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venerdì 24 luglio 2020

Scaverò con questa

fotografia di Elizabeth Holder


Scavare


Tra il mio pollice e l’indice riposa
la tozza penna, comoda come una pistola.

Da sotto la finestra, un suono aspro e netto
quando la vanga affonda nella terra ghiaiosa:
mio padre, che scava. Mi affaccio e guardo

finché la sua groppa tesa nello sforzo tra le aiuole
s’abbassa, si rialza vent’anni addietro
curvandosi ritmicamente tra i solchi di patate
dove stava scavando.

Il rozzo scarpone annidato sulla staffa, il manico
saldo contro l’interno del ginocchio a fare leva.
Sradicava gli alti ciuffi, affondava la lama lucente
per sparpagliare le patate novelle che raccoglievamo
stringendole con piacere fredde e dure tra le mani.

Per Dio, il mio vecchio la sapeva maneggiare, la vanga.
E così il suo.

Mio nonno tagliava più torba in una giornata
di ogni altro nella torbiera di Toner.
Una volta gli portai del latte in una bottiglia
con un tappo di carta abborracciato. Si raddrizzò
per bere, poi si rimise subito al lavoro,
fendenti e affondi netti, gettandosi le zolle
sopra la spalla, andando sempre più giù
dove la torba era migliore. Scavare.

L’odore freddo del terriccio sulle patate, il risucchio e lo schiaffo
della torba impregnata, i tagli netti di una lama
su radici vive mi si ridestano nella mente.
Ma non ho vanga per seguire uomini come loro.

Tra il mio pollice e l’indice riposa
la tozza penna.
Scaverò con questa.

 di Seamus Heaney (traduzione di Marco Sonzogni)


La poesia Digging (questo il titolo originale) fu pubblicata per la prima volta nel 1964 sulla rivista New Statesman e pochi anni dopo venne scelta dall'autore come poesia di apertura della sua prima raccolta, "Morte di un naturalista". Si tratta dunque di una poesia alla quale lo stesso Heaney ha attribuito il compito di esprimere la propria idea di cosa voglia dire scrivere versi.

Lo si capisce si dall'inizio: la penna riposa comodamente tra le dita dello scrittore, è a suo agio, si adatta alla mano come il calcio di una pistola. Come questa colpisce il suo bersaglio se ben puntata, la penna traccerà sulla carta la sua rotta fino a raggiungere ciò per cui si è messa in movimento. 

Ora un rumore attira l'attenzione del poeta, un suono aspro e netto, il rumore di un vanga che affonda nella terra. E' suo padre, con la schiena china che s'alza e s'abassa, lo stesso movimento, un ritmo uguale da vent'anni. Il pensiero ripercorre oggetti e gesti consueti: lo scarpone, il manico saldo contro il ginocchio, la lama lucente  che affonda nella terra, le patate strette con piacere fra le mani.  Lo conosce bene il lavoro dei campi Seamus Heaney, che è cresciuto in una fattoria, a Mossbawn, nella contea di Derry dove il padre - e il padre di suo padre - facevano i contadini e gli allevatori.

La penna traccia i suoi simboli sulla carta, scava anch'essa nella memoria di quei gesti misurati, pieni di fatica, della nobiltà di un antico rituale e li porta in superficie: l'odore della torba, il sapore del latte, lodore freddo del terriccio sulle patate, il taglio netto della vanga, sempre più giù. Scavare.

Ma non ho vanga per seguire uomini come loro soggiunge il poeta ritornando al presente. Un'altra via ed un'altra fatica lo aspettano. Non potrà seguire la loro strada.

Scrivere poesia tuttavia dovrà essere uguale alla dura fatica dello scavare: bisogna affondare la lama e portare alla luce ciò che è si trova coperto, custodito da radici vive. Bisogna scavare nella terra dei padri, in quel paesaggio, tra quelle zolle, sotto quella stessa angolazione della luce, bisogna scavare con lo stesso amore e con la stessa umiltà, anche con la stessa disperazione, di chi scavava la torba per sottrarre la casa al freddo, alle tenebre la notte. 

Tra il mio pollice e l’indice riposa
la tozza penna.
Scaverò con questa.

venerdì 17 luglio 2020

dorma la sventura infinita.



Quando nell'arca

        Quando nell'arca
ben costruita
il soffio del vento
e il mare sconvolto la prostravano
nella paura, con guance non asciutte,
intorno al capo di Perseo pose la mano
e disse: "O figlio,
quale pena io ho.
Tu dormi: col tuo cuore di bimbo
tu dormi, nella triste arca
dai chiodi di bronzo, nella notte buia
e la tenebra oscura disteso.
E il mare profondo - l'onda sfiora
i tuoi capelli - non curi,
né la voce del vento,
appoggiato nella veste di porpora
il tuo bel viso.
Se ciò che fa paura, per te fosse pauroso,
alle mie parole porgeresti
il tuo tenero orecchio.
Ti prego, bimbo, dormi: e dorma il mare,
dorma la sventura infinita.
Un mutamento appaia,
Zeus padre, da te.
Se un voto audace io formulo,
o lontano da giustizia, perdonami".

Fr. 38/543 Page         
                                       di Simonide di Ceo, traduzione di Francesco Sisti

Raccontavano i Greci questa storia: un oracolo aveva predetto ad Acrisio, re di Argo, che il figlio generato da sua figlia Danae lo avrebbe ucciso. Il re dunque aveva cercato di stornare la predizione imprigionando la figlia in una torre, ma Zeus sotto forma di pioggia d'oro riuscì a possederla e Danae concepì un figlio, Perseo. Il re di Argo non si dette per vinto e fece rinchiudere il bambino con la madre in una cassa che affidò alle onde del mare. Perseo e la madre si salveranno e il destino farà il suo corso.

Simonide in questo frammento immagina le parole disperate di Danae, mentre la cassa in cui si trova con il figlio è in balia degli elementi. E' una notte buia di tenebre fitte, il vento soffia rabbioso e il mare profondo è sconvolto, ma Perseo dorme tra le braccia della madre senza comprendere il pericolo che incombe su di loro. Danae ha il cuore prostrato dalla paura, mentre il figlio tra le sue braccia dorme tranquillo. L'anima sconvolta stretta attorno al respiro innocente di un bimbo che dorme. E questo solo chiede Danae che il suo piccolo figlio non si svegli:

Ti prego, bimbo, dormi: e dorma il mare,
dorma la sventura infinita.

Quante volte sarà risuonata questa preghiera tra le onde del mare, fino ai nostri giorni ... e non solo tra le onde di un mare minaccioso, ma ogni volta che una madre ha cercato di proteggere nel sonno del proprio figlio l'unico, l'estremo riparo contro la sventura.

lunedì 13 luglio 2020

come miniera di rubini sii aperto all'influsso dei raggi del sole





VIAGGIO


Se l'albero potesse muoversi, e avesse piedi ed ali
non penerebbe segato, né soffrirebbe ferite d'accetta.

E se il Sole non viaggiasse con piedi ed ali ogni notte
come potrebbe illuminarsi il mondo all'aurora?

E se l'acqua amara non salisse dal mare nel cielo
come avrebbe vita nuova il giardino con pioggia e ruscelli?

Partì la goccia dalla patria, e tornò,
trovò la conchiglia e divenne perla.

Non partì Giuseppe in viaggio dando l'addio al padre piangente?
E, viaggiando, non ottenne fortuna e regno e vittoria?

E Muhammad non partì forse in viaggio verso Medina,
e sovranità ottenne, e fu re su cento paesi?

Anche se tu non hai piedi, scegli di viaggiare in te stesso,
come miniera di rubini sii aperto all'influsso dei raggi del sole.

O uomo ! Viaggia da te stesso in te stesso,
ché da simile viaggio la terra diventa purissimo oro.

Avanza da amarezza ed acredine verso dolcezza,
ché da suolo amaro e salato nascono mille specie di frutta!


di Jalal ad-din Rûmî

domenica 5 luglio 2020

Ciò che pesa troppo




Ciò che

Ciò che pesa troppo
e trascina in basso
che fa male come il dolore
e brucia come uno schiaffo,
può essere  pietra
o àncora.

di Adam Zagajewski


Ci sono eventi, incontri, svolte improvvise o dolorose che pesano troppo, lo sappiamo e lo impariamo tutti, a volte molto presto, a volte ci mettiamo solo un po' di più. Ciò che pesa troppo incurva le spalle e spinge lo sguardo verso il basso, restringe il campo della nostra vista al prossimo passo, poco più avanti della punta del piede. Il cielo si fa come una lastra chiusa, del colore del piombo, a che guardarlo? Le cose che fanno male spesso ci atterrano, come un pugno che sul ring ci coglie impreparati. In un battere di ciglia siamo al tappeto. A volte invece il processo è più lento: i giorni, poco alla volta, senza quasi che ce ne accorgiamo, accumulano sul nostro capo peso su peso, dolore su dolore, delusione su delusione. Il risultato è lo stesso. Ciò che fa male, diventa pietra, una cosa pesante, che non ci abbandona mai, nemmeno per un attimo. E attorno a questa pietra si concentrano sempre più le nostre emozioni e sensazioni; ne sentiamo il peso gravoso, la sua ruvidezza lascia piaghe sulla mani, diventiamo solo questo. Un uomo, una donna ... che trascina una pesante pietra.

Adam Zagajewski in questa breve poesia ci fornisce la possibilità di guardare all'esperienza del dolore da una prospettiva diversa: ciò che pesa troppo non necessariamente diventa pietra, può invece essere anche un'àncora. Se la direzione del movimento può sembrare a prima vista indistinguibile, perché sia la pietra che l'àncora ci portano verso il basso, del tutto diverso è l'esito finale.

Il simbolo dell'àncora infatti richiama prima di tutto la necessità di rimanere fermi, saldi, là dove la vita sembra trascinarci via, sballottandoci qui e là, senza una meta, senza una direzione, in balia del vento o del mare mutevole. Gettare l'àncora vuol dire in questo senso riaffermare la fiducia nelle proprie forze, nel fatto che la vita ha un senso, uno scopo e che c'è un porto che ci attende per lo gran mar de l'essere (Paradiso, I, v. 113). 

Inoltre questo stesso simbolo disvela un altro aspetto della visione poetica di Zagajewski: l'àncora infatti da sola non può nulla, senza una catena di anelli resistenti e ben temprati che la leghi all'imbarcazione di cui è parte. Gli anelli sono gli altri: i membri della nostra comunità civile, gli amici e i familiari che vivono accanto a noi. Il nostro prossimo insomma Non lo sono necessariamente, né per loro natura; possono esserlo, così come uno stesso dolore è pietra per uno ed àncora per un altro, ma non ci potremo liberare da ciò che pesa troppo con le nostre sole forze. 

L'àncora, infine per fare il suo lavoro deve agganciarsi bene alle profondità della terra, al fondo del mare, all'abisso dove la luce sembra non giungere mai. Non saranno dunque le utopie astratte, le ambizioni a superare la precarietà ed i limiti della condizione umana che ci libereranno del peso del dolore divenuto pietra. E' solo dal punto più profondo della terra che prende a salire la strada verso il cielo.