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lunedì 24 giugno 2019

Come pupilla nera



di Marina Cvetaeva, Come pupilla nera










Come pupilla, nera; come pupilla, succhiante
la luce – ti amo, perspicace notte.

Dammi voce per cantarti, o progenitrice
delle canzoni, nella cui mano è la briglia dei quattro venti.

Chiamando te, te glorificando, io sono soltanto
una conchiglia dove ancora non s’è taciuto l’oceano

Notte! Ho già scrutato a sazietà nelle pupille umane
Inceneriscimi!  Nero sole – notte!




Per Marina Cvetaeva uno dei modi per conoscere il mondo e se stessa è dormire e sognare. Significativamente in russo la stessa parola (son) esprime sia il sonno che il sogno e spesso la Cvetaeva gioca abilmente con il doppio significato della parola. A questo proposito scrive: “il sogno  – questa sono io in piena libertà , è quell’aria che mi serva per respirare. E’ il mio tempo, è la mia ora del giorno, è la mia stagione dell’anno, la mia longitudine e latitudine. Soltanto in esso sono io. Il resto è casualità”.
Il motivo del vedere in sogno (in russo snovidenie) costituisce tra l’altro uno dei motivi ricorrenti della corrispondenza tra la Cvetaeva e Boris Pasternak; soltanto nell'esperienza del sogno/sonno l’uomo si risveglia alla percezione più nitida della realtà del mondo. Ciò è particolarmente evidente nella poesia Come pupilla nera, dove viene tematizzata la notte, il tempo cioè in cui è possibile entrare - o profondarsi come direbbe Dante - in una consapevolezza della realtà altrimenti inattingibile.
A tal riguardo Pietro A. Zvetermich, che ha curato l’edizione e la traduzione degli scritti della poetessa moscovita ha sottolineato con chiarezza come la Cvetaeva cercava di fare della sua poesia uno strumento di “reperimento, di scoperta del concreto di cui è tessuta la vita reale con tutti i suoi minimi – mediocri, esaltanti o miseri –dettagli”. La poesia è anzitutto un’operazione conoscitiva.
La notte è perspicace: sotto il suo manto le cose non si nascondono, ma si rivelano nella loro essenza; non più sottoposte agli inganni della luce del giorno e dello stato di veglia, si manifestano per quello che sono.
La notte è una pupilla nera che succhia la luce, vuole assorbire tutto, con avidità; la notte è un modo di guardare al mondo, una finestra aperta su ogni minimo dettaglio, mediocre, esaltante o misero che sia. Si condensa in questo sguardo tutta la tensione verso lo sforzo di penetrare il reale, ciò che per la poetessa russa, come abbiamo visto, è il vero unico possibile destino del discorso poetico.
Solo dallo sguardo della notte e nella notte può nascere il canto: Dammi voce per cantarti, o progenitrice/delle canzoni… La voce del poeta è un dono della notte, non una creazione del soggetto. Come una matrice o un utero, la notte è progenitrice della poesia che solo da essa può emergere. Chi è il poeta allora? Una conchiglia dove ancora non s’è taciuto l’oceano. Bellissimo quell’avverbio: ancora. Non manca molto forse a che quella voce che fa risuonare la conchiglia si tacerà per sempre, ma non ancora, ancora per un po’ essa riecheggia…
Lo scioglimento finale giunge rapido, con uno scarto improvviso ed amaro: ho già scrutato a sazietà nelle pupille umane. Non ci dice cosa ha visto, le ambizioni deluse, le vittorie o le sconfitte, le passioni, il momento esatto in cui ha creduto di avere al suo fianco qualcuno e questo invece era altrove.

I dettagli mediocri, esaltanti o miseri...

C’è tutta la fragilità della sventura umana in questa espressione: ho già scrutato a sazietà. L’ultimo verso è come il sigillo impresso sulla volontà fermamente perseguita di avvicinamento alla verità che ormai non può che essere non già desiderio di morire, ma di non esistere, diventare… nulla, cenere infeconda, nel Sole nero della notte. 

Eppure, giunti nel preciso punto dove la Cvetaeva voleva che la seguissimo, ad una longitudine e latitudine esattamente determinati dal timbro della sua voce non fioca, né esile, dietro i suoi passi serrati, al cospetto di questo immenso Sole nero che disvela e incenerisce, non possiamo fare a meno di intuire la speranza incofessata e fragile di un chiarore appena visibile, capace di sfidare il nulla. Perché inesausto è il desiderio di cantare, di non arrendersi al mormorio dell'oceano che ancora non s'è taciuto. Il canto nasce dalla notte ma non è a lei destinato, è quello che rimane, ciò su cui persino il Nero sole non ha dominio.

Altre voci forse ci guideranno verso quell'accenno di chiarore che non è di qui, poiché è da un altrove impensabile che giunge. Tuttavia solo da questa ultima tappa del nostro viaggio al termine della notte, deposte tutte le facili illusioni, possiamo scorgere quel tenue chiarore. Di questo viaggio è Marina Cvetaeva che dobbiamo ringraziare.

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