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domenica 24 gennaio 2021

Diciassette mesi che grido

 

Una prigione russa in una foto d'epoca


 Diciassette mesi che grido,

Ti chiamo a casa.

Mi gettavo ai piedi del boia,

Figlio mio e mio terrore.

Tutto s'è confuso per sempre,

E non riesco a capire

Ora chi sia la belva e chi l'uomo, 

E se a lungo attenderò l'esecuzione.

E solo fiori polverosi, e il tintinnio

Del turibolo, e le tracce

Chissà dove del nulla.

E diritto negli occhi mi fissa

E una prossima morte minaccia

L'enorme stella.

    

            Anna Achmatova, Requiem, traduzione di Carlo Riccio 


La breve raccolta Requiem fu scritta dalla Achmatova dopo l'arresto di suo figlio nel 1938. Era quello il periodo che i russi chiamarono poi “ežovščina”, ovvero il periodo del regime di Nikolaj  Ežòv, il principale organizzatore delle grandi purghe staliniane, in cui finirono stritolati veri dissidenti, intellettuali non allineati, dirigenti di partito scomodi, semplici cittadini lontani dalla vita politica. Si cominciò, in quegli anni, a diffidare di tutti, del vicino di casa come del collega di lavoro: si denunciava per non essere denunciati. I processi erano rapidi, le sentenze immediate.

Anche Anna Achmatova visse quello che molti Russi stavano soffrendo. Il suo primo marito era stato fucilato nel 1921 per attività controrivoluzionaria, alcuni dei suoi amici più cari avevano subito persecuzioni e condanne. come Osip Mandel’štam che verrà inghiottito in un gulag in Siberia. Nel 1938 tuttavia l'arresto di suo figlio è per la poetessa un colpo quasi insostenibile, in cui si confondono affetti e terrore e non c'è spazio per la dignità personale, tanto da arrivare a gettarsi ai piedi del boia. 

Peggiore della paura è forse il pensiero che il regime bolscevico abbia voluto colpire lei attraverso suo figlio, di essere stata, in qualche modo, causa della miseria del figlio. In momenti come quelli, la mente stenta a definire la realtà,  tutto s'è confuso per sempre; non è facile riconoscere la belva dall'uomo.  Il pensiero prova ad interrogare il tempo che manca all'esecuzione. L' immagine di un turibolo dal quale sale l'incenso del rito funebre si confonde con quello di una nuda tomba senza nome.

Dei diciassette mesi nei quali Anna Achamatova si mise in fila, spesso per ore, di fronte alla prigione di Leningrado ci ha lasciato un testo meraviglioso, se è lecito usare questo termine, per parole tanto piene di afflizione. Si tratta della prefazione alla raccolta Requiem

ecco il testo:

   Nei terribili anni della “ežovščina” ho trascorso diciassette mesi a fare la coda presso le carceri di Leningrado. Una volta un tale mi riconobbe. Allora una donna dalle labbra bluastre che stava dietro di me, e che, certamente, non aveva mai udito il mio nome, si ridestò dal torpore proprio a noi tutti e mi domandò all’orecchio (lì tutti parlavano sussurrando):

–        Ma lei può descrivere questo?

E io dissi:

–        Posso.

Allora una specie di sorriso scivolò per quello che una volta era stato il suo volto.

 1° aprile 1957. Leningrado


Solo mi sarebbe piaciuto averla vista l'ombra del sorriso che scivola sul volto di quella donna senza nome, anzi su quello che una volta era stato il suo volto, mi sarebbe piaciuto davvero.



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