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domenica 25 ottobre 2020

Val la pena tornare, magari diverso

 


Paesaggio


Quest’è il giorno che salgono le nebbie dal fiume

nella bella città, in mezzo a prati e colline,

e la sfumano come un ricordo. I vapori confondono

ogni verde, ma ancora le donne dai vivi colori

vi camminano. Vanno nella bianca penombra

sorridenti: per strada può accadere ogni cosa.

Può accadere che l’aria ubriachi.


                                                            Il mattino

si sarà spalancato in un largo silenzio

attutendo ogni voce. Persino il pezzente,

che non ha una città né una casa, l’avrà respirato,

come aspira il bicchiere di grappa a digiuno.

Val la pena aver fame o esser stato tradito

dalla bocca più dolce, pur di uscire a quel cielo

ritrovando al respiro i ricordi più lievi.


Ogni via, ogni spigolo schietto di casa

nella nebbia, conserva un antico tremore:

chi lo sente non può abbandonarsi. Non può abbandonare

la sua ebrezza tranquilla, composta di cose

dalla vita pregnante, scoperte a riscontro

d’una casa o d’un albero, d’un pensiero improvviso.

Anche i grossi cavalli, che saranno passati

tra la nebbia nell’alba, parleranno d’allora.


O magari un ragazzo scappato di casa

torna proprio quest’oggi, che sale la nebbia

sopra il fiume, e dimentica tutta la vita,

le miserie, la fame e le fedi tradite,

per fermarsi su un angolo, bevendo il mattino.

Val la pena tornare, magari diverso.


                       Cesare Pavese da “Lavorare stanca”

sabato 17 ottobre 2020

così distanti dalle solitudini casuali




Riaffermazione del romantico

La notte non sa nulla dei canti della notte.
È quel che è come io sono quel che sono:
e nel percepire ciò percepisco meglio me stesso

e te. Solo noi due possiamo scambiare
ciascuno con l’altro quel che ciascuno ha da dare.
Solo noi due siamo uno, non tu e la notte,

né la notte e io, ma tu e io, soli,
tanto soli, così profondamente con noi,
così distanti dalle solitudini casuali,

che la notte è solo sfondo ai nostri io,
supremamente fedeli ciascuno al suo diverso io,
nella luce pallida che ciascuno getta sull’altro.


    di Wallace Stevens, traduzione di Massimo Bagicalupo




Wallace Stevens (1879-1955) è da molti considerato il maggiore poeta americano del Novecento; certo non è secondo a nessuno dei massimi coetanei (Eliot, Frost, Pound, Williams), e oggi è il più frequentato e universalmente ammirato, a livello di cultura diffusa come da parte di lettori, studiosi, artisti e poeti; i libri a lui dedicati sono ormai centinaia. Stevens, che nella vita fu dirigente in una importante compagnia di assicurazioni del Connecticut e non visitò mai l'Europa, ha fama di poeta difficile, addirittura impenetrabile, ma i suoi testi hanno la limpidità glaciale di uno specchio in cui i lettori non cessano di trovare immagini e parole per dire la loro condizione (post)moderna. «La poesia» affermò «è una risposta alla necessità quotidiana di afferrare bene il mondo.» Ne esce quasi un manuale di sopravvivenza dove, come nei capolavori della musica e della pittura, la forma sovrana permette al lettore di entrare in un universo più vivido e libero, e così vivere pienamente la propria misteriosa umanità (dal Meridiano Mondadori).

Siamo nel 1936 quando Wallace Stevens  pubblica la raccolta Ideas of Order. Tra i suoi propositi centrale appare quello di ridefinire il romantico come una forza irrinunciabile nella crisi che l'America e l'Europa stavano attraversando alla metà degli anni '30. Sei anni dopo, in una conferenza tenuta mentre gli Stati Uniti stavano entrando in guerra, egli dice: "lo spirito di negazione è stato così attivo, così fiducioso e così intollerante che i luoghi comuni riguardo al romantico ci spingono a chiederci se la nostra salvezza, la nostra via di uscita non sia il romantico." Negli anni successivi alla guerra il poeta americano mostrerà una crescente insoddisfazione per il termine, ma ciò non toglie che è proprio in Ideas of Order che possiamo individuare la prima tappa dello sforzo di fondare un nuovo personale "umanesimo".

In questa poesia emerge uno dei temi centrali di tale sforzo: la suprema natura della poesia si rivela quella di essere ampliamento e arricchimento della realtà, ma essa è allo stesso tempo parte dell'imperfezione del mondo. Nella povertà e nella precarietà della condizione umana, il linguaggio risplende come il nostro tratto più caratteristico e prezioso.

Sono tre i personaggi di Riaffermazione del romantico: la Notte, il poeta e il suo interlocutore. Non è che si deve capire tutto in una poesia, a volte non serve e spesso non si può. Ma qui in questi versi c'è un'affermazione che a me pare straordinaria e struggente. La notte a volte può sembrarci lunghissima, un tempo che non finisce mai. Peggio, può sembrare invincibile, una prigione che non ha uscite, che non lascia scampo, ma la notte non sa nulla dei canti della notte. Vi è un abisso tra lei e il canto del poeta, sono due realtà che non si sfiorano, universi paralleli di dimensioni inavvicinabili, incompatibili.  E l'incredibile avviene. Proprio in ragione di questo fatto, su cui la notte - con la sua brama di negazione del romantico - non ha potere, il poeta può dire al suo interlocutore (mi piace pensare che si rivolga qui alla sua Beatrice)

Solo noi due siamo uno.







domenica 11 ottobre 2020

sotto il torrente dei raggi solari

 


Alla Musa


Come vigoroso il lavoratore afferra

la curva impugnatura dell'aratro, 

lacera il fianco delle terre

e sotto il torrente dei raggi solari

i solchi aridi diventano fertili,


come il grano fulvo nell’aia

si ammassa e i mulini ruggiscono;

come trabocca dalla vasca la pasta lievitata,

e il contadino la cuoce in un forno

che è sempre acceso,


il piacere, il vigore creatore

che diffonde il Pane, il Pane consacrato,

tu insegnami, Musa dei miei padri;

insegnami, e incorona di spighe la mia lira,

perché sull’aia, alla fresca ombra del salice,

io mi possa sedere e generare

le mie canzoni. 


   di Daniel Varujan, traduzione di Antonia Arslan


Riprendo da Antonia Arslan, alla quale dobbiamo la ricezione della poesia di Varujan in Italia, una sintesi della sua vita. Daniel Varujian nasce a Perknik in Anatolia nel 1884. Nel 1896 si reca con la madre a Costantinopoli alla ricerca del padre, arruolato nell'esercito turco e imprigionato dal regime del "Sultano Rosso" Abdul Hamid. Tra il 1896 e il 1898 studiò nel collegio mechitarista a Costantinopoli e poi nella scuola media di Kadikoy, i padri lo inviarono a Venezia presso il collegio Mourad-Rafaelian, dove pubblicò la sua prima raccolta di poesie "Fremiti" (1906), tra il 1906 e il 1909 studiò presso l'Università di Gand nelle Fiandre. Qui scopre i simbolisti francesi e l’influenza del simbolismo europeo sará un carattere stilistico distintivo delle sue opere ed in particolare ne “Il canto del pane”. 


Ritornato in Turchia, si sposa e la sua fama di poeta cresce dopo la pubblicazione del "Il cuore della stirpe" (1909) e "Canti Pagani" (1913); nel 1912 si trasferisce a Costantinopoli dove lavora come direttore di una scuola. Nascono due bambini; il terzo nasce proprio nel 1915; in questi anni Varujan si accosta al cristianesimo e inizia a scrivere "Il canto del pane" raccolta rimasta incompiuta. 

Fra la notte del 23 e 24 aprile 1915 l'élite armena di Costantinopoli fu arrestata e deportata nel deserto; molti di loro vennero prelevati dalle loro case; Varujan verrà ucciso a colpi di pugnale il 26 agosto (muore a 31 anni) prima dell'arresto aveva in mente di proseguire "Il Canto del Pane" scrivendo una seconda raccolta che avrebbe intitolato "'Il Canto del Vino". Quando fu ucciso aveva in tasca Il Canto del Pane; questo testo fu creduto perduto per molti anni; ma alcuni amici superstiti, dopo la fine della prima guerra mondiale, cercarono di recuperarlo, affidandone la ricerca ad un agente segreto, Arshavir Esayan, che lo ritrovò fra i beni sequestrati agli armeni. Pubblicato postumo a Costantinopoli, nel 1921, Il Canto del Pane divenne il simbolo della vita del popolo.


La poesia che qui viene presentata è quella di apertura della raccolta, il titolo stesso, Alla musa e il tono dell'invocazione lo dimostrano con ogni evidenza. Sin dall'inizio siamo chiamati ad osservare una scena di vita campestre, il momento dell'aratura, quando si semina nell'attesa di raccogliere il frutto della propria fatica. Per molti di noi, abituati ai ritmi della città, al trascorrere del tempo scandito da orologi elettronici più che dal mutare della natura, si tratta di una visione inusuale, per molti versi lontana dalla nostra esperienza. E tuttavia la strofa di apertura di questa poesia arriva con forza, oltrepassa le barriere delle nostre abitudini e ci afferra stretti. Ecco che all'immagine del vigore del braccio che impugna l'aratro si salda l'annotazione precisa della sua forma ricurva. I fianchi della terra sono lacerati e ciò che è arido ora diviene fertile. Non c'è raccolto se il vigore dell'uomo non solleva la terra, se non smuove con fatica sassi e zolle per portare alla luce ciò che è fertile. 

L'immagine non è edenica: Ci vuole vigore e anche τέχνη, l'aratro dovrà essere ben costruito, la curva del manico quella e non un'altra, la lama affilata il giusto; serve amore per quello che non si vede, che va portato alla luce. Ma al tempo stesso tutta la fatica dell'uomo non avviene sotto un cielo indifferente, ma sotto il torrente dei raggi solari. Un fluire generoso, ininterrotto di luce e calore che delinea un paesaggio, una forma storica della presenza dell'uomo, del suo rapporto con la terra. 

Così dovrà essere la poesia ispirata dalla musa.

Della seconda stanza colpisce la vitalità dei colori e dei verbi: i mulini ruggiscono mentre il fulvo grano viene ammassato nell'aia. La pasta lavorata dalle mani operose trabocca dalla vasca, il fuoco riscalda un forno sempre acceso. Il biondo dorato del grano, il bianco della farina, il rosso del fuoco.

Così dovrà essere la poesia ispirata dalla musa.

Infine ecco l'ultima stanza: la mia poesia - chiede il poeta - sia come il Pane che diffonde piacere e  vigore creatore. Certo il pane che sfama e ristora le forze, ma anche il Pane, quello consacrato con gesti antichi su un altare venerato con amore, in riti scanditi dal suono di cembali, circonfuso dal profumo dell'incenso.

insegnami, Musa dei miei padri

non una musa qualunque, non La Musa che ovunque ispira il canto, dal Caucaso al mare e oltre il mare. Tu - dice il poeta - Musa dei miei padri tu ispirami, tu che conosci queste valli e questi campi e queste fonti che noi contempliamo fin da bambini, anche se presto uomini violenti di qui ci scacceranno. Un paesaggio che è il nostro orizzonte, la fonte della nostra storia, perché noi ciò che guardiamo lo guardiamo con una vista a cui questo paesaggio ha dato la sua forma e la sua melodia.

Musa dei miei padri ... Quanto è prezioso questo verso e quanto è doloroso immaginarlo lì, su un taccuino ritrovato sul corpo senza vita del poeta, massacrato tra tanti altri, un corpo ammucchiato tra tanti altri, messo a tacere, ma solo per un po'.