeus dorme l’aquila

                entrambe le rapide ali abbandona,

 

Antistrofe            

              la regina degli uccelli, ché una nube dall’apparenza

             oscura hai versato

             sul suo capo adunco, chiudendole mite le palpebre; nel sonno

         si culla il dorso reso docile, preso

        tuo ritmo. Così anche Ares violento: la punta feroce della lancia

         lascia riposare e ristora l’animo

         nel sonno. Tu incanti le armi e le anime degli dei

 con la maestria del figlio di Latona

 e delle Muse dal cinto profondo.

 

Pindaro, Pitica I, prima strofe


Il testo che oggi vi propongo di leggere -  o rileggere - è molto antico, chi lo ha scritto, il poeta Pindaro, visse infatti tra l'ultimo quarto del VI secolo a.C. e la metà del V; Le sue poesie sono essenzialmente odi destinate a celebrare le vittorie ottenute in una delle feste panelleniche che si tenevano periodicamente in Grecia: ad essere innalzati dalla poesia e dal canto ad una fama immortale erano gli atleti oppure i signori delle città da cui essi provenivano Nel caso dell'ode qui riportata la vittoria era stata ottenuta, attorno al 470,  nelle Pitiche, le feste in onore dell' Apollo di Delfi. Durante questo genere di feste, come è noto, si sospendevano le guerre e venivano indette competizioni sportive o gare di musica e poesia. Per i Greci, si sa, l'esistenza stessa era una gara, una tensione verso il gesto perfetto, una spinta ad eccellere con cui l'uomo mirava ad elevarsi al cospetto dei suoi dèi. 

Di questa tensione inesausta alla perfezione Nietzche aveva perfettamente colto lo spirito quando - in Umano troppo umano - scriveva "L'uomo pensa nobilmente di sé quando si dà dei simili" e quando ammoniva: "Dove gli dèi olimpici arretravano, anche la vita era più fosca e piena di paura". La visione greca sapeva bene che il momento della vittoria era destinato in breve a trascorrere, pure, in quel momento contemplava la rivelazione dei regni dell'essere che lì manifestavano la pienezza e la molteplicità della vita. 

Oltre all'enorme distanza temporale che ci separa da questi versi, un aspetto soprattutto è motivo di difficoltà per il lettore moderno, il fatto che la destinazione celebrativa di queste odi fa sì che da una parte esse siano strettamente legate ad episodi concreti, a vittorie precisamente datate, alle storie familiari degli atleti o dei signori delle città dei vincitori, dall'altra in esse sono continui i richiami a varianti di miti locali o a quelle espressioni ricercate, alte, preziose che sole possono essere usate per descrivere le potenze numinose da cui ogni vittoria nasce. Insomma si tratta di una poesia al cospetto della quale noi moderni richiamo di trovarci spaesati; invano cercheremo - ad esempio - quella disponibilità a svelare la propria interiorità che oggi consideriamo ingrediente necessario e insostituibile di ogni espressione poetica.

La prima pitica, di cui oggi propongo solo la prima strofe,  celebra la vittoria nella gara delle quadrighe del re di Siracusa, ma l'occasione dell'impresa quasi scompare all'inizio del canto, tutto intessuto attorno alla potenza dell'armonia e della musica. Non la propria arte eternatrice vuole elogiare qui il poeta, quanto la cetra d'oro che appartiene ad Apollo e alle Muse: il bene più esclusivo, atteso con premura nell'istante irripetibile del primo passo di danza; la guida alla quale gli aedi si sottomettono al vibrare dell'accordo che rompe il silenzio. La potenza aurea della cetra  qui è colta nell'abbacinante luce dorica: ogni divenire sembra arrestarsi, la vampa del lampo guerriero si spegne e sullo scettro di Zeus dorme l’aquila, abbandonando al riposo le proprie ali; sul suo capo adunco infatti l'armonia del canto numinoso ha versato una nube dall’apparenza oscura. Persino Ares violento: la punta feroce della lancia lascia riposare e ristora l’animo nel sonno. Il potere della cetra di Apollo si manifesta come una forza che ogni cosa sovrasta, seduce ed avvince. Non c'è nulla di vivente che non debba piegarsi alla voce delle Muse.

Ma oggi chi farà risuonare ancora le corde sulla loro cetra ? Ares intanto infuria scatenato.

domenica 27 luglio 2025

La notte, per placare un'aspra rissa

 L'osteria "All'isoletta"



 La notte, per placare un'aspra rissa,

e più feroce quanto è solo interna, 

penso lotte più estranee: penso Lissa


i Bàlcani, Trieste, il vecchio ghetto;

infine mi rifugio a una taverna;

dal suo solo ricordo il sonno aspetto.


Deserta com'è lungo il caldo giorno,

sulle pareti un'isoletta è pinta,

verde smeraldo, e il mar con pesci ha intorno.


Ma di fumi e di canti a notte è piena

un dalmata ha con sé la più discinta;

ritrova il marinaio la sirena.


Io ascolto. e godo della compagnia,

godo di non pensare a un paradiso, 

diverso troppo da quest'allegria,


che arrochisce i cori e infiamma il viso.


La poesia che leggete oggi è tratta da una sezione del Canzoniere intitolata  La serena disperazione, vi sono raccolte poesie degli anni dal 1913 al 1915. Non è la più famosa tra quelle che di solito si leggono a scuola, ma a me piace molto molto. Mi trasporta forse a quel mio anno vissuto a Trieste, a quelle frequentazioni notturne nelle quali si abbandonavano i libri seri per ascoltare in silenzio i racconti di marinai o le storie appassionate di sirene discinte e le avventure dei contrabbandieri e delle loro gare a guardie e ladri. Io ascoltavo, i versi di Alceo nel tascapane e il vino di Cavana sul tavolo.

Anche per noi allora era bella quell' allegria che arrochisce i cori e infiamma il viso. Né smetteva in noi il richiamo di quel troppo diverso paradiso.


domenica 29 giugno 2025

una lampada deserta

 


Edvard Munch, Morte nella camera di una ammalata


Una lampada deserta

nel calmo vestibolo.

Un'ombra è desta

dove sorge il catafalco.


Sul catafalco è posto

un feretro ornato di fiori.

Nel vestibolo è esposto

il corpo fatale.


Non si dice chi fosse

nel sogno che egli ebbe.

E l'ombra in attesa

è la vita che fu.


Fernando Pessoa, Poesie esoteriche, Guanda 2000,a cura di Francesco Zambon


L'interesse di Fernando Pessoa per la ricerca interiore e metafisica, guidato da dottrine e pratiche esoteriche è il centro di irradiazione della raccolta curata da Francesco Zambon e della quale oggi  presento una di quelle che fin dalla prima lettura hanno attirato la mia attenzione.

L' introduzione a questo aspetto meno conosciuto della attività del grande poeta portoghese è ben documentata e chiarisce la centralità dei suoi interessi spiritualistici: oggi sappiamo che  in questa sua opera incessante e illusionistica, Pessoa molto attinse a fonti esoteriche, e di tale ricerca sussistono ricche testimonianze fra le migliaia di sue pagine manoscritte alla Biblioteca Nazionale di Lisbona. «In primo luogo sentire i simboli,  sentire che i simboli hanno vita e anima – che i simboli sono come noi» troviamo scritto in uno dei frammenti della sua filosofia ermetica.

La poesia che oggi il blog della stella tenue presenta, va letta in questa chiave eminentemente simbolica, ma è anche molto bella per le immagini che propone, tanto che, a mio avviso, essa può affascinare e coinvolgere anche chi di questa ricerca spirtualistica di Pessoa non sappia nulla. A me sono piaciuti soprattutto i versi della strofa finale: 

Non si dice chi fosse / nel sogno che egli ebbe. / E l'ombra in attesa / è la vita che fu.

Il nome del defunto, quindi tutto ciò che associamo comunemente alla storia di un individuo, che leghiamo alla sua identità, a quello che riteniamo irripetibile e prezioso (ed ovviamente lo è) non è che un sogno che dilegua, accanto alla lampada, il catafalco, i fiori. Di un'ombra, lì accanto, si dice prima che essa è desta, poi che è in attesa, ma altro non è dato sapere, almeno fintanto che non apprendiamo un'altra arte del vedere, un'altra disciplina del conoscere.

domenica 25 maggio 2025

Un presagio sacrilego

 



Sibilla palmifera, Dante Gabriel Rossetti, Lady Lever Art Gallery.

Sibilla


La mia lingua si mosse, un cardine che ruota e si distende.

Le dissi, «Che ne sarà di noi?»

E come acqua scordata in un pozzo si scrolla

a un’esplosione mattutina


o una crepa fila al culmine del tetto,

lei cominciò a parlare.

«Credo che la nostra essenza sia destinata a cambiare.

Cani assediati. Regressi al rango di sauri. Vite formicolanti.


Salvo che il perdono trovi nerbo e voce,

salvo che l’albero elmato e sanguinante

rinverdisca e apra gemme come pugni d’infanti,

e il magma infetto covi


ninfe splendenti… . La mia gente pensa ai soldi

e parla del tempo. Trivelle cullano il suo avvenire

su singoli avidi steli. Il silenzio

si è addensato nelle eco-sonde dei pescherecci.


La terra su cui a lungo abbiamo posato l’orecchio

è spellata o callosa, nelle sue viscere

bivacca un presagio sacrilego.

La nostra isola è piena di rumori sconsolati.»

          traduzione di  Leonardo Guzzo e Marco Sonzogni, da Lavoro sul campo, Milano, Biblion Edizioni, 2020


Sibyl


My tongue moved, a swung relaxing hinge.

I said to her, ‘What will become of us?’

And as forgotten water in a well might shake

At an explosion under morning


Or a crack run up a gable,

She began to speak.

«I think our very form is bound to change.

Dogs in a siege. Saurian relapses. Pismires.


Unless forgiveness finds its nerve and voice,

Unless the helmeted and bleeding tree

Can green and open buds like infants’ fists

And the fouled magma incubate


Bright nymphs… . My people think money

And talk weather. Oil-rigs lull their future

On single acquisitive stems. Silence

Has shoaled into the trawlers’ echo-sounders.


The ground we kept our ear to for so long

Is flayed or calloused, and its entrails

Tented by an impious augury.

Our island is full of comfortless noises.»


Quella che leggete qui sopra non è la prima poesia di Seamus Heaney, che compare sul blog della stella tenue, se vi è piaciuta questa, frugando tra le vecchie pagine del blog, troverete dell'altro. Ne vale la pena, credetemi. Ai versi del poeta irlandese, premiato con il Nobel nel 1995,  mi piace tornare quando posso, soprattutto in tempi come questi (lo so, è troppo tempo che lo ripeto). Nella poesia di Heaney sembra descritta un'umanità non diversa da quella con cui conviviamo: è vero che i tempi in cui fu scritta Sibilla erano quelli dei troubles, allora le strade di Belfast o di Derry erano insanguinate da violenza e ferocia, ma oggi? Non è lo stesso anche in queste mattine di Maggio?  Se provo a volgere lo sguardo un po' più lontano dal mio cortile, ecco che mi appare un'affollarsi di persone, di volti come cani assediati. Regressi al rango di sauri. Vite formicolanti. 

E il desolato paesaggio di vite a pezzi, mescolate a quelle di sicofanti e soverchiatori

E' in tempi simili dunque che sento il richiamo dei canti che giungono da un altrove sconosciuto, versi che di certo riescono a rendere il mondo un posto ancora degno di essere - per lo meno - attraversato.

Ma poi c'è Dante all'esordio di questa poesia: quel momento straordinario della Vita Nuova, in cui per descrivere il sopraggiungere misterioso di una nuova ispirazione, il poeta della Commedia usa un'immagine indimenticabile: 

Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa

Come nei versi di Heaney: La mia lingua si mosse ...

Al cospetto di Beatrice come sulla soglia della dimora della Sibilla non agisce più la sola creatività dell'uomo, non è questione di aver appreso un arte più o meno sublime. Ad un impulso irresistibile ed immemoriale piuttosto siamo ammessi ad assistere, al dischiudersi immediato di un istinto, di un appello ineludibile e salvifico.

Mi piacerebbe scoprire il sentiero che ha portato Heaney al cospetto di quella voce numinosa, mi piacerebbe anche soltanto vedere da lungi che il ramo d'oro ancora viene concesso a chi ne sia degno, che un regno è aperto per quanti non si rassegnano al presagio sacrilego  che bivacca nelle viscere della terra. 



sabato 15 marzo 2025

finché il sangue muoverà nel petto la tua oscura stella

 




Il messaggio del professor Cogito



Va’ dove andarono quelli fino al limite oscuro

in cerca del vello d’oro del nulla tuo ultimo premio


va’ fiero tra quelli che sono in ginocchio

fra chi volta le spalle e  chi è rovesciato nella polvere


ti sei salvato non per vivere 

hai poco tempo  bisogna dare testimonianza


sii coraggioso quando la ragione viene meno sii coraggioso

alla fine  è la sola cosa  che conta 


e la Collera tua impotente sia come il mare

ogniqualvolta udrai la voce di umiliati e percossi


non ti abbandoni il tuo fratello Disprezzo

per spie carnefici vigliacchi – saranno loro a vincere

e verranno al tuo funerale  gettando con sollievo una zolla


e il tarlo scriverà la tua biografia addomesticata


e non perdonare invero non è in tuo potere

perdonare in nome di chi è stato tradito all’alba


guardati tuttavia dall’inutile orgoglio

osserva allo specchio la tua faccia da giullare

ripeti: sono stato chiamato – non ce n'erano di migliori?


guardati dall’aridità del cuore ama la fonte mattutina

l’uccello dal nome ignoto la quercia d’inverno

la luce sul muro lo splendore del cielo


ad essi non serve il tuo caldo respiro

ci sono soltanto per dire: nessuno ti consolerà


veglia – quando la luce sui monti darà il segnale – alzati e va’

finché il sangue muoverà nel petto la tua oscura stella


ripeti gli antichi scongiuri dell’umanità  fiabe e leggende

perché così raggiungerai il bene che non raggiungerai


ripeti le grandi parole ripetile con ostinazione

come quelli che avanzavano nel deserto e perivano nella sabbia


e ti premieranno con ciò di cui dispongono

con sferzate di riso l'uccisione su un immondezzaio


va’ perché solo così sarai accolto nella cerchia dei freddi crani

nel manipolo dei tuoi avi: Gilmameš Ettore Rolando

difensori del regno senza confini e della città delle ceneri


Sii fedele Va’.


di Zbigniev Herbert, traduzione di Pietro Marchesani (Adelphi 1993)



Scritta nei giorni difficili di anni segnati da feroci lotte e crudeltà inumane, questa poesia non è meno adatta gli scuri giorni che ci stanno davanti. La ruota della storia compie un'altra giravolta e il coraggioso, il carnefice, il sicofante si muovono lungo traiettorie già cantate: chi Ettore, chi Efialte, chi Falaride.

Come alla voce poetante di questa bella poesia di Herbert, un combattimento attende anche noi, tutto interiore, a noi solamente destinato. E tutto ciò che c'è di necessario in questi versi, tutto ciò che serve, quella voce lo rivolge al proprio animo, a se stesso: in forma di anafora ricorre l'imperativo, l'invito ad andare verso limiti oltre i quali in pochi hanno osato dirigersi,  oppure va’ fiero tra quelli che sono in ginocchio / fra chi volta le spalle e  chi è rovesciato nella polvere e poi ancora sii coraggioso quando la ragione viene meno, in effetti è davvero l'unica cosa che conta.

Tra i diversi ammonimenti di questi versi, mi è particolarmente caro quello che così dice: 

ripeti gli antichi scongiuri dell’umanità  fiabe e leggende 

... come a dire che ogni grandezza dell'animo sorge dagli antichi riti nei i quali siamo stati cresciuti e dalle leggende che ci hanno nutrito con aurei insegnamenti. 

Non so il futuro cosa preveda per la nostra generazione e per quella dei nostri figli e - per certi versi - la devastazione delle guerre presenti è solo la manifestazione sensibile della generale devastazione dello spirito umano, in ogni caso, la poesia di oggi si rivela un viatico portentoso ed inevitabile. Da portare con sè.

mercoledì 5 febbraio 2025

senza lasciare traccia

 



INSONNIA INVERNALE


La mente non può dormire, può solo giacere sveglia,

ingolfata, ad ascoltare la neve che si aduna

come per l’assalto finale.


Vorrebbe che venisse Cechov a somministrarle

qualcosa – tre gocce di valeriana, un bicchiere

d’acqua di rose – qualunque cosa, non importa.


La mente vorrebbe uscire di qui

fuori sulla neve. Vorrebbe correre

con un branco di bestie irsute, tutte denti,


sotto la luna, in mezzo alla neve, senza

lasciare traccia, neanche un’impronta, nulla.

E’ malata, stasera, la mente.


                traduzione di Francesco Durante, Edizioni minimum fax


Winter Insomnia

The mind can’t sleep, can only lie awake and

gorge, listening to the snow gather as

for some final assault.


It wishes Checkov were here to minister

something—three drops of valerian, a glass

of rose water—anything, it wouldn’t matter.


The mind would like to get out of here

onto the snow. It would like to run

with a pack of shaggy animals, all teeth,


under the moon, across the snow, leaving

no prints or spoor, nothing behind.

The mind is sick tonight.


Una poesia per questo periodo di notti invernali, quando la mente rimane sveglia e l'orecchio si tende ad ascoltare le neve che si aduna, con un suo fare minaccioso, quasi ostile. In notti come queste urge un desiderio di pace interiore - non importa come ottenuto - e a questo desiderio un altro si sovrappone d'un tratto, diverso, se non contrario: uscire di qui / fuori sulla neve correre / con un branco di bestie irsute, tutte denti, come lupi selvaggi e feroci, mossi dal puro istinto, fedeli solo alla propria natura.

Correre sotto la luna, in mezzo alla neve, senza / lasciare traccia, neanche un’impronta, nulla. L'immagine d'istinto mi piace molto, non so bene perché: correre nella neve, sotto la luna, vuol dire lasciare tracce di sé, impronte del proprio passaggio, orme che segnano un percorso, quindi una storia, con le sue conseguenze, memorie, ricordi, ferite e gioie. Non si può correre nella neve e non lasciare tracce, se non nei versi di una poesia o nell'anelito di una mente che non trova requie in una notte d'inverno. 

Lo sappiamo che non è necessario cercare sempre un significato nelle immagini delle poesie, eppure in questa particolare immagine indugio, ritorno, ne percorro le possibilità, tortuose come stretti corridoi di labirinti, ma il filo di Arianna è perduto. Notte d'inverno, passa veloce per favore.