Cerca nel blog

venerdì 14 agosto 2020

questo passo d'addio

 


Devota come ramo

curvato da molte nevi

allegra come falò

per colline d'oblio,


su acutissime làmine

in bianca maglia d'ortiche,

ti insegnerò, mia anima,

questo passo d'addio...



        di Cristina Campo


"Passo d'addio" è il titolo che Cristina Campo volle dare ad una breve raccolta di undici poesie apparse nel dicembre del 1956 e poi confluite insieme ad altri componimenti sparsi nel volume "LA TIGRE ASSENZA" pubblicato per i tipi di Adelphi.  


Il titolo non è casuale in quanto il passo d’addio è l’ultimo passo di danza che "l’allieva disegna prima di lasciare l’accademia: immagine quindi dell’ultimo canto con cui congedarsi da una stagione di vita terminata prima di iniziarne una nuova", così Rossella Farnese su analisi-del-canzoniere-passo-daddio-di-cristina-campo-1923-1977-a-cura-di-rossella-farnese/comment-page-1/ . 

Anche in questa poesia, posta a chiusura del libretto campiano,  l'immagine del "passo d'addio assume un rilievo fondamentale: per la rima significativa che la lega all'ultima parola della prima stanza - oblio -  ed anche per i puntini di sospensione che seguono ad indicare appunto la vita nuova che l'attende.

La discrezione elegante del passo d'addio è preparata nella prima stanza da due diverse similitudini: nella prima la poetessa dice di essere devota come ramo/curvato da molte nevi. Colpisce la visione della neve e del bianco (tale elemento coloristico attraversa in effetti l'intera raccolta e ritorna nella seconda stanza), che non è forse  assenza di colore e di vita, paralisi del sentire, atrofia dello stupore, ma al contrario forza che spinge alla concentrazione, al ripiegamento su ciò che è imperdibile. Se nel linguaggio comune curvato spesso finisce per definire il piegarsi controvoglia ad un destino avverso, nel verso in questione il termine si carica di significati altri, si riveste di una potenza allegorica che muove dalla compostezza di antichi gesti rituali: la postura china verso il cuore del monaco esicasta, il capo ripiegato del presbitero di fronte al turibolo da cui sale l'incenso, la notte in ginocchio della veglia d'armi del cavaliere. Curvarsi è in tal senso assumere il proprio posto nel mondo, diventare ciò che si era destinati a diventare per propria vocazione naturale. Certo c'è anche - in questo curvarsi - tutto il peso e la fatica che ogni vita comporta per ritrovare il proprio centro, per "spogliarsi di ogni ornamento" e ricondurre "tutto quanto è possibile verso la vita e la risposta alla vita, dallo stato di narcosi che stringe tutto sempre più da vicino" (così scriveva Cristina Campo all'amica Margherita Pieracci Harwell nel febbraio del '58.

Nella seconda similitudine ritroviamo di nuovo uno stato interiore espresso da un aggettivo - allegra - accostato ad un elemento naturale, il fuoco di un falò la cui fiamma riluce nel buio delle colline d'oblio. Ritrovo in questa potente immagine qualcosa della lirica di apertura dell'Antologia di Spoon River intitolata "La collina", nella quale l'io lirico, osservando le tombe d'intorno, ripete più volte il nome di coloro che sono morti:  dove sono? ... dove sono?  Sulla "collina" giacciono uno accanto all'altro i morti del passato: onesti e dissoluti, saggi e folli,  uomini importanti e vagabondi, la sepoltura anonima del giudice Somers e l'imponente urna di marmo di Chase Henry, l'ubriacone del villaggio.


Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley,

l’abulico, l’atletico, il buffone, l’ubriacone, il rissoso?

Tutti, tutti, dormono sulla collina.

[...]

Dove sono Ella, Kate, Mag, Edith e Lizzie,

la tenera, la semplice, la vociona, l’orgogliosa, la felice?

Tutte, tutte, dormono sulla collina.


Una morì di un parto illecito,

una di amore contrastato,

una sotto le mani di un bruto in un bordello,

una di orgoglio spezzato, mentre anelava al suo ideale,

una inseguendo la vita, lontano, in Londra e Parigi,

ma fu riportata nel piccolo spazio con Ella, con Kate, con Mag –

tutte, tutte dormono, dormono, dormono sulla collina.

                          (traduzione di Fernarda Pivano)

Tutti sono dimenticati allo stesso modo sulla collina, ma a tutti Edgar Lee Masters vuole lasciare la parola perché raccontino la propria storia, piena di una nuova ed insolita dignità, meritevole di un'attenzione imprevista. In modo simile, nella poesia di Cristina Campo, la luce del falò che rischiara il buio delle colline dell'oblio sfida l'imperio della rassegnazione al nulla e il dominio della necessità.  Ma questo fuoco è anche allegria: la poetessa dice infatti di essere allegra come falò: rischiara l'oscurità e in ciò è la sua gioia. 

C'è un passaggio di una lettera della Campo, citato da Margherita Pieracci Harwell in "Il sapore massimo di ogni parola", l'articolo che chiude il volume "La tigre assenza", che - credo - aiuti a comprendere meglio questa l'immagine poetica del falò, dell'allegria e delle colline d'oblio. Parlando della propria vocazione alla poesia, Cristina Campo nel luglio del 1958 scrive infatti : " ... sto nel buio, ma vorrei fare qualche cosa che agli altri sembrasse nato alla luce." Ecco proprio in questi versi mi sembra di intravedere la soglia di quella vita nuova, di cui Salomone - si dice - abbia scritto

"Lasciamo dovunque i segni della nostra gioia

perché questo ci spetta, questa è la nostra parte."  (Sapienza 2.9)

Ecco seguiamola ancora per un attimo la poetessa mentre si appresta a disegnare il suo ultimo passo d'addio. 



Nessun commento:

Posta un commento