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giovedì 27 luglio 2023

su quanti abissi ho cantato

 


Primo preavviso


In fondo che cosa c'importa 

Che tutto si tramuti in cenere,

Su quanti abissi ho cantato, 

In quanti  specchi ho vissuto?

Che io non sia né sonno né gioia

E, meno di tutto, grazia beatificante,

Ma, forse, più di quanto necessiti

Ti toccherà rammentare 

E il rombo dei versi smorzantisi,

E l'occhio che al fondo nasconde

Quel rugginoso serto pungente

Nel suo silenzio angoscioso.

Mosca, 6 giugno 1963


                        Anna Achmàtova, da "Poema senza eroe" (traduzione di Carlo Riccio)


Riprendo a scrivere dopo un po' di tempo,  sollecitato dalla lettura del libro "Vi avverto che vivo per l'ultima volta" dedicato ad Anna Achmatova da Paolo Nori. Un libro acceso di passione, cupo senza essere disperato,  bello di una bellezza non consolatoria. Nelle sue  pagine la vita difficile della poetessa russa si mescola alle tragedie dei nostri giorni: le persecuzioni politiche, la guerra, l'importanza della poesia, la temerarietà disinvolta di chi sfida il potere. In un continuo oscillare tra passato e presente.


Poche poetesse mi coinvolgono come Anna Achmàtova. Lo confesso. Prendete questa poesia, dodici versi bellissimi, un linguaggio che vibra della forza incandescente delle immagini subito dai primi due versi: 
In fondo che cosa c'importa / Che tutto si tramuti in cenere. Un incipit straordinario, seguito da altri due versi impressionanti,  Su quanti abissi ho cantato.  Si coglie in questi versi, in modo limpido, il senso di ciò Cristina Campo ha chiamato "il coraggio dell'attenzione" e che coincide con il nocciolo stesso della poesia.

C'è  un aneddoto  tra quelli  che Paolo Nori racconta nel suo libro che ha a che fare con l'intensità dolente di questa espressione. Nel 1965, un anno prima di morire, Anna Achmatova accetta di incontrare un professore americano che vuole sapere da lei che cosa sia la cosiddetta anima russa. La poetessa prova più  volte, gentilmente, a cambiare discorso, ma l'americano non demorde,  insiste,  insiste fino a farla irritare. Esasperata esplode:  "Non lo sappiamo cos'è l'anima russa!" Il professore ribatte alzando la voce: "Dostoevskij lo sapeva!". La risposta di Anna è  profonda e raggelante. La immagino così, il volto ricomposto in un'espressione di regale benevolenza. "Dostoevskij sapeva molte cose"  - dice  - "ma non tutto. Per esempio pensava che se uccidi  una persona, diventi Raskol'nikov. (Sta parlando del protagonista di Delitto e castigo) Ma noi adesso sappiamo che puoi ucciderne cinquanta, cento, e la sera andare a teatro beato e tranquillo". 
Quando Anna rivolge queste parole al professore americano sa di cosa parla: i bolscevichi le hanno ucciso il primo marito nel 1921, il regime staliniano ha fatto morire il secondo in carcere, ha imprigionato suo figlio per quindici anni, i suoi amici poeti anche loro hanno conosciuto l'orrore del gulag, alcuni come Mandel štam vi sono morti. Nel 1946  Anna Achmatova viene espulsa dall'Unione degli scrittori: "la sua poesia - dicono - non è  tollerabile nella letteratura sovietica". Viene privata di ogni  sovvenzione ridotta alla fame, a vivere negli stenti. Non smette mai di scrivere poesia.

Se cerco nella mia biblioteca mentale una definizione di cosa sia un dittatore o un despota, mi sa che questa risposta dell'Achmatova al professore americano è la cosa migliore che trovo: uno che può uccidere cinquanta o cento uomini e poi andare a teatro beato e tranquillo.
È così che voglio  spiegare la dittatura ai miei studenti.





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