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venerdì 1 luglio 2022

Mi piace rischiarare nelle tenebre



Confessione di un teppista 


Non a tutti è dato cantare,

non a tutti è dato cadere

come una mela ai piedi degli altri. 


È questa la confessione piú grande

che possa mai farvi un teppista.

Io vado a bella posta spettinato

col capo sulle spalle come un lume a petrolio.

Mi piace rischiarare nelle tenebre

l’autunno senza foglie delle vostre anime.

Mi piace quando i sassi dell’ingiuria

mi volano addosso come la grandine d’una ruttante bufera.

Stringo allora piú forte con le mani

la bolla tremula dei miei capelli. 


È cosí dolce allora ricordare

lo stagno erboso e il rauco suono dell’alno

e mio padre e mia madre viventi in qualche luogo,

che s’infischiano di tutti i miei versi

e mi amano come il campo e la carne,

come la pioggerella che a primavera rende soffice il verde.

Verrebbero a infilzarvi con le forche

per ogni vostro grido contro di me scagliato. 


Poveri genitori contadini!

Siete di certo diventati brutti,

temete sempre Dio e le viscere palustri.

Potreste almeno capire

che vostro figlio in Russia

è il migliore poeta!

Il cuore non vi si copriva di brina per la sua vita,

quand’egli si bagnava i piedi nudi nelle pozze autunnali?

Ora invece cammina in cilindro

e con le scarpe lucide. 


Ma sopravvive in lui l’antica foga

del monello di campagna.

Ad ogni mucca delle insegne di macelleria

di lontano egli manda un saluto.

Ed incontrando i vetturini in piazza,

ricordando l’odore di letame dei campi nativi,

egli è pronto a reggere la coda d’ogni cavallo

come lo strascico d’una veste nuziale. 


Io amo la patria.

Amo molto la patria!

Anche se una mestizia rugginosa avvolge i suoi salici.

Mi sono gradevoli i grugni imbrattati dei maiali

e la voce dei rospi sonante nella quiete notturna.

Io sono teneramente malato di ricordi d’infanzia,

sogno la bruma delle umide sere d’aprile.

Come per riscaldarsi il nostro acero

s’è accoccolato al rogo del tramonto.

Oh, quante volte mi sono arrampicato sui rami

a rubare le uova dai nidi dei corvi!

È ora sempre lo stesso, con la cima verde?

La sua corteccia è dura come prima? 


E tu, mio diletto,

fedele cane pezzato?!

La vecchiezza ti ha reso stridulo e cieco

e vaghi per il cortile, trascinando la coda penzolante,

senza piú ricordare dove sia la porta e dove la stalla.

Come mi sono care quelle birichinate

quando, sottratto a mia madre un cantuccio di pane,

lo mordevamo insieme uno alla volta,

senza avere ribrezzo l’uno dell’altro. 


Io non sono cambiato.

Non è cambiato il mio cuore.

Come fiordalisi nella segala fioriscono gli occhi nel viso.

Stendendo stuoie dorate di versi,

vorrei dirvi qualcosa di tenero.

Buona notte!

A voi tutti buona notte!

Piú non tintinna nell’erba del crepuscolo la falce del tramonto.

Stasera ho tanta voglia di pisciare

dalla finestra mia contro la luna. 


Azzurra luce, luce cosí azzurra!

In quest’azzurro anche il morir non duole.

Che importa se ho l’aria d’un cinico

dal cui sedere penzola un fanale!

Vecchio e bravo Pegaso straccato,

mi occorre forse il tuo morbido trotto?

Sono venuto come un maestro austero

a decantare e a celebrare i sorci.

Simile a un agosto, la mia zucca

si effonde in vino di capelli tumultuosi. 


Io voglio essere una gialla vela

per quel paese verso cui navighiamo. 


di Sergej Aleksandrovič Esenin



Nella poesia Confessione di un teppista  del giovane Esenin c'è molto di quello che mi ha sempre attirato nei poeti russi, qualcosa che  si innesta sul fascino esercitato dalla Russia e dalla sua cultura millenaria: sinfonie che lacerano l'anima come il pugnale di un cosacco e litanie mistiche di monaci visionari. Il profumo d'incenso si innalza da piccole chiese, confuso al fumo delle candele che illuminano antiche e venerate icone, mentre gli animi degli uomini e delle donne bruciano di passioni invincibili e distruttive. Una contraddizione imperitura tra cielo e abisso, luce e tenebra, le più alte vette e il sottosuolo più sordido. Tale amore per la Russia mi piace dichiararlo ora, in questi tempi poco adatti, come un teppista, proprio ora sì, quando il nome stesso di quella terra è divenuto per molti suono odioso, destino maligno, un  abominio quasi per le nette coscienze dei benpensanti. Strillino pure i megafoni dei venditori ambulanti che promettono pietà a corrente alternata: davvero gracchiano invano la loro indignazione smemorata, io amo il teppista  che giunge

 come un maestro austero

a decantare e a celebrare i sorci.

e il mio animo abita là dove si danno la mano il povero pellegrino, il teppista, il cavaliere delle steppe e il poeta. 

Il poeta è un teppista, deve esserlo, sembra dirci Esenin in questa poesia. il suo destino è rischiarare le tenebre, anche a costo di essere colpito dai sassi dell'ingiura, dall'ostilità del pubblico o dall'invidia della città. Le parole del teppista - si mescolano a quelle del musico là dove Esenin dice di voler pisciare dalla sua finestra contro la luna o che non gli importa di avere l’aria d’un cinico/dal cui sedere penzola un fanale.

Il giovane poeta ripercorre così la propria storia: la sua infanzia vissuta in una casa di campagna, insieme a poveri contadini, ai quali capitava che il cuore si coprisse di brina per la sua vita. La giovinezza trascorre tra pozze autunnali in cui sguazzare, rami di alberi su cui arrampicarsi per rubare uova di corvo, il fedele cane pezzato con cui dividere di nascosto un cantuccio di pane. Un mondo di affetti autentici in cui i suoi genitori - e qui Esenin davvero si rivela poeta da cui non si può prescindere  - s'infischiano di tutti i miei versi/e mi amano come il campo e la carne.

Capita spesso con la poesia: ci sono dei tesori nascosti al suo interno, a volte attendono lì senza far rumore. Poi, alla terza o alla quarta lettura, si illuminano d'improvviso di una luce di straordinaria intensità. Mi spiego, ad una luce simile allude Dante in alcuni impressionanti versi del primo canto del Paradiso, quando, per spiegare in che modo i suoi occhi possano vedere ciò che all'uomo normalmente non è concesso, dice che era come se Dio (colui che può tutto) avesse aggiunto un altro sole a quello che brilla nel cielo,  

come quei che puote /avesse il ciel d’un altro sole addorno.

C'è nell'espressione usata da Esenin per descrivere l'amore dei suoi genitori qualcosa di clamoroso e struggente. il padre e la madre se ne infischiano dei suoi versi, della eleganza ricercata - il cilindro e le scarpe lucide, non si curano della fama passeggera, amano come il campo. Fermiamoci a questa prima immagine, in cui c'è qualcosa di profondamente spirituale e di terreno al tempo stesso. Per entrarci dentro è inevitabile tornare alla Russia della fine dell'Ottocento e a quel mondo contadino per cui Esenin dice di provare dolci ricordi. Fino a qualche decennio prima della nascita del nostro giovane poeta vigeva nelle terre dello zar la legge della servitù della gleba: i contadini non potevano spostarsi dal campo a cui erano assegnati e vivevano in condizioni difficili, spesso sotto il dominio molto duro dei propri signori, esposti all'arbitrio di prepotenze e abusi. I genitori di Sergej Aleksandrovič erano cresciuti in tale condizione. Cosa vuol dire allora quel verso? mi amano come il campo ...

Credo che il campo possa rappresentare ciò che dà la vita, ciò che è necessario, la cosa senza la quale non è possibile vivere. Il padrone può essere un uomo crudele ed avido, il tempo rovinare il raccolto e i corvi  giungere all'improvviso per divorare le messi, ma il campo rimane. Il legame non si spezza mai,  è ciò di cui non si può fare a meno. Come l'amore per un figlio.  

I genitori del poeta lo amano, si aggiunge, come la carne. Trovo qui di nuovo concretezza e spiritualità, quel connubio di opposti che riesce così bene solo in queste lande troppo lontane, in questa lingua dai segni che sembrano formule magiche. La carne, il segno della festa che annuncia lo spalancarsi di un tempo diverso e sacro, il gesto antico del sacrificio, perché in quel mondo arcaico cibarsi di carne vuol dire versare il sangue di un essere vivente e questo è sempre un atto rituale, un sacrificio di condivisione. Mangiare carne è anche il modo in cui si fa propria la vita di un altro. Non a caso il profeta di Nazareth ha posto l'essenza stessa della fede in Lui in parole inequivocabili: questa è la mia carne ... 

La voce di Esenin assume un tono inattuale - e perciò quanto mai prezioso - quando scrive :

Io amo la patria.

Amo molto la patria!

La sua è tuttavia una patria del cuore: non ha lo splendore di Pietroburgo, ma coincide con il povero paesaggio della sua terra: La patria sono le sue radici, le preghiere semplici dei suoi cari, le loro credenze ancestrali : una mestizia rugginosa avvolge i suoi salici. 

Stendendo stuoie dorate di versi,

vorrei dirvi qualcosa di tenero.

Buona notte!

A voi tutti buona notte!


Chi è l'autore di "Confessione di un teppista" ?

Sergej Aleksandrovič Esenin nasce il 3 ottobre 1895 nella regione di Rjazan; figlio unico di genitori contadini, è l’esponente più importante della cosiddetta scuola dei “poeti contadini”. Nei suoi versi traspare il mondo rurale della Russia di inizio Novecento: le sue parole esaltano le bellezze della campagna, l’amore verso il regno animale, ma anche gli eccessi della sua vita: Esenin, condusse una vita di eccessi e dissoluzione. 

Le note che seguono sono tratte dal dal sito  https://www.pangea.news/sergej-esenin-ritratto-ragazzini/

Cantore della Rus’, la Russia mitica che si perde tra le pieghe del tempo e tutta splendente di verdi pascoli e sapienti eroi pastori, aveva però abbandonato la contrada natale per recarsi nella grande metropoli. Laggiù aveva costruito la sua notorietà proprio su quella bucolica Rjazan’ che aveva abbandonato, fino ai giorni della rivoluzione.

Esenin non era un rivoluzionario, forse aveva creduto che i venti del cambiamento avrebbero portato qualcosa di buono, una nuova vita per la Rus’ arcaica. Ma i bolscevichi non avevano alcuna intenzione di ripristinare un tempo così lontano, così ideale. Anzi, erano più votati all’acciaio, anziché ai verdi pascoli. Dev’essere difficile credere o sperare in una causa e poi abbandonarla, inorriditi da come le buone idee possono trasformarsi in azioni terribili. Quando Esenin farà ritorno al suo borgo, dirà di non essere mutato; invece la sua casa è scivolata nell’autunno più grigio che si possa pensare, trascinando con sé la famiglia e il paese intero.

Il poeta muore suicida il 27 dicembre 1925, all’età di 30 anni: mentre si trovava nella stanza di un albergo a San Pietroburgo, se ne va impiccandosi alle tubazioni dell’impianto di riscaldamento.





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