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sabato 17 agosto 2019

Sorpreso dalla gioia



Sorpreso dalla gioia


Foto di Steve Harrington


Sorpreso dalla gioia - impaziente come il vento

mi voltai per condividere il mio rapimento - Oh con chi

ma con te, sepolta profondamente nella silente tomba

quel posto che nessuna vicissitudine può trovare?

Amore, fedele amore, ti richiamo alla mente -

ma come potrei dimenticarti?  - Attraverso quale potere,

anche per la parte più breve di un'ora,

sono stato così ingannato da essere cieco

alla mia perdita più atroce! - Il ritorno di quel pensiero

fu la peggiore fitta che il dolore mi inflisse mai,

salvarne uno, uno soltanto, quando mi trovavo desolato

sapendo che il più grande tesoro del mio cuore non c'era più

che né il tempo presente, né gli anni a venire

potranno restituire alla mia vista quel viso celeste

                                                                                                                William Wordsworth


Mi sono imbattuto in questo sonetto di Wordsworth grazie a C. S. Lewis che scelse di intitolare la sua 'autobiografia spirituale'  proprio con il verso Surprised by joy. 
Il poeta romantico ricorda il momento in cui è afferrato da una gioia improvvisa, subito dopo vorrebbe condividere questa sensazione, impaziente come il vento, ma il ricordo della morte della figlia rapido lo afferra e lo tiene stretto nelle sue mani, rinnovando sgomento e dolore e la consapevolezza che il tempo non potrà mai lenire una sofferenza tanto grande.

Wordsworth appare stupito dalla sensazione di una  gioia che non sa da dove provenga, tanto più che un'angoscia feroce gli opprime l'animo, la silente tomba, dove giace sua figlia, un luogo che nessuna vicissitudine può raggiungere. La condizione interiore del poeta, dominata da afflizione e lutto, per quanto sia il frutto di un'esperienza soggettiva, è in fondo paradigma di quella umana, poiché tutti siamo sottoposti allo stesso destino di dolente finitezza. È quello che Giacomo Leopardi ci fa sentire nei versi de L'ultimo canto di Saffo: Arcano è tutto/fuor che il nostro dolor. Negletta prole/ nascemmo al pianto... le parole che pronuncia la poetessa di Lesbo prima di morire.

Eppure la gioia ci sorprende, come un nemico in un'imboscata, pur trovandoci nella sventura, lì dove il pensiero non potrebbe dare ragione di alcuna speranza. Il poeta inglese è consapevole che la ferita che gli morde il cuore non la guarirà il tempo, eppure la gioia, inspiegabilmente, lo ha trovato, quando non era più attesa. L'inizio della poesia possiede il vigore di un fumo d'incenso che sale verso il cielo: la gioia che sorprende è associata all'impazienza di condividerla, come in un riflesso automatico, indipendente dalla volontà. Non è una cosa che possiamo trattenere o chiudere in un recinto questa gioia, perché non è nostra davvero se non la condividiamo.

C'è un punto all'esordio della poesia su cui mi sembra opportuno soffermare l'attenzione ed è quando la voce del poeta dice mi voltai.  Perché dice così? E perché merita che ci soffermiamo su questa immagine? Questo voltarsi è spostare lo sguardo dalla fonte della gioia verso qualcuno che sia un testimone della improvvisa felicità che ci ha trovato. È troppo diversa tale gioia da ciò che abbiamo sperimentato per essere vera, non assomiglia a nulla di quello che conosciamo, c'è bisogno di qualcuno che ce lo confermi. Nella poesia di Wordsworth tuttavia quel qualcuno è perduto, è in un luogo inaccessibile, lontano da ogni vicissitudine ma anche irraggiungibile da ogni richiamo. Ci si volta verso ciò che si ama, come Orfeo verso la sua sposa Euridice o verso qualcosa che mai penseremmo di poter perdere come Dante verso il suo maestro Virgilio nell'imminenza dell'incontro con Beatrice, sulla cima del Purgatorio. Wordsworth si volta indietro verso colei che ha amato di più e che la morte gli ha portato via. La gioia che lo ha toccato, come una scossa di luce, ha per un attimo lenito la piaga che non può guarire.

Quanto è umano e delicato questo voltarsiquanta poesia nasconde sotto la sua ombra.

Quando dunque il poeta inglese scrive mi voltai non distoglie lo sguardo da una presenza numinosa, la cui luce sfolgorante la vista umana non può sostenere, ma cerca un testimone di ciò che Milton,  sforzandosi di rappresentare l'Eden, chiama l'enorme beatitudine (dove enorme  deve essere inteso nel suo antico e pieno significato di "fuori dalla norma").

delucidare il significato profondo della gioia di cui parla il sonetto è  ancora C.S. Lewis. Nel primo capitolo della sua autobiografia (pp.17-19) egli descrive tre diversi momenti della sua infanzia in cui aveva sperimentato tale sensazione e collega il sentimento della gioia ad un desiderio intenso e indefinibile, che rapidamente dispare lasciando nell'animo insieme a turbamento e stupore la brama di riaccedervi e il senso di una vicenda incommensurabile. La gioia, nella prospettiva di Lewis ha poi nella sua natura il fatto che non è troppo diversa da una particolare forma di infelicità, da un dolore "di genere particolare", di un genere desiderabile, qualcosa di simile a ciò che in tedesco è chiamato sehnsucht. Se seguiamo ciò che scrive Lewis, al quale morì la madre quando aveva sette anni, negli stessi tempi in cui aveva vissuto quella prima trafittura della goia, tale esperienza si distingue da ogni altro piacere, in quanto si manifesta come una  fitta, uno spasmo, un'inconsolabile nostalgia. L'essere che la prova può perdersi - come a lui capitò - anche in un deserto esistenziale di ghiaccio millenario, non importa: all'istante si ritroverà "in un'unica, intollerabile sensazione di desiderio e di perdita", che d'un tratto diventa tutt'uno con la dissoluzione dell'emozione stessa. Infine questa particolare tipologia di gioia "non è mai in nostro potere": ci imbattiamo in essa, da lei siamo sorpresi, ma non potremmo mai possederla né anticipare la sua venuta, giunge come un ladro nella notte, quando meno ce lo aspettiamo.

In che relazione si trovano allora, nella poesia di Wordsworth, la gioia che sorprende e la desolata consapevolezza del dolore per cui pare non esserci rimedio? E non sembra forse che l'autore del sonetto consideri il rapimento della gioia come un inganno, come un'improvvisa perdita della vista?
In tal caso, il vedere, la consapevolezza, la realtà sarebbero solo nel distacco pieno di afflizione dal suo più grande tesoro. La gioia che sorprende, in questo senso, se non coincide con l'oscuramento della verità o con il suo impossibile oblio, nel suo dileguarsi è in relazione evidente con il ritorno del pensiero, che riporta il poeta alla condizione di desolazione in cui gli è impossibile persino salvare un solo pensiero: tutto torna - in un istante - sotto il dominio della necessità. Forse non è oscuramento né oblio, ma non dovremmo allora pensare alla gioia come una sospensione, provvisoria e infine più dolorosa, della consapevolezza?

Spesso è così e forse poté essere questa l'esperienza di Wordsworth la cui poesia si chiude con una commovente ammissione di un vuoto incolmabile. Tuttavia un'altra strada ci viene indicata dal momento in cui comprendiamo che la natura propria di questa particolare gioia, diversa da tutte le altre, non sta in ciò che essa è, ma in ciò che essa addita: "una nuda alterità, ignota, indefinita, desiderata" secondo quanto scrive Lewis. Lungi da essere un obnubilamento della coscienza, la gioia che sorprende si rivela piuttosto la sua espressione più limpida e lucida.

Et unde hoc mihi ? 

"A che debbo che la madre del Signore venga presso di me ?". Con queste parole, lo racconta l'evangelista Luca, Elisabetta saluta sua cugina Maria, che porta in grembo il figlio della promessa : sono parole che sgorgano impetuose suggerite dallo Spirito che la riempie. Da dove, perché giunge tutto questo a me ? sembra dire Elisabetta, lei la donna anziana e sterile che già aveva assaporato l'inattesa, impensabile, inesprimibile gioia di aspettare un figlio.

La gioia ci viene incontro, è lei a trovarci là dove non ci aspetteremmo di vederla. Tutte le trafitture della gioia non sono infine che tracce che immettono nei territori dello stupore.






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