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domenica 23 ottobre 2022

... quando Amor mi spira







Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore 

trasse le nove rime, cominciando 

‘Donne ch’avete intelletto d’amore’».                            


E io a lui: «I’ mi son un che, quando 

Amor mi spira, noto, e a quel modo 

ch’e’ ditta dentro vo significando».                                


«O frate, issa vegg’io», diss’elli, «il nodo 

che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne 

di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!                               


Io veggio ben come le vostre penne 

di retro al dittator sen vanno strette, 

che de le nostre certo non avvenne;                             


e qual più a gradire oltre si mette, 

non vede più da l’uno a l’altro stilo»; 

e, quasi contentato, si tacette.    


Ma dimmi se io vedo qui colui che trasse fuori

la nuova poesia, cominciando (la canzone)

"Donne ch'avete intelletto d'amore".


Ed io a lui: "Io sono uno che quando             

Amor mi ispira, annoto, e tutto ciò che             

egli detta nel cuore, vado trascrivendo.


 Oh fratello, ora vedo - disse egli - il nodo che

 trattenne il Notaio (Jacopo de' Lentini), Guittone e me

  al di là dello stile nuovo e dolce che io ascolto !

 Io vedo bene come le vostre penne (la vostra poesia)

 si tengono strette dietro a colui che detta

 cosa che con le nostre penne non accadde.


e chi più si inoltra a comprendere questa differenza, 

non  può vedere differenza maggiore 

tra l'uno e l'altro modo di  fare poesia", e come appagato, tacque.



            Dante, Purgatorio XXIV canto


Il passo è molto noto: sulle scoscese vie del monte del Purgatorio si incontrano due poeti, Dante e l'anima di Bonagiunta da Lucca, un poeta della generazione precedente a quella degli stilnovisti, un poeta stimato ed apprezzato. Questi appare desideroso di interpellare il fiorentino con una domanda che dà l'avvio ad uno dei dialoghi più famosi della Commedia: sei proprio tu ? sei colui che ha aperto la strada a nove rime, ad una nuova poesia, quando hai composto la canzone ’Donne ch’avete intelletto d’amore’ ?  

Sia detto per inciso, il lettore moderno dovrebbe soffermarsi di più su questo prodigioso endecasillabo, in cui le donne smettono di essere lo specchio meraviglioso della creatività divina e si svincolano dal ruolo, pur nobilissimo del miracolo degno delle più grandi lodi, rivelando infine che proprio nella natura femminile risiede, in forma specialissima, la facoltà di intendere la virtù d'Amore. 

Ma torniamo alla domanda di Bonagiunta, nella quale scorgiamo il carattere di un'urgenza non solo intellettuale, dal momento che subito ci si fa chiaro che non si tratta di una mera curiosità: capire, sciogliere il garbuglio di dubbi non ancora lasciati alle spalle vuol dire infatti trovare il senso autentico dell'impegno di un'intera esistenza. Non di dotte ed astratte discussioni di letterati quindi si tratta, ma del bilancio del proprio faticoso cammino.  La risposta di Dante, come sanno coloro che su questi versi hanno affinato, in faticose veglie, la propria vocazione, ha sollecitato l'indagine di molti studiosi. Di questi troppo lungo sarebbe anche trascrivere l'elenco dei nomi, figuriamoci dare conto dei loro contributi. E tuttavia proviamo anche noi a comprendere cosa si celi nei versi  dell'exul inmeritus a proposito delle sue nove rime. 

Lo facciamo oggi attraverso le riflessioni di una scrittrice piuttosto nota, Elena Ferrante. L'autrice de L'Amore molesto si è soffermata sull'episodio della Commedia nel saggio che chiude "I margini e il  dettato", un suo recente libro, nel quale sono raccolte alcune lezioni attorno alla "smania di scrivere", ovvero alle difficoltà, alla necessità e all'impegno di scrivere. Il saggio si intitola significativamente La costola di Dante, in riferimento all'importante ruolo svolto da Beatrice nell'ordito strutturale del poema: a lei infatti non solo è affidato il compito di salvare Dante dalla selva oscura, ma soprattutto sono le sue parole vere, sulla cima del Purgatorio, a prendere il posto delle ornate parole di Virgilio come via di salvezza.

Secondo la scrittrice nell'episodio di Bonagiunta si deve vedere soprattutto la "messinscena di un fallimento": i versi del XXIV canto pongono in luce il fatto che l'esperienza umana dell'alfabeto è un'arte esposta alle delusioni più cocenti. La portata di tale insuccesso, inoltre, finisce per provocare nel lettore una speciale commozione per le parole pronunciate dal rimatore Bonagiunta. Nel dialogo tra i due poeti  si manifesta la dote più stupefacente del poeta fiorentino, l'immedesimazione; è vero che egli si pone come l'orgoglioso fondatore di un nuovo stile, ma è anche nel contempo il sorpassato Bonagiunta, ne veste le intime contraddizioni, fa sue le esitazioni dell'altro. Una descrizione nella Commedia - sottolinea Elena Ferrante - non è mai solo questo, ma sempre un "trapianto di sé, un salto rapidissimo del cuore dall'interno all'esterno"
Mi sembra che tale linea interpretativa getti una luce nuova e molto interessante sull'episodio della Commedia. Indizi della sua validità sono a mio avviso il fervore concitato della domanda, ma dimmi... e il vigore espressivo di quell'avverbio: issa, ora, che colloca la presa di coscienza in un sentimento che potremmo 'tradurre' nella formula solo adesso, un hic et nunc che giunge pur sempre oltre il tempo della vita mortale. Nello stesso modo forse è da considerare l'espressione quasi contento, nella quale il valore attenuativo di quasi sottolinea il carattere drammatico dell'esperienza del poeta lucchese, appagato nella sua richiesta di verità, eppure non del tutto quietato. Grato per la luce ricevuta ed insieme non ancora del tutto libero da un'ombra di pensoso rammarico.

La malinconica constatazione di incapacità confessata da Bonagiunta - nota Elena Ferrante - ci pone una domanda: "perché uno riesce e altri falliscono?" A leggere i versi del canto sembrerebbe soprattutto una questione di velocità: coloro che rimasero al di là del nodo, fallirono non per il fatto che mostrarono poca attenzione a ciò che Amore spira e detta, ma in quanto non riuscirono a stargli dietro, come un segretario al quale il suo signore detti le sue parole troppo velocemente. In effetti, il prestare orecchio allo spirare e al dittare dentro, perché la penna significhi e noti, è sì l'enunciazione di una poetica, ma soprattutto l'esplicitazione di una difficoltà. Necessari sono forse una pratica assidua, un esercizio estenuante, l'acribia dello studium, oppure la tensione che sempre comporta ogni ars? Sono queste cose che vanno apprese e coltivate? Insomma quale natura possiede il vincolo che impedì a Bonagiunta di tener dietro alla dettatura di Amore? 

Secondo la scrittrice per rispondere a questa domanda è necessario ritornare a quel XIX capitolo della Vita Nuova, in cui Dante racconta di come in lui si manifestò, per la prima volta, la volontade di scrivere in una forma nuova, nuove poesie, nove rime appunto. Quel momento è descritto come il sopraggiungere di un'intuizione in base alla quale - è il poeta della Commedia a parlare - " la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa". Questo dunque il nodo che trattenne i rimatori precedenti al di qua del dolce stile, il motivo del cruccio dell'anima di Bonagiunta, il fardello in cui è avvolto il suo camminare quasi contento verso la cima del monte, dove potrà finalmente deporlo per sempre. 

Lo voglio sottolineare di nuovo: i versi del canto non ci chiamano, sul ciglio impervio di quel sentiero, a fare da spettatori ad una disputa accademica, a lambiccamenti eruditi. Ben altro è in gioco: la poesia per Dante, in quel frangente in cui la lingua parlò quasi come per se stessa mossa, si è manifestata come strumento volto a salvare l'uomo, emancipandolo dalla condizione di miseria ed afflizione morale per condurlo alla pienezza di sé. Il coinvolgimento del lettore, la sua partecipazione esistenziale, a cui abbiamo prima accennato, è  di continuo ricercata, ma in quanto essenziale alla possibilità di una svolta nella conduzione della sua vita. Mario Luzi, a questo proposito, ha notato come la poesia per Dante è costantemente mossa da un principio essenziale di rigenerazione. Dalla lettura del poema si deve ricavare un modello attivo di comportamento, la decisione di una condotta futura, che guidi il lettore ad uno stato di grazia. Lo stesso Pietro, il figlio maggiore di Dante, nel suo commento ha lasciato scritto che l'ammaestramento tratto dalla Commedia è diretto "ad aprire gli occhi della mente per considerare dove ci troviamo, se sulla giusta via verso la patria celeste, oppure no". Né bisogna dimenticare che la coscienza del proprio ruolo, quello cioè di profeta (nel senso originario di colui che parla per un altro) investito da Dio di una missione vitale, è connessa con il dolore dell'esilio, anzi nasce dall'esperienza dell'ingiusto esilio. Come ha notato, con straordinaria sensibilità, Attilio Momigliano, Dante fa dell'esilio "il malinconico piedistallo del giudice solenne dell'umanità".

Se tuttavia la nuova poesia, ispirata da Beatrice, è quella che nasce quando la lingua prende a parlare quasi per se stessa mossa, quale rilievo possono avere allora le disciplina, lo studio, il tirocinio di chi è chiamato a significare ciò che l'Amore rivela? Come tenere insieme l'alto compito affidato alla missione del poeta-profeta e questo carattere spontaneo del suo parlare in poesia? Non c'è dubbio - ha ragione Elena Ferrante - che Dante è diverso dai poeti precedenti (e in ciò risiede parte del suo successo) perché aveva riconosciuto l'insufficienza della scrittura, ne comprendeva i limiti, i rischi, consapevole com'era che tale insufficienza è parte della caducità dell'umano. 

Grati davvero ad Elena Ferrante per aver richiamato l'attenzione sul dialogo tra Dante e Bonagiunta, mi sembra che ci si possa spingere ancora un po' nella fatica di intellegere. Siamo lì, sulle balze del Purgatorio, indugiando ad ascoltare le parole appassionate dei due poeti ed ecco, ciò che possiamo portarci via è la presa di coscienza della penuria delle possibilità espressive della scrittura? A prima vista un misero bottino. Se non che abbiamo cominciato a sospettare che solo a partire dal riconoscimento di questa penuria, solo costruendo sugli effimeri pilastri su cui si regge, è possibile far vivere la poesia che ci salva dai quieti sobborghi dell'appagamento, l'espressione è di Emily Dickinson, che ha, a mio avviso colto perfettamente la natura della poesia nei versi che qui riporto.

Potesse un Labbro mortale intuire

Il Carico primordiale

Di una Sillaba pronunciata

Si sgretolerebbe sotto quel peso -


La Preda di Zone Sconosciute -

Il Saccheggio del Mare

I Tabernacoli della Mente

Che hanno detto a me la Verità -

Proprio di recente qualcosa del genere ce lo ha mostrato anche la poesia The secret Muse di Roy Campell, di cui ci siamo occupati da poco (potete leggerla insieme al mio commento nel blog): nei versi del poeta sudafricano appare chiaro lo scarto inevitabile tra ciò che la Musa vuole svelare e ciò che il pensiero può trattenere, così come avviene nella nuova poesia della Commedia, tra ciò che Amore ditta dentro (quanto è essenziale questo dentro!) e la penna dello scrivano che prova invano a stargli dietro.  Non ci si può accostare alla comprensione delle nove rime a mio avviso, se non a partire dalla comprensione che l'irruzione di tale poesia ha in sé qualcosa di inaccessibile, di abissale persino. 

La poetica del Paradiso, la sua drammaticità è in questa tensione tra l'irruzione dell'eterno ed i limiti dell'umano, tra il desiderio di raggiungere la luce e la constatazione che solo un'ombra è quella che si può ridire. Infine solo guardando negli occhi dell'amata Beatrice, solo nello sguardo di Uno che ci ama,  è possibile fissare gli occhi al sole oltre nostr'uso (potete scrivere uno con la minuscola e l'idea funziona lo stesso).

Nel momento in cui ci apprestiamo a concludere, lasciamo la parola a Dante che queste cose, enormi e sconvolgenti, le dice proprio all'inizio della cantica del Paradiso, in due terzine tra le più belle dell'intero poema:

Nel ciel che più de la sua luce prende 

fu’ io, e vidi cose che ridire 

né sa né può chi di là sù discende;                                 


perché appressando sé al suo disire, 

nostro intelletto si profonda tanto, 

che dietro la memoria non può ire.    

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