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domenica 13 agosto 2023

Fuge, tace, quiesce



Mentre il silenzio fasciava la terra

e la notte era a metà del suo corso,

tu sei disceso, o Verbo di Dio,

in solitudine e più alto silenzio.


La creazione ti grida in silenzio,

la profezia da sempre ti annuncia,

ma il mistero ha ora una voce,

al tuo vagito il silenzio è più fondo.


E pure noi facciamo silenzio,

più che parole il silenzio lo canti,

il cuore ascolti quest'unico Verbo

che ora parla con voce di uomo.


A te, Gesù, meraviglia del mondo,

Dio che vivi nel cuore dell'uomo,

Dio nascosto in carne mortale,

a te l'amore che canta in silenzio.


                            di David Maria Turoldo

L'estate può essere un periodo complicato: cerchiamo la tranquillità e sperimentiamo inquietudine, desideriamo compagnia eppure nei luoghi affollati siamo a disagio, ecco il rumore della musica, le chiacchere dei benpensanti che si mischiano con il vociare dei saccenti... 

Ho cominciato a scrivere queste note in un posto tranquillo ed ombroso, lungo la costa lucana; d'un tratto da un invisibile altoparlante suona una musica a me del tutto sconosciuta, le canzoni si susseguono uguali l'una all'altra, parlano di spacciatori, di macchine di lusso e di belle tipe, di pistole e di sbirri da cui scappare. Il ritmo è ossessivo, come un tamburo di orchi nell'oscurità. Per uno di quei casi che capitano a chi viaggia verso una stella tenue, cullato dal rap criminale, sprofondo nelle parole del libro di fronte a me. E da una citazione procedo ad un verso poetico, da quel verso giungo ad una Sura del Corano e da questa sura sono come trascinato alla storia del profeta Elia, il quale, per le minacce della moglie di Acab Jezebel, si inoltrò nel deserto e andò a sedersi sotto una ginestra, in preda allo sconforto. Ma proprio lì - nel deserto, nel silenzio, nella solitudine, nell'apparente sconfitta di tutti i suoi progetti -  fece l'esperienza più profonda della tenerezza di Dio, che si rivela a lui non nei tuoni e nei lampi e nei terremoti, ma come sussurro di una brezza leggera. Il rap dei gangster per un attimo mi fa andare fuori rotta, ma infine ecco l'approdo salutare alla poesia di David Maria Turoldo, quella riportata qui sopra, nella quale la parola silenzio ritorna per sette volte in sedici versi. I tamburi sono ormai un'eco lontana. Vi racconto dunque il mio vagabondaggio, voi mettetevi comodi. 

Il viaggio comincia nel IV secolo della nostra era, sugli avamposti della spiritualità contemplativa cristiana, al limite del deserto, tra l'Egitto e la Siria. Voltate le spalle alla civiltà, alle città ricche raffinate e colte del mediterraneo, eremiti e monaci scelgono di abitare l'inabitabile e dei loro eremi fanno il luogo per conoscere se stessi, anzi per divenire se stessi: lì "il temibile faccia a faccia con il proprio io reale (oltre i fantasmi del proprio narcisismo) può trasformarsi - secondo Adalberto Mainardi - nello strumento per una dilatazione della propria umanità. Certo, l'elogio della vita solitaria, trascorsa nel silenzio e nella ricerca interiore non è un'invenzione dei cristiani, percorre tratti importanti della filosofia della Grecia e dell'India; è tra gli ammonimenti dell'oracolo delfico, addirittura Filone di Alessandria, nel suo trattato sulla vita contemplativa, non si limita a farne l’elogio, ma arriva a dire che “la divina  Sapienza è amica del deserto (philéremos)”.

Abba Arsenio è uno di questi santi monaci, forse - da quanto capiamo - il meno adatto alla solitudine; dopo aver abbandonato gli sfarzi della corte imperiale, dove svolgeva la funzione di precettore dei figli dell’imperatore Teodosio, sceglie la strada del deserto, ma  si tratta di una scelta difficile, piena di ostacoli. Ad un certo punto lo vediamo nel pieno di un combattimento interiore, allora domanda a Dio di condurlo in una via in cui possa salvarsi. La risposta gli giunge attraverso una voce che dal cielo lo esorta: fuge, tace, quiesce !  Ovvero: fuggi, rimani in silenzio, riposa nel tuo cuore.

Il misterioso imperativo interiore udito da Abba Arsenio indica un rigoroso itinerario ad Deum, scandito da ostacoli ardui, da avversari ben identificabili. A partire dal primo, l'invito alla vita solitaria, probabilmente oggi il più difficile, se guardiamo allo stato di smarrimento del mondo moderno, nel quale segno inconfutabile di una vita pienamente realizzata è la socialità spontanea, l'essere connessi sempre, l'ampiezza della rete di contatti-conoscenze-ammiratori, ora anche digitali. Ciò che accade di importante è soprattutto ciò che può essere visto dagli altri, ciò che diciamo o facciamo presuppone un pubblico, pena l'assoluta irrilevanza. Fuge! invece impone l'ammonimento oltremondano: fuggi dalla folla, tieniti lontano dalla ressa, rimani in disparte dall'accorrere della moltitudine. Cerca piuttosto la solitudine interiore, tendi l'orecchio alla voce del cuore. La strada intrapresa da Arsenio ha avuto un enorme seguito nella storia della spiritualità occidentale ed indicazioni dello steso tenore si possono leggere ancora oggi negli statuti dell'ordine della Certosa, espressi con limpida grazia : "L'anima del monaco sia dunque nella solitudine come un lago tranquillo le cui acque, scaturendo dalla purissima fonte dello spirito e non essendo agitate dall’ascolto di nessun rumore venuto dall’esterno, riflettano, quale nitido specchio, la sola immagine di Cristo."

Il secondo invito ci appare anch'esso in assoluta controtendenza rispetto alla propensione diffusa nei nostri giorni per la quale siamo  di continuo incitati a prendere la parola, ad intervenire, a "dire la nostra",  a volte con una qualche trascuratezza rispetto alle competenze o alle nozioni specifiche che sarebbero necessarie. Si tratta di un fenomeno che ci coinvolge tutti e a cui assistiamo di continuo: la nostra civiltà sembra aborrire il silenzio, lo ha ridimensionato ad una forma di indecisione dell'animo; in modo simile la meditazione assorta si riduce a rinuncia e la disposizione ad ascoltare assume i tratti della condiscendenza. Mi sembra che abbiano ragione quegli studiosi, ad esempio Vito Mancuso, per i quali il timore moderno di fronte all'esperienza del silenzio ha a che fare con il fatto che esso ci ricorda da vicino il grande silenzio, quello estremo della morte. Il silenzio immette al cospetto del sacro e della morte.

Dal punto di vista della vita interiore il silenzio ha ovviamente un valore del tutto diverso, costituendo di questa esperienza la via privilegiata; tutte le scuole spirituali - induismo, buddhismo, sapienza greca, la via del deserto nel cristianesimo -  mostrano a tal riguardo la medesima consapevolezza. Pitagora imponeva cinque anni di silenzio a chi volesse essere accolto come suo discepolo, Isacco di Ninive scrive che il silenzio profondo introduce l’anima nel mondo spirituale, essendo il silenzio "mistero del mondo futuro e la lingua organo del mondo presente". La più alta virtù spirituale è individuata da Simone Weil nella προσοχή, nell'attenzione e per essere attenti occorre saper fare silenzio, innanzitutto dentro se stessi.

Il terzo comando ha la forza del vento boreale che sgombra le nubi dal cielo: quiesce! In prima battuta potremmo tradure semplicemente come "riposa!" o "resta nel riposo", ma - di nuovo - il significato del termine, nell'ordine spirituale, non potrebbe essere più lontano dalla moderna considerazione del riposo. In effetti è difficile credere che sia mai esistita una civiltà più della nostra ossessionata dalla necessità di riposare e al tempo stesso più incapace di sperimentare questo riposo; anche questa - credo - è esperienza comune: più si desidera il riposo e più questo pare sfuggire, più si cerca un tempo in cui vivere l'assenza di preoccupazioni e più queste ci stanno da presso. Sovente il riposo è rappresentato nelle nostre conversazioni con termini che evocano lo staccare la mente oppure la spina; il desiderio evocato con tale espressioni fa riferimento ad una macchina che ha bisogno di essere scollegata dalle ansie, dalle difficoltà, dalle ferite. Una specie di camera iperbarica ben arredata in cui vivere per qualche tempo in uno stato di sospensione dalla vita.

Se ora volgiamo lo sguardo alla voce salvifica che giunse a soccorso di Arsenio nella sua originale forma greca ci avviciniamo al senso profondo di tale ammonimento. Il verbo usato, all'imperativo, infatti deriva da  ἡσυχάζω, che ci rimanda al sostantivo esichia, cioè assenza di agitazione, pace, riposo, tranquillità: il termine esichia poi corrisponde al "silenzio di tutte le cose", all’abbandono di qualunque pensiero, anche dei concetti più divini. Il pensiero deve dunque cadere nel silenzio, deve essere superato, affinché si possa avere esperienza del divino. Si tratta di un vuoto nel quale si è totalmente aperti al divino, che così può comunicarsi in pienezza. Il comando imposto al nostro monaco presuppone dunque non l'oblio della mente, ma una disciplina dell'animo, la cura dell'attenzione (nel senso che Simone Weil ha dato a questo termine), la  fatica del cuore in un combattimento interiore contro le passioni che rendono invivibili le relazioni umane: invidia, superbia, arroganza, presunzione, ira. Occorre un paziente itinerario per rendere abitabile lo spazio interiore del cuore.

La via del silenzio è al centro anche della poesia di David Maria Turoldo. Nella prima strofa si trattiene quasi il respiro, non si sa per quale motivo accada, ma siamo convocati al cospetto di qualcosa d'importante. Lo intuiamo d'istinto: è una notte speciale nella quale tutto tace di un silenzio più alto, in una solitudine carica di un'attesa diversa dal solito. La seconda strofa comincia con un ossimoro di grande forza espressiva, La creazione ti grida in silenzio; nel verso risuonano diverse immagini bibliche, tra cui quella della Lettera ai Romani (8,22) in cui l'apostolo Paolo così esprime l'anelito alla salvezza che coinvolge tutto il creato nell'attesa della redenzione: sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Il cosmo è pervaso da una tensione fortissima perché anch'esso, al pari dell'uomo attende la propria liberazione. Che significato dunque possiamo attribuire al fatto che la creazione - nell'imminenza del compimento delle antiche profezie - gridi in silenzio al verbo di Dio? La ragione essenziale  -  a mio avviso - ha a che fare con le immagini della Lettera ai Romani ora richiamata: tutto il creato attende di essere sciolto dalle catene che lo tengono soggiogato tramite la paura della morte. La natura geme e soffre come al momento del parto, nel suo grido vi è il dolore della sofferenza e l'attesa per la liberazione e questo grido tuttavia è anche silenzio attonito, pieno di gratitudine di fronte al Mistero che sta per compiersi. C'è dunque il grido ma anche il respiro sospeso, uno stupore che toglie la parola. Cose in effetti che possono succedere solo nella poesia... La strofa prosegue ora con la congiunzione ma; il tempo dell'aspettare è alle spalle, il mistero adesso ha una voce per quanto fragile ed indifesa. E di nuovo la natura non ha una voce adatta ad esprimere quello che è accaduto. Un silenzio più fondo risponde al vagito del bambino.

Con la terza strofa lo sguardo si sposta dal piano 'cosmico' all'esperienza umana, me è bene osservare che tra i due piani non sussiste una differenza ontologica, anzi ciò che succede sul piano della creazione  accade - o può accadere, o è bene che accada - tra gli uomini: e pure noi facciamo silenzio. Così come accade alla natura che non può ricorrere ad alcuna forma di linguaggio per esprimere il miracolo dell'incredibile, ma con questo entra in relazione con un silenzio più fondo, allo stesso modo la via che la poesia ci propone è quella del silenzio: più che le parole il silenzio lo canti. Anche in quest'ultima espressione è opportuno vedere qualcosa di più di una semplice strategia retorica, piuttosto essa allude alla profonda esperienza spirituale di quanti scoprono che è soprattutto nel silenzio  che l'anima scopre l'essenziale. Scopre infatti che il luogo tanto anelato dell'incontro con Dio altro non è che l'intimità del proprio io interiore, poiché è nel cuore dell'uomo che Egli vive.


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