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domenica 31 agosto 2025

Sullo scettro di Zeus dorme l'aquila

 

Per Ierone Etneo



Strofe I           Cetra d’oro, di Apollo e delle Muse dai ricci di viole

                      il bene più esclusivo, tu, che il passo della danza ascolta

                                               per dare inizio alla festa splendida,

                      

                        e gli aedi si sottomettono alla tua guida,

                       quando fai udire il tuo suono e dai l’avvio al preludio

                  che conduce il coro: 


tu spegni al lampo guerriero la vampa

dell’eterno fuoco, e sullo scettro di Zeus dorme l’aquila

                entrambe le rapide ali abbandona,

 

Antistrofe            

              la regina degli uccelli, ché una nube dall’apparenza

             oscura hai versato

             sul suo capo adunco, chiudendole mite le palpebre; nel sonno

         si culla il dorso reso docile, preso

        tuo ritmo. Così anche Ares violento: la punta feroce della lancia

         lascia riposare e ristora l’animo

         nel sonno. Tu incanti le armi e le anime degli dei

 con la maestria del figlio di Latona

 e delle Muse dal cinto profondo.

 

Pindaro, Pitica I, prima strofe


Il testo che oggi vi propongo di leggere -  o rileggere - è molto antico, chi lo ha scritto, il poeta Pindaro, visse infatti tra l'ultimo quarto del VI secolo a.C. e la metà del V; Le sue poesie sono essenzialmente odi destinate a celebrare le vittorie ottenute in una delle feste panelleniche che si tenevano periodicamente in Grecia: ad essere innalzati dalla poesia e dal canto ad una fama immortale erano gli atleti oppure i signori delle città da cui essi provenivano Nel caso dell'ode qui riportata la vittoria era stata ottenuta, attorno al 470,  nelle Pitiche, le feste in onore dell' Apollo di Delfi. Durante questo genere di feste, come è noto, si sospendevano le guerre e venivano indette competizioni sportive o gare di musica e poesia. Per i Greci, si sa, l'esistenza stessa era una gara, una tensione verso il gesto perfetto, una spinta ad eccellere con cui l'uomo mirava ad elevarsi al cospetto dei suoi dèi. 

Di questa tensione inesausta alla perfezione Nietzche aveva perfettamente colto lo spirito quando - in Umano troppo umano - scriveva "L'uomo pensa nobilmente di sé quando si dà dei simili" e quando ammoniva: "Dove gli dèi olimpici arretravano, anche la vita era più fosca e piena di paura". La visione greca sapeva bene che il momento della vittoria era destinato in breve a trascorrere, pure, in quel momento contemplava la rivelazione dei regni dell'essere che lì manifestavano la pienezza e la molteplicità della vita. 

Oltre all'enorme distanza temporale che ci separa da questi versi, un aspetto soprattutto è motivo di difficoltà per il lettore moderno, il fatto che la destinazione celebrativa di queste odi fa sì che da una parte esse siano strettamente legate ad episodi concreti, a vittorie precisamente datate, alle storie familiari degli atleti o dei signori delle città dei vincitori, dall'altra in esse sono continui i richiami a varianti di miti locali o a quelle espressioni ricercate, alte, preziose che sole possono essere usate per descrivere le potenze numinose da cui ogni vittoria nasce. Insomma si tratta di una poesia al cospetto della quale noi moderni richiamo di trovarci spaesati; invano cercheremo - ad esempio - quella disponibilità a svelare la propria interiorità che oggi consideriamo ingrediente necessario e insostituibile di ogni espressione poetica.

La prima pitica, di cui oggi propongo solo la prima strofe,  celebra la vittoria nella gara delle quadrighe del re di Siracusa, ma l'occasione dell'impresa quasi scompare all'inizio del canto, tutto intessuto attorno alla potenza dell'armonia e della musica. Non la propria arte eternatrice vuole elogiare qui il poeta, quanto la cetra d'oro che appartiene ad Apollo e alle Muse: il bene più esclusivo, atteso con premura nell'istante irripetibile del primo passo di danza; la guida alla quale gli aedi si sottomettono al vibrare dell'accordo che rompe il silenzio. La potenza aurea della cetra  qui è colta nell'abbacinante luce dorica: ogni divenire sembra arrestarsi, la vampa del lampo guerriero si spegne e sullo scettro di Zeus dorme l’aquila, abbandonando al riposo le proprie ali; sul suo capo adunco infatti l'armonia del canto numinoso ha versato una nube dall’apparenza oscura. Persino Ares violento: la punta feroce della lancia lascia riposare e ristora l’animo nel sonno. Il potere della cetra di Apollo si manifesta come una forza che ogni cosa sovrasta, seduce ed avvince. Non c'è nulla di vivente che non debba piegarsi alla voce delle Muse.

Ma oggi chi farà risuonare ancora le corde sulla loro cetra ? Ares intanto infuria scatenato.

domenica 27 luglio 2025

La notte, per placare un'aspra rissa

 L'osteria "All'isoletta"



 La notte, per placare un'aspra rissa,

e più feroce quanto è solo interna, 

penso lotte più estranee: penso Lissa


i Bàlcani, Trieste, il vecchio ghetto;

infine mi rifugio a una taverna;

dal suo solo ricordo il sonno aspetto.


Deserta com'è lungo il caldo giorno,

sulle pareti un'isoletta è pinta,

verde smeraldo, e il mar con pesci ha intorno.


Ma di fumi e di canti a notte è piena

un dalmata ha con sé la più discinta;

ritrova il marinaio la sirena.


Io ascolto. e godo della compagnia,

godo di non pensare a un paradiso, 

diverso troppo da quest'allegria,


che arrochisce i cori e infiamma il viso.


La poesia che leggete oggi è tratta da una sezione del Canzoniere intitolata  La serena disperazione, vi sono raccolte poesie degli anni dal 1913 al 1915. Non è la più famosa tra quelle che di solito si leggono a scuola, ma a me piace molto molto. Mi trasporta forse a quel mio anno vissuto a Trieste, a quelle frequentazioni notturne nelle quali si abbandonavano i libri seri per ascoltare in silenzio i racconti di marinai o le storie appassionate di sirene discinte e le avventure dei contrabbandieri e delle loro gare a guardie e ladri. Io ascoltavo, i versi di Alceo nel tascapane e il vino di Cavana sul tavolo.

Anche per noi allora era bella quell' allegria che arrochisce i cori e infiamma il viso. Né smetteva in noi il richiamo di quel troppo diverso paradiso.


domenica 29 giugno 2025

una lampada deserta

 


Edvard Munch, Morte nella camera di una ammalata


Una lampada deserta

nel calmo vestibolo.

Un'ombra è desta

dove sorge il catafalco.


Sul catafalco è posto

un feretro ornato di fiori.

Nel vestibolo è esposto

il corpo fatale.


Non si dice chi fosse

nel sogno che egli ebbe.

E l'ombra in attesa

è la vita che fu.


Fernando Pessoa, Poesie esoteriche, Guanda 2000,a cura di Francesco Zambon


L'interesse di Fernando Pessoa per la ricerca interiore e metafisica, guidato da dottrine e pratiche esoteriche è il centro di irradiazione della raccolta curata da Francesco Zambon e della quale oggi  presento una di quelle che fin dalla prima lettura hanno attirato la mia attenzione.

L' introduzione a questo aspetto meno conosciuto della attività del grande poeta portoghese è ben documentata e chiarisce la centralità dei suoi interessi spiritualistici: oggi sappiamo che  in questa sua opera incessante e illusionistica, Pessoa molto attinse a fonti esoteriche, e di tale ricerca sussistono ricche testimonianze fra le migliaia di sue pagine manoscritte alla Biblioteca Nazionale di Lisbona. «In primo luogo sentire i simboli,  sentire che i simboli hanno vita e anima – che i simboli sono come noi» troviamo scritto in uno dei frammenti della sua filosofia ermetica.

La poesia che oggi il blog della stella tenue presenta, va letta in questa chiave eminentemente simbolica, ma è anche molto bella per le immagini che propone, tanto che, a mio avviso, essa può affascinare e coinvolgere anche chi di questa ricerca spirtualistica di Pessoa non sappia nulla. A me sono piaciuti soprattutto i versi della strofa finale: 

Non si dice chi fosse / nel sogno che egli ebbe. / E l'ombra in attesa / è la vita che fu.

Il nome del defunto, quindi tutto ciò che associamo comunemente alla storia di un individuo, che leghiamo alla sua identità, a quello che riteniamo irripetibile e prezioso (ed ovviamente lo è) non è che un sogno che dilegua, accanto alla lampada, il catafalco, i fiori. Di un'ombra, lì accanto, si dice prima che essa è desta, poi che è in attesa, ma altro non è dato sapere, almeno fintanto che non apprendiamo un'altra arte del vedere, un'altra disciplina del conoscere.

domenica 25 maggio 2025

Un presagio sacrilego

 



Sibilla palmifera, Dante Gabriel Rossetti, Lady Lever Art Gallery.

Sibilla


La mia lingua si mosse, un cardine che ruota e si distende.

Le dissi, «Che ne sarà di noi?»

E come acqua scordata in un pozzo si scrolla

a un’esplosione mattutina


o una crepa fila al culmine del tetto,

lei cominciò a parlare.

«Credo che la nostra essenza sia destinata a cambiare.

Cani assediati. Regressi al rango di sauri. Vite formicolanti.


Salvo che il perdono trovi nerbo e voce,

salvo che l’albero elmato e sanguinante

rinverdisca e apra gemme come pugni d’infanti,

e il magma infetto covi


ninfe splendenti… . La mia gente pensa ai soldi

e parla del tempo. Trivelle cullano il suo avvenire

su singoli avidi steli. Il silenzio

si è addensato nelle eco-sonde dei pescherecci.


La terra su cui a lungo abbiamo posato l’orecchio

è spellata o callosa, nelle sue viscere

bivacca un presagio sacrilego.

La nostra isola è piena di rumori sconsolati.»

          traduzione di  Leonardo Guzzo e Marco Sonzogni, da Lavoro sul campo, Milano, Biblion Edizioni, 2020


Sibyl


My tongue moved, a swung relaxing hinge.

I said to her, ‘What will become of us?’

And as forgotten water in a well might shake

At an explosion under morning


Or a crack run up a gable,

She began to speak.

«I think our very form is bound to change.

Dogs in a siege. Saurian relapses. Pismires.


Unless forgiveness finds its nerve and voice,

Unless the helmeted and bleeding tree

Can green and open buds like infants’ fists

And the fouled magma incubate


Bright nymphs… . My people think money

And talk weather. Oil-rigs lull their future

On single acquisitive stems. Silence

Has shoaled into the trawlers’ echo-sounders.


The ground we kept our ear to for so long

Is flayed or calloused, and its entrails

Tented by an impious augury.

Our island is full of comfortless noises.»


Quella che leggete qui sopra non è la prima poesia di Seamus Heaney, che compare sul blog della stella tenue, se vi è piaciuta questa, frugando tra le vecchie pagine del blog, troverete dell'altro. Ne vale la pena, credetemi. Ai versi del poeta irlandese, premiato con il Nobel nel 1995,  mi piace tornare quando posso, soprattutto in tempi come questi (lo so, è troppo tempo che lo ripeto). Nella poesia di Heaney sembra descritta un'umanità non diversa da quella con cui conviviamo: è vero che i tempi in cui fu scritta Sibilla erano quelli dei troubles, allora le strade di Belfast o di Derry erano insanguinate da violenza e ferocia, ma oggi? Non è lo stesso anche in queste mattine di Maggio?  Se provo a volgere lo sguardo un po' più lontano dal mio cortile, ecco che mi appare un'affollarsi di persone, di volti come cani assediati. Regressi al rango di sauri. Vite formicolanti. 

E il desolato paesaggio di vite a pezzi, mescolate a quelle di sicofanti e soverchiatori

E' in tempi simili dunque che sento il richiamo dei canti che giungono da un altrove sconosciuto, versi che di certo riescono a rendere il mondo un posto ancora degno di essere - per lo meno - attraversato.

Ma poi c'è Dante all'esordio di questa poesia: quel momento straordinario della Vita Nuova, in cui per descrivere il sopraggiungere misterioso di una nuova ispirazione, il poeta della Commedia usa un'immagine indimenticabile: 

Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa

Come nei versi di Heaney: La mia lingua si mosse ...

Al cospetto di Beatrice come sulla soglia della dimora della Sibilla non agisce più la sola creatività dell'uomo, non è questione di aver appreso un arte più o meno sublime. Ad un impulso irresistibile ed immemoriale piuttosto siamo ammessi ad assistere, al dischiudersi immediato di un istinto, di un appello ineludibile e salvifico.

Mi piacerebbe scoprire il sentiero che ha portato Heaney al cospetto di quella voce numinosa, mi piacerebbe anche soltanto vedere da lungi che il ramo d'oro ancora viene concesso a chi ne sia degno, che un regno è aperto per quanti non si rassegnano al presagio sacrilego  che bivacca nelle viscere della terra. 



sabato 15 marzo 2025

finché il sangue muoverà nel petto la tua oscura stella

 




Il messaggio del professor Cogito



Va’ dove andarono quelli fino al limite oscuro

in cerca del vello d’oro del nulla tuo ultimo premio


va’ fiero tra quelli che sono in ginocchio

fra chi volta le spalle e  chi è rovesciato nella polvere


ti sei salvato non per vivere 

hai poco tempo  bisogna dare testimonianza


sii coraggioso quando la ragione viene meno sii coraggioso

alla fine  è la sola cosa  che conta 


e la Collera tua impotente sia come il mare

ogniqualvolta udrai la voce di umiliati e percossi


non ti abbandoni il tuo fratello Disprezzo

per spie carnefici vigliacchi – saranno loro a vincere

e verranno al tuo funerale  gettando con sollievo una zolla


e il tarlo scriverà la tua biografia addomesticata


e non perdonare invero non è in tuo potere

perdonare in nome di chi è stato tradito all’alba


guardati tuttavia dall’inutile orgoglio

osserva allo specchio la tua faccia da giullare

ripeti: sono stato chiamato – non ce n'erano di migliori?


guardati dall’aridità del cuore ama la fonte mattutina

l’uccello dal nome ignoto la quercia d’inverno

la luce sul muro lo splendore del cielo


ad essi non serve il tuo caldo respiro

ci sono soltanto per dire: nessuno ti consolerà


veglia – quando la luce sui monti darà il segnale – alzati e va’

finché il sangue muoverà nel petto la tua oscura stella


ripeti gli antichi scongiuri dell’umanità  fiabe e leggende

perché così raggiungerai il bene che non raggiungerai


ripeti le grandi parole ripetile con ostinazione

come quelli che avanzavano nel deserto e perivano nella sabbia


e ti premieranno con ciò di cui dispongono

con sferzate di riso l'uccisione su un immondezzaio


va’ perché solo così sarai accolto nella cerchia dei freddi crani

nel manipolo dei tuoi avi: Gilmameš Ettore Rolando

difensori del regno senza confini e della città delle ceneri


Sii fedele Va’.


di Zbigniev Herbert, traduzione di Pietro Marchesani (Adelphi 1993)



Scritta nei giorni difficili di anni segnati da feroci lotte e crudeltà inumane, questa poesia non è meno adatta gli scuri giorni che ci stanno davanti. La ruota della storia compie un'altra giravolta e il coraggioso, il carnefice, il sicofante si muovono lungo traiettorie già cantate: chi Ettore, chi Efialte, chi Falaride.

Come alla voce poetante di questa bella poesia di Herbert, un combattimento attende anche noi, tutto interiore, a noi solamente destinato. E tutto ciò che c'è di necessario in questi versi, tutto ciò che serve, quella voce lo rivolge al proprio animo, a se stesso: in forma di anafora ricorre l'imperativo, l'invito ad andare verso limiti oltre i quali in pochi hanno osato dirigersi,  oppure va’ fiero tra quelli che sono in ginocchio / fra chi volta le spalle e  chi è rovesciato nella polvere e poi ancora sii coraggioso quando la ragione viene meno, in effetti è davvero l'unica cosa che conta.

Tra i diversi ammonimenti di questi versi, mi è particolarmente caro quello che così dice: 

ripeti gli antichi scongiuri dell’umanità  fiabe e leggende 

... come a dire che ogni grandezza dell'animo sorge dagli antichi riti nei i quali siamo stati cresciuti e dalle leggende che ci hanno nutrito con aurei insegnamenti. 

Non so il futuro cosa preveda per la nostra generazione e per quella dei nostri figli e - per certi versi - la devastazione delle guerre presenti è solo la manifestazione sensibile della generale devastazione dello spirito umano, in ogni caso, la poesia di oggi si rivela un viatico portentoso ed inevitabile. Da portare con sè.

mercoledì 5 febbraio 2025

senza lasciare traccia

 



INSONNIA INVERNALE


La mente non può dormire, può solo giacere sveglia,

ingolfata, ad ascoltare la neve che si aduna

come per l’assalto finale.


Vorrebbe che venisse Cechov a somministrarle

qualcosa – tre gocce di valeriana, un bicchiere

d’acqua di rose – qualunque cosa, non importa.


La mente vorrebbe uscire di qui

fuori sulla neve. Vorrebbe correre

con un branco di bestie irsute, tutte denti,


sotto la luna, in mezzo alla neve, senza

lasciare traccia, neanche un’impronta, nulla.

E’ malata, stasera, la mente.


                traduzione di Francesco Durante, Edizioni minimum fax


Winter Insomnia

The mind can’t sleep, can only lie awake and

gorge, listening to the snow gather as

for some final assault.


It wishes Checkov were here to minister

something—three drops of valerian, a glass

of rose water—anything, it wouldn’t matter.


The mind would like to get out of here

onto the snow. It would like to run

with a pack of shaggy animals, all teeth,


under the moon, across the snow, leaving

no prints or spoor, nothing behind.

The mind is sick tonight.


Una poesia per questo periodo di notti invernali, quando la mente rimane sveglia e l'orecchio si tende ad ascoltare le neve che si aduna, con un suo fare minaccioso, quasi ostile. In notti come queste urge un desiderio di pace interiore - non importa come ottenuto - e a questo desiderio un altro si sovrappone d'un tratto, diverso, se non contrario: uscire di qui / fuori sulla neve correre / con un branco di bestie irsute, tutte denti, come lupi selvaggi e feroci, mossi dal puro istinto, fedeli solo alla propria natura.

Correre sotto la luna, in mezzo alla neve, senza / lasciare traccia, neanche un’impronta, nulla. L'immagine d'istinto mi piace molto, non so bene perché: correre nella neve, sotto la luna, vuol dire lasciare tracce di sé, impronte del proprio passaggio, orme che segnano un percorso, quindi una storia, con le sue conseguenze, memorie, ricordi, ferite e gioie. Non si può correre nella neve e non lasciare tracce, se non nei versi di una poesia o nell'anelito di una mente che non trova requie in una notte d'inverno. 

Lo sappiamo che non è necessario cercare sempre un significato nelle immagini delle poesie, eppure in questa particolare immagine indugio, ritorno, ne percorro le possibilità, tortuose come stretti corridoi di labirinti, ma il filo di Arianna è perduto. Notte d'inverno, passa veloce per favore.


domenica 29 dicembre 2024

nei potentati delle chiome brune

 

Icona russa de "La fuga in Egitto"

Fuga in Egitto



…un cammelliere, spuntato chissà mai da dove.

Nel deserto, scelto per il miracolo dal cielo,

si trovarono insieme, per via di affinità,

sotto un ricovero notturno, e accesero il falò.

Nella spelonca, tra cumuli di neve, e senza presentire

il proprio ruolo, sonnecchiava il piccino in un’aureola

di capelli d’oro che con irruenza avevano fatto pratica

di luminescenza non solo ora, nei potentati

delle chiome brune, ma per davvero, al pari

di una stella che brilla ovunque: finché dura la terra.


                                                                                                                25 dicembre 1988

Iosif Brodskij, da "Poesie di Natale" Adelphi


Tra le diverse storie che hanno dato vita alla tradizione cristiana del Natale, mi ha sempre affascinato quella della fuga in Egitto; è una piccola parte, in effetti, di un racconto più vasto ed importante, appena tre versetti (13-15) del capitolo 2 del vangelo di Matteo. Gli altri evangelisti non ne hanno conservato la memoria. Eppure quei pochi versetti hanno dato vita ad una straordinaria fioritura di leggende e racconti che oggi chiamiamo "vangeli apocrifi". Il razionalista spesso guarda a tale tradizione con malcelata diffidenza, a lui non piacciono certo le palme che, nel deserto, piegano i loro rami per donare i propri frutti alla sacra famiglia, allo stesso modo disdegna il corteo di leoni e leopardi che secondo il vangelo dello pseudo-Matteo (un testo che risale probabilmente al secolo X della nostra era) si accompagnano, portentosa e splendida scorta al re bambino, a Giuseppe e Maria. A me invece piace perdermi nell'incanto favoloso di quelle narrazioni, così ricche di immagini e simboli, volti a destare i sensi più profondi dell'uomo interiore. Di questo piccolo episodio della buona novella mi ha sempre colpito anche un altro aspetto: esso mostra - da una parte - il volto feroce e crudele del potere, che non esita di fronte a nulla pur di difendersi, nemmeno a massacrare bambini innocenti; dall'altra svela la sua intima debolezza, il carattere illusorio della sua invulnerabilità. Erode è ossessionato dal fatto che qualcuno possa prendere il suo posto, si rivolge alla scienza di astrologi e sapienti, tesse la sua trama di insidie, dissemina il suo regno di informatori e spie, ma i suoi disegni sono destinati ad andare in fumo, tutti: prima gli sfuggono tra le dita i sapienti Magi venuti da Oriente, poi - e soprattutto - l'erede della promessa, l'albero di Jesse, il bimbo nato in una stalla. 

Rembrandt, paesaggio con riposo durante la fuga in Egitto -1647
Un'impressionante messe di opere d'arte di altissimo valore ha preso spunto dalla scena della fuga in Egitto: si trova scolpita nella cappella Palatina di  Palermo, in numerose varianti gli artisti asceti della cristianità ortodossa l'hanno raffigurata sulle venerate icone che adornano nascosti monasteri ed antiche chiese; con quel piccolo episodio della grande storia dell'incarnazione si sono cimentati pittori come Giotto, Vittore Carpaccio   e Rembrandt.
Segno evidente di una energia germinativa la cui azione perdura nei secoli, attraversando culture e popoli differenti. 

Il fatto che un poeta come Iosif Brodskij, nato in una famiglia di cultura ebraica e cresciuto nei dogmi dell'ateismo di Stato sovietico, abbia sentito la potenza emotiva dei racconti sul Natale può sorprendere a prima vista, ma in realtà è stato lo stesso poeta russo ad aver  rivelato - in un'intervista degli anni Novanta  - che il  suo interesse per questo tema è nato fin dal primo momento in cui prese seriamente a comporre poesie. E in effetti Brodskij ha cominciato a scrivere sul Natale fin dal 1962, quando aveva ventidue anni ed ha continuato fino al dicembre del 1995, un anno prima di morire. Queste poesie, tradotte da Anna Raffetto, sono confluite in una raccolta pubblicata in Italia da Adelphi nel 2004. Proprio da questo libro è tratta la poesia di cui oggi vi propongo la lettura.

Le prime immagini sembrano richiamare l'attenzione del lettore sul fatto che nel racconto evangelico c'è un non so che di irriducibile alla ragione calcolatrice: il cammelliere spunta da chi sa dove, i tre fuggitivi si dirigono verso il deserto perché il cielo  - per miracolo - ha indicato loro la via, tutti si ritrovano insieme per via d'affinità. Non ci è dato di sapere di quale affinità si parli: forse il cammelliere sta scappando anche lui dagli sgherri del re o forse tutti i protagonisti della storia sono resi affini dal partecipare, in un modo o nell'altro, ad un disegno più alto, la cui sceneggiatura non è ancora del tutto chiara, almeno per loro.

Sono in una grotta, accendono un falò per combattere il freddo, come nel quadro di Rembrandt, ma una luminescenza prodigiosa e potente emana dai capelli del bambino, sfidando la superbia delle tenebre, la loro pretesa di avere l'ultima parola. E' una luce molto antica, poiché la sua epifania non ha sconvolto solo i potentati delle chiome brune, dove il piccolo è nato, ma sfolgora al pari / di una stella che brilla ovunque: finché dura la terra.

Chesterton ha scritto che «le fiabe non insegnano ai bambini che i draghi esistono. I bambini lo sanno bene che i draghi esistono. Le fiabe insegnano che i draghi possono essere sconfitti»; lo scrittore inglese molto probabilmente non pensava al testo del vangelo di Matteo quando la scrisse, in ogni caso credo che essa illumini perfettamente il senso profondo del racconto di questa famiglia che fugge l'odio degli uomini, trovando rifugio lì dove solo i profeti, i pazzi o i fuggiaschi si arrischiano ad andare


giovedì 28 novembre 2024

per la morte di Tersi

 

 

Rilievo di Krito e Kameiros, probabilmente V sec. a. C. , Museo archeologico di Rodi


Invece del talamo felice e degli imenei rituali

 tua madre pose sopra questa tomba di marmo

 una fanciulla con la tua statura e la tua bellezza,

 o Tersi: anche se sei morta, ti si può parlare.


Ἀντί τοι εὐλεχέος θαλάμου σεμνῶν θ’ ὑμεναίων

 μάτηρ στῆσε τάφῳ τῷδ’ ἐπὶ μαρμαρίνῳ

 παρθενικὰν μέτρον τε τεὸν καὶ κάλλος ἔχοισαν,

 Θερσί· ποτιφθεγκτὰ δ’ ἔπλεο καὶ φθιμένα. 

                                A.P. 7.649 traduzione di A. Presta

Ho ripreso in mano, oggi, un vecchio libro, segnato da annotazioni e da commenti scritti in tempi lontani: cercavo proprio questo epigramma, tra tanti: mi aveva colpito allora e continua a coinvolgermi anche oggi, in questa fredda giornata di fine novembre. Il componimento è opera di Anite, una poetessa vissuta a Tagea, una città dell'Arcadia, fra IV e III secolo a.C. . Doveva essere molto brava se Antipatro di Tessalonica  la chiamò “Omero donna” e la inserì nel novero delle principali poetesse greche. Di lei ci rimangono 22 epigrammi, nei quali due istanze espressive mi sembrano prevalere: quella dell'epitaffio, reale o fittizio, dedicato a guerrieri o a giovani fanciulle, a volte anche ad animali, e quella della rappresentazione della natura, attraverso nitidi squarci bucolici o immagini istantanee e folgoranti. 

L'epitaffio che avete appena letto è dedicato alla memoria di una giovane, di nome Tersi, morta ante diem, prima del tempo.  I quattro versi che compongono l'epigramma sono attraversati da una straziante antitesi tra le gioie del talamo nuziale e del canto felice dell'imeneo (il canto con cui si accompagnavano le giovani donne alle nozze) alla quali la vita di Tersi era destinata e la realtà inerte e fredda della tomba di marmo.  Attraverso tale contrapposizione irrompe l'emozione dolorosa, nutrita del contrasto tra le speranze giovanili venute meno e l'ingiusta sorte della morte prematura toccata alla ragazza; il tono di questo canto funebre appare amaro e al tempo stesso sobrio e ammirabile. 

Sulla tomba della giovane ormai scesa nell'Ade, è presente sua madre ed è una presenza significativa, in sintonia con le numerose evidenze, archeologiche e letterarie, nelle quali la fanciulla morta anzitempo è accompagnata dalla madre, che assume ruoli e funzioni diverse (ne vediamo uno straordinario esempio nel rilievo del V secolo, qui sopra riportato). Nell'epitaffio di Anite la madre svolge un ruolo contrastivo rispetto all'azione dissolutrice della morte: ha infatti collocato una statua, della stessa statura e bellezza, una statua dunque che sembra promettere la possibilità di uno scambio di affetti, di un estremo colloquio. Si tratta di un motivo già presente nell’Alcesti euripidea, quando Admeto, in risposta alle parole di addio della sua sposa, dichiara che non prenderà altra moglie e che metterà nel proprio letto un simulacro di lei, effigiato da mano sapiente di artista (vv. 348 ss.):

fredda gioia, lo so, ma pure

capace di alleviare il peso dell'anima .

La fredda gioia in cui Admeto confida per attenuare il dolore della morte della sua Alcesti proietta la sua forza simbolica sulla presenza della madre accanto alla tomba di sua figlia nell'epigramma di Anite: la statua ha la stessa bellezza, la stessa altezza di Tersi, certo le mani che l'hanno scolpita sono le mani di un artista valente ed esperto, se no la poetessa non pronuncerebbe quell'ultima frase, anche se sei morta, ti si può parlare. E tuttavia non possiamo evitare di sentire lo scarto, immenso e invincibile, tra l'azione riparatrice della madre e la ferrea legge che separa il confine tra i viventi e l'oscuro Tartaro. L'impossibilità di quella riparazione rivela qui la sua composta nobiltà e consegna a noi, attraverso i secoli, la memoria di una grammatica del dolore di cui non cessiamo di avere bisogno.


domenica 20 ottobre 2024

è un rullo di tamburo

 



Il nuovo cammino

    che sto per cominciare

corre in ogni direzione

    traversa monti e mari.

Ma se devo dire 

    quale ne sia la forma,

è un rullo di tamburo, uno squillo di tromba.

        

        Musō Sōseki, 1351 -  da "Jisei -Poesie dell'addio" SE editore


Nella cultura letteraria giapponese una delle forme tradizionali più amate e durature è costituita dal Jisei, un componimento poetico con cui l'autore, all'avvicinarsi della propria morte, si congeda con il mondo e la vita. Un esempio pregevole di tale forma è quello che potete leggere qui sopra composto da Musō Sōseki nel trentesimo giorno del nono mese del secondo anno Kannō, ovvero nell'anno1351della nostra era. Era costui un monaco che visse alla corte imperiale ed uno dei più celebrati creatori di giardini zen, alcuni dei quali si possono visitare ancora oggi in Giappone. Oltre che architetto di giardini zen, Musō Sōseki fu anche un calligrafo ed un poeta di grande talento. 

Nel suo jisei l'incombere della morte è rappresentato come un cammino sconosciuto che si apre tra monti e mari, senza una meta precisa, mosso non più da traguardi prestabiliti, ma dall'anelito alla Via, all'esperienza dell'illuminazione; del nuovo viaggio - avverte il poeta - non è facile definire i caratteri, ma se proprio si deve ricorrere alle parole, esso può essere paragonato al rullo di un tamburo o ad uno squillo di tromba. Un suono dunque, dotato di una sua vibrante energia, tutta spirituale: si innalza al di là delle rupi scoscese, oltre il fragore delle onde, al di là dei ripidi passi battuti dal vento. Il suono della tromba, il rullare del tamburo evocano il viaggio dell'io, finalmente liberato dal giogo della necessità (secondo il poeta greco Eschilo tale è la condizione umana), nulla rimpiangendo ma tutto amando.


        

                    

giovedì 26 settembre 2024

Il sentimento più profondo si rivela sempre in silenzio

 

Glass flowers, parte del Harvard Museum of Natural History


Silenzio


Mio padre era solito dire,

“La gente superiore non fa mai lunghe visite,

non ha bisogno di vedere la tomba di Longefellow

o ad Harvard i fiori di vetro.

Fiduciosa di sé come il gatto -

che la sua preda conduce in disparte

con l’afflosciata coda del topo che gli oscilla come un

laccio da scarpe dalla bocca -

talvolta apprezza la solitudine,

e può venir spogliata del linguaggio

dal linguaggio che l’ha deliziata.

Il sentimento più profondo si rivela sempre in silenzio;

anzi, non in silenzio, ma in ritegno.”

Né egli era falso nel dire, “Fate della mia casa il vostro

albergo.”

Perché gli alberghi non sono residenze.

                       Marianne Moore, Le poesie, Adelphi 1991

                

                                    per chi volesse leggere la versione originale :


   My father used to say,

“Superior people never make long visits,

have to be shown Longfellow’s grave

or the glass flowers at Harvard.

Self-reliant like the cat —

that takes its prey to privacy,

the mouse’s limp tail hanging like a shoelace from its

mouth —

they sometimes enjoy solitude,

and can be robbed of speech

by speech which has delighted them.

The deepest feeling always shows itself in silence;

not in silence, but restraint.”

Nor was he insincere in saying, “Make my house your inn.”

Inns are not residences.                   

                        

                

Sono debitore a Cristina Campo di molte importanti scoperte, tra queste, non di poco conto, è quella della poetessa americana Marianne Moore, alla cui opera il lettore italiano può accedere attraverso la traduzione curata da Lina Angioletti e Gilberto Forti per  Adelphi. Nel momento in cui mi sono dedicato a capire meglio l'idea di poesia della scrittrice americana, mi è stata utile una frase, trovata sul sito della casa editrice, con la quale la Moore spiegava l'arte di un altro importante poeta, Wallace Stevens; questi era riuscito a cogliere il significato profondo della poesia nel momento in cui parlava di essa come di “una violenza interna che ci protegge da una violenza esterna”». La poesia - così mi sembra di capire - sarebbe dunque un'atto creativo che opera una qualche forma di violenza sul linguaggio abitudinario e consueto, sulle parole comuni, quotidiane, trasformandole in qualcosa di completamente diverso. E questa specie di incantesimo, operato sulla parola, brucia e incide ferite profonde, erige una barricata con detriti e rovine, con ammassi di oggetti dimenticati, con l'arrugginita ferraglia abbandonata per le strade, un bastione innalzato contro la violenza del mondo di fuori ... Mi piace quest'immagine, perché restituisce all'atto poetico il suo carattere di urgenza vitale, di voce impellente e non consolatoria, che non nasconde il giogo della necessità che incombe su ogni uomo.

Proprio quella «violenza interna» ha consentito a Marianne Moore di dare vita ad un’opera segnata ovunque da una vocazione esigente per la forma perfetta, tanto che la poetessa riuscì ad imporsi all’ammirazione di poeti così diversi come Ezra Pound, Thomas S. Eliot, William Carlos Williams e Wystan Hugh Auden. Oggi la sua opera poetica - secondo la presentazione adelphiana - è universalmente considerata una pietra preziosa, inscalfita e durissima, che continua a rifulgere di una luce lieve e limpida, inconfondibile

In una prospettiva non diversa, Eliot sottolineava che la poesia della Moore è tutt’altro che “libera” (come potrebbe sembrare anche nei versi che qui leggiamo, quasi privi di rima) e che molti dei suoi versi seguono schemi formali non solo rigidi, ma talvolta complicati, quasi fossero accompagnati dal movimento elegante di un minuetto. Cristina Campo, per descrivere più o meno la stessa cosa, usava invece il termine di arpeggi repentini. A tal genere di forma preziosa e lieve mi sembrano appartenere anche alcuni passaggi della poesia di oggi: le immagini della tomba di Longfellow o dei fiori di vetro, in cui mi sembra di cogliere il simbolo di una realtà, raffinata e prestigiosa, ma ormai priva di vita e di calore. Una luce lieve e limpida sfiora anche i versi che descrivono la qualità peculiare della gente superiore che

... può venir spogliata del linguaggio

dal linguaggio che l’ha deliziata

Il lettore più attento avrà colto qui non solo la studiata concentrazione di figure retoriche: il chiasmo, l' anadiplosi e l'antitesi, ma anche - sul piano del significato - il fatto che la spoliazione del linguaggio prepara paradossalmente la rivelazione del verso più decisivo ed intenso  dell'intero componimento: 

Il sentimento più profondo si rivela sempre in silenzio

L'opera della scrittrice americana - come dicevamo - ha avuto molti estimatori, ma quando mi sono soffermato sulla poesia "Silenzio" subito mi è venuto in mente quando Cristina Campo scrive che la Moore, speciosa e inflessibile come tutti i visionari, persegue niente di meno che l’ardua e meravigliosa perfezione: una divina ingiuria da venerare nella natura, da toccare nell’arte, da inventare gloriosamente nel quotidiano contegno». E quel contegno di cui la Campo scrive non è forse in sintonia con il restraint della nostra poesia? non sono forse ritegno, moderazione, contegno, sinonimi di quell'atteggiamento interiore al tempo stesso riservato e regale  che distingue la gente superiore ? 

Non è facile dire cosa produca quelle risonanze emotive così evidenti nei versi della poetessa americana, ma per me è qualcosa che ha a che fare con quanto ha scritto Nadia Fusini a proposito del fatto che la ricerca poetica della Moore raggiunge la sua forza espressiva più autentica attraverso uno stile costruito sulla lingua parlata, su un’espressione viva, corporea, che nasce dal silenzio e nel silenzio si articola, prende forma. Come il gatto, che con la preda ancora tra le fauci, si ritira nel suo angolo solitario.

Certo, Silenzio è una lirica non priva di un suo carattere enigmatico, che può lasciare perplessi coloro che nei versi vogliono disbrogliare ogni immagine simbolica, spiegare ogni metafora.  Riconosciamo con facilità che la voce dell'io lirico appartiene ad una figlia, pronta a condividere il ricordo degli insegnamenti impartiti da suo padre riguardo alla natura della gente superiore.  Tale voce - lo sappiamo - non coincide con quella della scrittrice, che il padre lo conobbe a stento, dato che era stato ricoverato in una clinica psichiatrica prima della sua nascita.  Secondo quanto ha rivelato la stessa Moore la poesia nasce da una conversazione con la signorina A.M. Homans, professoressa di Igiene al Wellesley College, la quale stava ricordando le parole di suo padre. Tuttavia alcune cose continuano a sfuggirci: ad esempio non possiamo dire con chiarezza a quale genere di persone il padre si riferisca quando parla di gente superioreSecondo me le allusioni alla gente superiore non si riferiscono ad un ceto sociale privilegiato: nessuna immagine in effetti ci rimanda agli agi della ricchezza o del benessere materiale. La superiorità di cui si parla nella poesia mi sembra piuttosto legata ad una qualità interiore, quella di chi non ha bisogno di ricevere elogi a buon mercato, seguendo le mode comuni. La tomba del magniloquente poeta Longfellow o le perfette ricostruzioni dei fiori realizzate in vetro per il Museo di Storia Naturale di Harvard, in questo senso, potrebbero alludere ad una maestria ormai esangue, ad una passione ormai inaridita dal tempo, sebbene da molti ancora tenuta in stima; entrambi si rivelano oggetto di attenzione per mera consuetudine, perché è così che si fa, luoghi che somigliano a magneti potenti in grado di attrarre a sé l'ampia famiglia umana dei conformisti. 

Più agevole - probabilmente - si rivela il compito di interpretare la similitudine del gatto, che tenendo in bocca la propria preda, con giusto riserbo si apparta solitario. Gli studiosi ritrovano qui un elemento ricorrente dell'arte della poetessa americana, la sua convinzione quasi religiosa che nella forma fisica, nel corpo animale (che è «stile di vita» e modo di essere dettato dalla Natura, o da Dio), è depositata una saggezza, un senso della realtà immediata e cosmica che noi non possediamo o che è divenuto labile. Quando la Moore si sprofonda nella contemplazione di un animale, - è stato scritto - tutte le sue facoltà più forti e più sottili si risvegliano, si animano. Così, nei versi di "Silenzio" l'impresa felina, pur ridimensionata dalla nuova similitudine che mette in relazione la coda del topo con un comune laccio di scarpe, spinge il lettore a comparare la sobria fierezza del gatto alla vanagloria e alla superbia di tanti successi volgarmente ostentati. 

Nei riguardi dell'insegnamento del padre, in chiusura della poesia, la voce lirica mostra una approvazione non priva di ambiguità, riconoscendo la sostanziale sincerità dell'invito a prima vista garbato:  fate della mia casa un albergo. La spiegazione di tale apprezzamento è tuttavia meno scontata, perché si fonda su una distinzione di non immediata comprensione, quella tra albergo e residenza, ovvero tra un luogo accogliente ed ospitale, ma adatto a visite fugaci, improvvisate, rapide, ed un altro luogo, costruito per soggiorni prolungati, colmo di arredi familiari e di comodità pensate per una lunga permanenza. La casa, in tal senso, potrebbe essere una metafora della dimensione più nascosta e profonda dell'animo, alla quale è bene concedere l'accesso ad alcune, scelte persone, in vista di frequentazioni intense e piacevoli, ma necessariamente brevi, come quelle di un albergo. Le parole pronunciate dal padre, dunque, non sono false, poiché accolgono il visitatore con sincero spirito di ospitalità, ma con la riserva implicita  - puntualizzata dal commento della figlia - che la visita non si trasformi in un'indiscreta invadenza. A mio avviso, ma qui siamo davvero nel campo di ipotesi non dimostrabili, la simbologia di questi ultimi versi rimanda di nuovo a quella rara virtù del riserbo, del contegno, del silenzio con cui è necessario preservare il proprio mondo interiore, lì dove sono custoditi tesori preziosi, inestimabili e tuttavia assolutamente fragili. Non a tutti destinati.



sabato 17 agosto 2024

Così sono venuto al mondo

 



Veniva dalla città mia madre,

bella fanciulla della plebe.

Sposò un figlio di contadini,

proprietari terrieri.


Da quel matrimonio lontano

nacqui io, di notte,

in un anno lugubre,

mentre moriva padre Stalin.


Si dimenticarono presto

nel paese della mia nascita.

Il villaggio si mise a lutto,

per giorni e notti.


I seni delle madri

si svuotarono di quel poco latte.

Davanti al Segretario del Partito

i contadini piangevano disperati:


«Meglio se fosse morto mio figlio, che Lui» –

gridavano i padri.

I cani ulularono fino a notte fonda

per la tragedia accaduta.


Così sono venuto al mondo,

con il sangue spaventato d’un bambino

e l’augurio di morire

al posto di un dittatore.



di Ghëzim Hajdari, Poesie scelte, Edizioni Controluce 


Non sono rimasti  molti i luoghi come l'Albania in cui capita di fare esperienza di un altrove così vivo al tempo stesso nei paesaggi negli sguardi e nei modi delle persone. Ci si imbatte in storie lontane nel tempo, scuole sufi fondate da valorosi giannizzeri e in storie più vicine come quelle legate alle memorie dolorose di uno dei regimi comunisti più crudeli della storia. Le memorie dell'impero ottomano, in un possente  castello, convivono gomito a gomito con quelle delle celle della spietata repressione di Henver Hoxa. Da una chiesa ortodossa si innalzano litanie bizantine, mentre dall'alto di un minareto - all'ora prescritta -  si alzerà il canto del muezzin.

In Albania le storia, la geografia la linguistica sono un rompicapo. L'albanese costituisce ancora oggi un'enigma per gli studiosi che concordano sul fatto che essa appartenga alla famiglia delle lingue indoeuropee, ma su molte altre questioni rilevanti prevalgono le incertezze. Oltre a ciò in quel territorio sono presenti - mescolate come in un puzzle - numerose minoranze etniche e linguistiche dai nomi affascinanti: bosniaci di Shijak, serbi di Fier, valacchi, aromuni, greci, pomacchi.  Un guazzabuglio di storie, costumi, tradizioni tramandate da secoli per via orale, come quella del Kanun, il codice di norme consuetudinarie che secondo alcuni risalirebbe ai tempi degli Illiri. Un codice in cui la vendetta di sangue e l'ospitalità sono contemplati con lo stesso riguardo.

Un simile interessante intreccio tra antico e moderno, tra storia contemporanea e modelli simbolici atavici mi sembra percorra la lirica di Ghëzim Hajdari: da un lato il senso del destino ineluttabile che imprime il suo sigillo funesto sulla vita appena sbocciata, dall'altro la dimensione disumana della nuova oppressione. Il lutto ritualizzato ed esibito secondo costumi ancestrali non è più destinato alla comunità del villaggio, ma al commissario politico, che dall'intensità del pianto valuterà forse la fedeltà di ognuno ai recenti valori del partito. Ululano i lupi nella notte, come nelle antiche leggende raccontate dagli anziani davanti ai fuochi, mentre ai consueti auguri offerti per la vita appena iniziata si sostituiscono i tristi auspici di anime piegate da un giogo ferreo ed inesorabile.

Per coloro che volessero approfondire la vita e la poesia di  Ghëzim Hajdari, consiglio il sito L'ombra delle parole che metto in link qui:

L'ombra delle parole

Se la poesia vi è piaciuta o non vi è piaciuta, se volete condividere una vostra riflessione, lasciate un commento. Il blog ne risulterà arricchito.

sabato 27 luglio 2024

dove s'addensa la tempesta

 

Una breve e necessaria avvertenza sul titolo della poesia: "Prospice" è una parola latina, un verbo al modo imperativo, vuol dire guarda di fronte a te. Robert Browning scrisse i versi che seguono poco tempo la morte di sua moglie Elisabeth.


Bassorilievo in marmo: Orfeo, Euridice ed Hermes, Museo Archeologico Nazionale di Napoli


Prospice


Temer la morte? Sentire la nebbia

in gola, la bruma in viso,

alla prima neve, e quando le raffiche

segnalano che m'appresso al luogo, 

al regno della notte, dove s'addensa la tempesta,

alla postazione del nemico;

dov'è il terrore in forma visibile

deve l'uomo coraggioso andare:

il viaggio è finito, la vetta conquistata,

le barriere cadono,

resta una battaglia prima del dono

che ricompensa ogni cosa.

Ho sempre lottato - un'altra battaglia

allora, l'ultima e suprema...

Mi ripugna che la morte mi bendi gli occhi pietosa

e mi faccia passare il varco strisciando.

No, fino in fondo, avanti coi miei pari,

gli eroi antichi, nella mischia, 

a saldare in un minuto a una vita felice

i debiti di sofferenza gelo e tenebra:

all'improvviso le sorti della battaglia si rovesciano,

per gli audaci, vola il minuto oscuro,

e la furia della tempesta col delirio delle voci

infernali, sfuma confusa,

sofferenza fatta pace,

e poi una luce e il tuo petto, 

anima dell'anima mia! Un abbraccio, 

e il resto sia nelle mani di Dio.


di Robert Browing, traduzione di Angelo Righetti

ed ecco il testo nella sua versione originale:


Fear death?—to feel the fog in my throat,

The mist in my face,

When the snows begin, and the blasts denote

I am nearing the place,

The power of the night, the press of the storm,

The post of the foe;

Where he stands, the Arch Fear in a visible form,

Yet the strong man must go:

For the journey is done and the summit attained,

And the barriers fall,

Though a battle's to fight ere the guerdon be gained,

The reward of it all.

I was ever a fighter, so—one fight more,

The best and the last!

I would hate that death bandaged my eyes and forbore,

And bade me creep past.

No! let me taste the whole of it, fare like my peers

The heroes of old,

Bear the brunt, in a minute pay glad life's arrears

Of pain, darkness and cold.

For sudden the worst turns the best to the brave,

The black minute's at end,

And the elements' rage, the fiend-voices that rave,

Shall dwindle, shall blend,

Shall change, shall become first a peace out of pain,

Then a light, then thy breast,

O thou soul of my soul! I shall clasp thee again,

And with God be the rest!


La poesia che avete appena letto fu pubblicata nel 1864 nella raccolta Dramatis Personae in piena epoca vittoriana: a Londra da poco è stata inaugurata la nuova rete della metropolitana, da tempo le strade sono illuminate con il gas durante la notte, i successi della tecnologia si susseguono a ritmo sempre più serrato. Tali conquiste del progresso - quando le si osservi da lontano - appaiono grandiose, ma se lo sguardo si fa più prossimo, ecco l'altra faccia della medaglia: malattie, miseria e sfruttamento minorile. Anche la morte ovviamente non ha cessato di diffondere i suoi affanni o di scuotere la coscienza degli artisti. 

La poesia di Robert Browning fa risuonare invece echi antichi. Attinge ad un patrimonio di immagini in cui vive la nobiltà della lontananza insieme alla nostalgia di un'antica grandezza d'animo, non del tutto perduta.  Dai suoi contemporanei infatti il poeta non fu particolarmente apprezzato, nonostante il suo indubbio talento. 

Nella lirica Prospice (che titolo meraviglioso per parlare della morte) Browning diventa un nuovo Orfeo: mentre si dirige verso i regni oscuri della morte, dal suo animo prorompono immagini potenti, come quando l'io lirico dice:

Sentire la nebbia / in gola, la bruma in viso

Avvicinarsi ai confini del regno della morte è entrare in uno spazio in cui il senso della vista è ostacolato, se non del tutto impedito; su quel confine infatti dominano la notte e la tempesta. Si tratta di un'immagine a cui spesso ricorrono i poemi omerici: si pensi ad esempio all'episodio in cui Circe ammonisce Odisseo affinché, una volta giunto alle soglie dell’Ade, compia i sacrifici previsti, senza mai guardare verso l’Erebo (Od. X 528-529). Alla stessa concezione va associato il passo in cui Esiodo nella Teogonia, dovendo descrivere i luoghi infernali, usa l'espressione Tartaro nebbioso (Teog. 119). 

La strada deve essere percorsa senza esitazione, troppo grande è ciò che aspetta: 

dov'è il terrore in forma visibile / deve l'uomo coraggioso andare...

Anche se ha combattuto molte battaglie nella sua vita, resta una battaglia prima del dono / che ricompensa ogni cosa. La moglie Elisabeth non è destinata a rimanere nelle spire oscure del Tartaro nebbioso, avvolta da oscurità e lamenti: c'è da combattere un'ultima battaglia non con le armi degli antichi guerrieri, ma con il loro stesso spirito. Una lotta tutta interiore, tutta vissuta nell'anima nuda davanti alla sventura

No, fino in fondo, avanti coi miei pari,

gli eroi antichi, nella mischia, 

a saldare in un minuto a una vita felice

i debiti di sofferenza gelo e tenebra

L'apparenza terribile e vittoriosa della nemica si rivela ora nella sua vera natura:

e la furia della tempesta col delirio delle voci / infernali, sfuma confusa

La potenza della poesia, in tal modo, è in grado di sottrarre la preda ghermita dalla morte: ciò che è stato strappato ed imprigionato nell'oscurità è tratto alla luce: riesce al poeta di cogliere non solo il  mero ricordo dell'amata moglie ma di afferrare una qualche intimità essenziale, un'unione di tipo nuovo e sublime

e il resto sia nelle mani di Dio


domenica 30 giugno 2024

E' il sangue degli dèi immortale e segreto

 


NEL GOLFO DI CORINTO

Nel Golfo di Corinto
Il respiro degli dèi è visibile:
E' un arco un alone una nuvola 
Attorno alle montagne e alle isole
Come un cielo più intenso e abbagliato

E anche l'odore degli dèi invade le strade
E' un odore di resina di miele e di frutta
Dove si disegnano grandi corpi lisci e brillanti
Senza dolore senza sudore senza pianto
Senza la minima ruga del tempo

E una luce color di mora nel ponente si specchia
E' il sangue degli dèi immortale e segreto
Che si unisce al nostro sangue e con esso lotta.


    Sophia de Mello Breyner Andresen, Il giardino di Sophia, traduzione di Roberto Maggiani, "Il ramo e la foglia edizioni"


        
Nessuno ormai dubita che nella poesia lusitana un posto  rilevante debba essere riconosciuto ai versi di Sophia de Mello Breyner Andresen, basterebbe a testimoniarlo il fatto che è  stata tra le pochissime donne a vincere il  prestigioso premio Camões, il più importante  riconoscimento letterario per gli autori di lingua  portoghese. Era nata a Porto nel 1919 da una famiglia  di origini danesi per parte paterna. Suo nonno, Jan  Eenrik Andresen, un giorno sbarcò a Porto e non lasciò  mai più questa regione. Nel  1895, suo padre, João  Henrique Andresen, acquistò Quinta do Campo Alegre,  oggi divenuto il Giardino Botanico della città. Nella sua  formazione centrale si rivela fondamentale l'incontro  con la cultura della Grecia classica che costituisce  l'occasione per scoprire il fondamento dei propri valori e una fonte fondamentale della propria poetica.  L'arco della sua vita ha attraversato le stagioni  tempestose che la sua terra ha conosciuto, la dittatura di  Salazar, la sua sconfitta, le sfide difficili dell'impegno civile nella ricostruzione, la centralità della vocazione letteraria. Muore a Lisbona nel 2004.

Grazie alla giovane casa editrice "Il ramo e la foglia edizioni" dunque il lettore italiano può avere accesso alla pregevole raccolta delle liriche selezionate e tradotte da Roberto Maggiani - poeta lui stesso sarà bene ricordarlo - raccolta che opportunamente è accompagnata dall'ottima postfazione di Claudio Trognoni, necessaria introduzione alla poesia della Andresen. Proprio nella postfazione di Trognoni troviamo alcune indicazioni preziose per comprendere più profondamente la ricca trama di espressioni  e di riferimenti simbolici connessi alla cultura greca evidenti nella lirica Nel golfo di Corinto; l'esperienza estetica del mondo ellenico infatti diventa occasione di contatto con la verità circoscritta da quella luce inimitabile, "luogo per eccellenza di unità tra divino e terreno, tra parola poetica, mondo empirico e verità assoluta". Nel Golfo di Corinto - non a caso - la voce poetante afferma che il respiro degli dèi è visibile e la natura stessa dell'aere è dotata di un carattere numinoso, come un cielo più intenso e abbagliato. La presenza degli dèi poi non è solo luce, ma un profumo fragrante, un odore di resina di miele e di frutta; all'anima in tal modo pare di scorgere la presenza del divino: corpi che non conoscono pena ed afflizione, le rughe del tempo e degli affanni. L'epifania del divino è esperienza del totalmente altro, di un altrove assoluto:
... grandi corpi lisci e brillanti
Senza dolore senza sudore senza pianto
Senza la minima ruga del tempo

Essa manifesta sì il contatto possibile, ma anche l'irrimediabile distanza: può forse essere la natura umana altro che dolore, sudore, pianto e rughe del tempo ? Così, se persino il mare si tinge della presenza degli dèi, essi nell'ultimo, meraviglioso verso si rivelano entità lontane e tuttavia presenti, unite al nostro sangue ed inevitabilmente con noi in lotta. Felicissima mi sembra la scelta della poetessa lusitana di concludere la poesia con un termine che in apparenza sembra contraddire il nucleo dell'ispirazione dei suoi versi, ma che in realtà - in luminosa coerenza con lo spirito greco - sancisce la profonda intuizione di quello stesso spirito: il destino dell'uomo - la sua natura essenziale ed il suo compito - consiste nel sentimento tragico della propria finitezza, nel senso del proprio limite in cui abita una lucida amarezza, priva al tempo stesso di qualunque indulgente forma di autocommiserazione.