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martedì 10 novembre 2020

Una voce mi chiama

 



Una voce mi chiama

via da questa vita fugace

come una pioggia 
   
     d'estate


                  Shida Yaba  Terzo giorno del primo mese
                                       del quinto anno Genbun (1740)


Quello che avete appena letto è un tipo di poesia in voga in Giappone da secoli. E' chiamato Jisei, la poesia dell'addio, quella che si compone in prossimità della morte, quando il mondo comincia a declinare attorno a noi e ci apprestiamo ad abbandonare ogni cosa, ogni ricordo. Come in molti altri aspetti della vita i giapponesi sembrano attenersi ad un codice ben codificato, insito profondamente nei loro costumi. Lo ha ben spiegato Mario Vattani nel bel libro di cui è autore, "Svelare il Giappone": vi è come un ritmo giapponese di fare le cose, una forma riconoscibile in gran parte delle azioni che un uomo o una donna compiono abitualmente: accenno, pausa, azione perché "eseguire un'azione in modo sbrigativo, con una sola mossa, è volgare e animalesco". 
E' questa una forma che chi ha praticato una delle tante discipline marziali legate all'arte della spada conosce bene. Ogni allievo lo ha colto, osservando il proprio sensei nell'atto di riporre la spada nel fodero: accenno, pausa, azione.

Così sembra essere anche per questa forma di scrittura, Jisei, la poesia del commiato. Quasi che non vogliano invadere con un'emozione improvvisa la sfera interiore di chi è vicino, i Giapponesi da secoli, al presentimento della morte sono soliti affidare alla poesia il compito di aiutare lo "spirito ad allentare i legami con il mondo delle forme e a rilassare i contorni dell'io, così da renderlo partecipe della natura divina che palpita in ogni creatura". A spiegarci tutto ciò è Ornella Civardi che ha curato la raccolta intitolata "Jisei, poesie dell'addio" per l'elegante casa editrice SE. 

Shida Yaba, l'autore dell'haiku, che avete appena letto era stato discepolo di Matsuo Bashō, probabilmente il massimo maestro di questo genere di poesia - alcuni suoi componimenti potete leggerli anche qui sul blog. Yaba è già piegato dalla malattia quando si fa consegnare carta e pennello per comporre insieme le 17 sillabe che formano il suo haiku. Mancano in realtà ancora una ventina di giorni alla sua morte e il poeta avrà modo di scriverne ancora uno, di intensa e inconsueta mestizia prima di chiudere gli occhi per sempre. 

La poesia del terzo giorno del primo mese del quinto anno Genbun si apre con un richiamo rivolto al poeta, la voce probabilmente è proprio quella di Bashō, il suo maestro.  Certo non è una voce qualunque quella che il poeta sente, ma quella voce che custodiva nel suo cuore, probabilmente proprio quella che si attende di ascoltare. Accade anche ad alcune anime, quando sono tese come la corda di uno strumento musicale, pronte a risuonare ad uguale accordo, ad uguale intensità. 

In molti, credo, abbiamo fatto esperienza di questo particolare senso dell'ascolto: la voce di qualcuno che è importante per noi ci raggiunge prima che il senso della vista ne sveli la misura del passo, l'atteggiamento del viso, il sorriso consueto. Per chi è innamorato un tale momento è prezioso come il rumore delle acque di un torrente di montagna a lungo cercato tra forre e boschi. Il respiro si fa quasi esitante in quell'istante. 

La voce del maestro chiama, anzi chiama via, non per esortare ad un distacco più risoluto, ma a lasciare un peso ormai superfluo, un impedimento inutile. Via da questa vita fugace. L'inganno è voler trattenere ciò che deve passare, rivendicare ciò che è bene disperdere, indugiare tristemente su ciò che si deve contemplare nel suo trascorrere. 

come una pioggia d'estate.







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