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domenica 29 novembre 2020

inaspettato ci raggiunge il timore

 



Γλαῦχ᾽, ὅρα· βαθὺς γὰρ ἤδη κύμασιν ταράσσεται
πόντος, ἀμφὶ δ᾽ ἄκρα Γυρέων ὀρθὸν ἵσταται νέφος,
σῆμα χειμῶνος, κιχάνει δ᾽ ἐξ ἀελπτίης φόβος.

Glauco guarda!  Sconvolto è dalle onde il profondo
mare, sulle vette di Gire in alto si erge un nembo,
segno di tempesta, inaspettato ci raggiunge  il timore.

                       Archiloco (Arch. fr. 105 West), la traduzione è mia


Due uomini guardano il mare turbato da una tempesta improvvisa sul punto di scatenarsi: le onde già  iniziano a sconvolgere gli abissi, i nembi sovrastano le vette delle scogliere di Gire. Ecco che da qualche luogo dell'animo, sorge un timore inatteso. 

I commentatori antichi sostenevano che in questi versi la descrizione della burrasca avesse anche un significato allegorico, forse l'approssimarsi di una battaglia, ma allo stesso tempo deducevano dalla precisione dei dettagli e della rappresentazione dello scatenarsi degli elementi, l'origine dell'ispirazione poetica in una esperienza-limite, autobiografica. Credo anche io che sia così, Archiloco in questo frammento riesce, con straordinaria efficacia, a rendere ciò che lì, su quella scogliera, ha afferrato e stretto a sé tanto il corpo che la mente.

Mi sembra che i versi del poeta di Paro rivelino una dimensione profonda della nostra esistenza; certo, è probabile che quanto ha provato in quel giorno insieme al suo amico Glauco, in qualche momento della nostra vita, noi lo abbiamo provato. Tutto sembra andare per il verso giusto: le amicizie, gli affetti, il lavoro, si studiano le migliori scuole per i propri figli, si fanno progetti  di viaggio, gettando un occhio su una carta geografica o alle previsioni metereologiche. 

Esattamente quello che fa Cicerone durante il suo viaggio in Grecia - è lui  stesso a raccontarlo  all'amico Attico - quando, citando i versi di Archiloco, gli riferisce che non si sarebbe affrettato a lasciare l'isola di Delo finché non avesse visto le alture di Gire sgombre da nubi (itaque erat in animo nihil festinare, nec me Delo movere nisi omnia ἄκρα Γυρέων pura vidissem.).  
 
Poi, all'improvviso, tutto cambia: d'un tratto il mare ruggisce ed infuria ed un nembo oscuro, annunciatore di tempesta, si erge sopra le vette dei monti. Nella nostra vita, come in quella del poeta greco.

Non è un caso che l'ispirazione dei versi di Archiloco prenda vita al cospetto del mare,  sul confine assegnato dalla natura allo spazio delle imprese umane. Non solo il mare si è consolidato nell'immaginario dell'uomo con il carattere dell'imprevedibilità, persino della ricerca filosofica, tanto che il filosofo Leibniz, scrive a proposito: «Credevo di essere arrivato in porto, e sono stato rigettato in mare aperto». Ma c'è di più,  il fine ultimo della vita filosofica è espresso da Lucrezio attraverso l'immagine metaforica di un uomo che dalla terraferma osserva, al sicuro da ogni turbamento, un mare in tempesta ed a una nave in pericolo di naufragare. E' la filosofia che secondo Lucrezio può garantire la giusta “distanza di sicurezza” all'uomo, il quale grazie ad essa diventa come uno spettatore, che sereno, contempli la tempesta, la fatica e il pericolo di chi ci s’imbatte, pericolo al quale il filosofo ritiene di non essere esposto. 

Il fatto è che la vita ci sorprende sempre. Per quante attenzioni rivolgiamo, come Cicerone e Lucrezio, a scorgere i "segni della tempesta" o a scansarne gli effetti,  la condizione umana pare inseparabile da quel momento che Archiloco ha espresso benissimo con l'immagine del timore che lo coglie all'improvviso: ἐξ ἀελπτίης. 

Non posso fare a meno di notare in questa parola la radice di ἐλπίς, speranza, negata dal prefisso privativo, cosicché potremmo dire - in un certo senso - che il timore giunge da dove non c'è speranza. Nel lessico greco l'espressione ἐξ ἀελπτίης indica dunque il luogo dell'inatteso, dell'imprevisto e del non-sperato allo stesso tempo. In questo senso il timore giunge non solo da ciò che non siamo in grado di prevedere, ma anche da una dimensione interiore abitata dal non-sperato.

Ritrovo in questi versi lo spirito dell'Iliade, ciò che mi ha fatto innamorare della poesia greca antica: nulla è nascosto di ciò che accade all'uomo colpito dalla sventura, nessuna facile pietà. Vi regna invece il senso profondo della misura, la consapevolezza del limite entro cui si iscrive ogni orizzonte umano, ma anche l'apertura appena accennata, quasi con riserbo, a ciò che può ancora essere, all'insperato,  al non ancora





giovedì 19 novembre 2020

se c’è un precipizio del paesaggio

 


Ho un fiore in mano forse.

Strano.

Nella mia vita deve esserci

stato un giardino un tempo.


Nell’altra mano stringo

una pietra.

Con fiera grazia.

Nessun sospetto

per preavvisi di mutamenti,

sentore di difese piuttosto.

Nella mia vita deve esserci

stata ignoranza un tempo.


Sorrido.

La curva del sorriso,

il cavo del mio umore

somiglia a un arco ben teso,

pronto.

Nella mia vita deve esserci

stato un bersaglio un tempo.

E predisposizione a vincere.


Lo sguardo affondato

nel peccato originale:

assapora il frutto proibito

dell’attesa.

Nella mia vita deve esserci

stata fede un tempo.


La mia ombra, nient’altro che un gioco del sole.

Addosso un’uniforme d’incertezza.

Non ha ancora fatto in tempo ad essermi

compagna o delatrice.

Nella mia vita deve esserci

stata abbondanza un tempo.


Tu non ci sei.

Ma se c’è un precipizio del paesaggio

se io sto sull’orlo

con un fiore in mano

e sorrido,

vuol dire che da un momento all’altro arriverai.

Nella mia vita deve esserci

stata vita un tempo.


di Kiki Dimoula da L’adolescenza dell’oblio (Crocetti, 2000), trad. it. P. M. Minucci


Nel mio viaggio verso una stella tenue incontro a volte viaggiatori che mi mostrano una direzione sconosciuta. Questa volta devo ringraziare Caterina per avermi indicato la via che porta alla poetessa greca Kiki Dimoula.

Succede a volte che la poesia faccia sorgere in chi l'ascolta echi profondi: un suono o una musica che è difficile dire da dove venga. Arriva ed entra in una inattesa consonanza con grovigli di antiche emozioni, incide cicatrici dimenticate, risveglia e scuote. 

In questa poesia mi sembra, che il tessuto emotivo fondamentale si costruisca attorno ad un "oggi", in cui alcune cose accadono: una mano stringe un fiore, l'altra una pietra, un volto che accenna un sorriso. Ed un "passato" che questi gesti richiamano alla memoria. A questa infine sembra che altro non sia concesso se non fare ipotesi, con una grazia del tutto speciale, su ciò che il tempo ha portato via:

Nella mia vita deve esserci

stata vita un tempo.

Solo l'amore, o l'illusione dell'amore, sembra poter sfuggire al potere dello scorrere della sabbia nella clessidra. Si può sorridere sull'orlo del precipizio, aspettando chi da un momento all'altro arriverà.

martedì 10 novembre 2020

Una voce mi chiama

 



Una voce mi chiama

via da questa vita fugace

come una pioggia 
   
     d'estate


                  Shida Yaba  Terzo giorno del primo mese
                                       del quinto anno Genbun (1740)


Quello che avete appena letto è un tipo di poesia in voga in Giappone da secoli. E' chiamato Jisei, la poesia dell'addio, quella che si compone in prossimità della morte, quando il mondo comincia a declinare attorno a noi e ci apprestiamo ad abbandonare ogni cosa, ogni ricordo. Come in molti altri aspetti della vita i giapponesi sembrano attenersi ad un codice ben codificato, insito profondamente nei loro costumi. Lo ha ben spiegato Mario Vattani nel bel libro di cui è autore, "Svelare il Giappone": vi è come un ritmo giapponese di fare le cose, una forma riconoscibile in gran parte delle azioni che un uomo o una donna compiono abitualmente: accenno, pausa, azione perché "eseguire un'azione in modo sbrigativo, con una sola mossa, è volgare e animalesco". 
E' questa una forma che chi ha praticato una delle tante discipline marziali legate all'arte della spada conosce bene. Ogni allievo lo ha colto, osservando il proprio sensei nell'atto di riporre la spada nel fodero: accenno, pausa, azione.

Così sembra essere anche per questa forma di scrittura, Jisei, la poesia del commiato. Quasi che non vogliano invadere con un'emozione improvvisa la sfera interiore di chi è vicino, i Giapponesi da secoli, al presentimento della morte sono soliti affidare alla poesia il compito di aiutare lo "spirito ad allentare i legami con il mondo delle forme e a rilassare i contorni dell'io, così da renderlo partecipe della natura divina che palpita in ogni creatura". A spiegarci tutto ciò è Ornella Civardi che ha curato la raccolta intitolata "Jisei, poesie dell'addio" per l'elegante casa editrice SE. 

Shida Yaba, l'autore dell'haiku, che avete appena letto era stato discepolo di Matsuo Bashō, probabilmente il massimo maestro di questo genere di poesia - alcuni suoi componimenti potete leggerli anche qui sul blog. Yaba è già piegato dalla malattia quando si fa consegnare carta e pennello per comporre insieme le 17 sillabe che formano il suo haiku. Mancano in realtà ancora una ventina di giorni alla sua morte e il poeta avrà modo di scriverne ancora uno, di intensa e inconsueta mestizia prima di chiudere gli occhi per sempre. 

La poesia del terzo giorno del primo mese del quinto anno Genbun si apre con un richiamo rivolto al poeta, la voce probabilmente è proprio quella di Bashō, il suo maestro.  Certo non è una voce qualunque quella che il poeta sente, ma quella voce che custodiva nel suo cuore, probabilmente proprio quella che si attende di ascoltare. Accade anche ad alcune anime, quando sono tese come la corda di uno strumento musicale, pronte a risuonare ad uguale accordo, ad uguale intensità. 

In molti, credo, abbiamo fatto esperienza di questo particolare senso dell'ascolto: la voce di qualcuno che è importante per noi ci raggiunge prima che il senso della vista ne sveli la misura del passo, l'atteggiamento del viso, il sorriso consueto. Per chi è innamorato un tale momento è prezioso come il rumore delle acque di un torrente di montagna a lungo cercato tra forre e boschi. Il respiro si fa quasi esitante in quell'istante. 

La voce del maestro chiama, anzi chiama via, non per esortare ad un distacco più risoluto, ma a lasciare un peso ormai superfluo, un impedimento inutile. Via da questa vita fugace. L'inganno è voler trattenere ciò che deve passare, rivendicare ciò che è bene disperdere, indugiare tristemente su ciò che si deve contemplare nel suo trascorrere. 

come una pioggia d'estate.