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domenica 20 ottobre 2024

è un rullo di tamburo

 



Il nuovo cammino

    che sto per cominciare

corre in ogni direzione

    traversa monti e mari.

Ma se devo dire 

    quale ne sia la forma,

è un rullo di tamburo, uno squillo di tromba.

        

        Musō Sōseki, 1351 -  da "Jisei -Poesie dell'addio" SE editore


Nella cultura letteraria giapponese una delle forme tradizionali più amate e durature è costituita dal Jisei, un componimento poetico con cui l'autore, all'avvicinarsi della propria morte, si congeda con il mondo e la vita. Un esempio pregevole di tale forma è quello che potete leggere qui sopra composto da Musō Sōseki nel trentesimo giorno del nono mese del secondo anno Kannō, ovvero nell'anno1351della nostra era. Era costui un monaco che visse alla corte imperiale ed uno dei più celebrati creatori di giardini zen, alcuni dei quali si possono visitare ancora oggi in Giappone. Oltre che architetto di giardini zen, Musō Sōseki fu anche un calligrafo ed un poeta di grande talento. 

Nel suo jisei l'incombere della morte è rappresentato come un cammino sconosciuto che si apre tra monti e mari, senza una meta precisa, mosso non più da traguardi prestabiliti, ma dall'anelito alla Via, all'esperienza dell'illuminazione; del nuovo viaggio - avverte il poeta - non è facile definire i caratteri, ma se proprio si deve ricorrere alle parole, esso può essere paragonato al rullo di un tamburo o ad uno squillo di tromba. Un suono dunque, dotato di una sua vibrante energia, tutta spirituale: si innalza al di là delle rupi scoscese, oltre il fragore delle onde, al di là dei ripidi passi battuti dal vento. Il suono della tromba, il rullare del tamburo evocano il viaggio dell'io, finalmente liberato dal giogo della necessità (secondo il poeta greco Eschilo tale è la condizione umana), nulla rimpiangendo ma tutto amando.


        

                    

giovedì 26 settembre 2024

Il sentimento più profondo si rivela sempre in silenzio

 

Glass flowers, parte del Harvard Museum of Natural History


Silenzio


Mio padre era solito dire,

“La gente superiore non fa mai lunghe visite,

non ha bisogno di vedere la tomba di Longefellow

o ad Harvard i fiori di vetro.

Fiduciosa di sé come il gatto -

che la sua preda conduce in disparte

con l’afflosciata coda del topo che gli oscilla come un

laccio da scarpe dalla bocca -

talvolta apprezza la solitudine,

e può venir spogliata del linguaggio

dal linguaggio che l’ha deliziata.

Il sentimento più profondo si rivela sempre in silenzio;

anzi, non in silenzio, ma in ritegno.”

Né egli era falso nel dire, “Fate della mia casa il vostro

albergo.”

Perché gli alberghi non sono residenze.

                       Marianne Moore, Le poesie, Adelphi 1991

                

                                    per chi volesse leggere la versione originale :


   My father used to say,

“Superior people never make long visits,

have to be shown Longfellow’s grave

or the glass flowers at Harvard.

Self-reliant like the cat —

that takes its prey to privacy,

the mouse’s limp tail hanging like a shoelace from its

mouth —

they sometimes enjoy solitude,

and can be robbed of speech

by speech which has delighted them.

The deepest feeling always shows itself in silence;

not in silence, but restraint.”

Nor was he insincere in saying, “Make my house your inn.”

Inns are not residences.                   

                        

                

Sono debitore a Cristina Campo di molte importanti scoperte, tra queste, non di poco conto, è quella della poetessa americana Marianne Moore, alla cui opera il lettore italiano può accedere attraverso la traduzione curata da Lina Angioletti e Gilberto Forti per  Adelphi. Nel momento in cui mi sono dedicato a capire meglio l'idea di poesia della scrittrice americana, mi è stata utile una frase, trovata sul sito della casa editrice, con la quale la Moore spiegava l'arte di un altro importante poeta, Wallace Stevens; questi era riuscito a cogliere il significato profondo della poesia nel momento in cui parlava di essa come di “una violenza interna che ci protegge da una violenza esterna”». La poesia - così mi sembra di capire - sarebbe dunque un'atto creativo che opera una qualche forma di violenza sul linguaggio abitudinario e consueto, sulle parole comuni, quotidiane, trasformandole in qualcosa di completamente diverso. E questa specie di incantesimo, operato sulla parola, brucia e incide ferite profonde, erige una barricata con detriti e rovine, con ammassi di oggetti dimenticati, con l'arrugginita ferraglia abbandonata per le strade, un bastione innalzato contro la violenza del mondo di fuori ... Mi piace quest'immagine, perché restituisce all'atto poetico il suo carattere di urgenza vitale, di voce impellente e non consolatoria, che non nasconde il giogo della necessità che incombe su ogni uomo.

Proprio quella «violenza interna» ha consentito a Marianne Moore di dare vita ad un’opera segnata ovunque da una vocazione esigente per la forma perfetta, tanto che la poetessa riuscì ad imporsi all’ammirazione di poeti così diversi come Ezra Pound, Thomas S. Eliot, William Carlos Williams e Wystan Hugh Auden. Oggi la sua opera poetica - secondo la presentazione adelphiana - è universalmente considerata una pietra preziosa, inscalfita e durissima, che continua a rifulgere di una luce lieve e limpida, inconfondibile

In una prospettiva non diversa, Eliot sottolineava che la poesia della Moore è tutt’altro che “libera” (come potrebbe sembrare anche nei versi che qui leggiamo, quasi privi di rima) e che molti dei suoi versi seguono schemi formali non solo rigidi, ma talvolta complicati, quasi fossero accompagnati dal movimento elegante di un minuetto. Cristina Campo, per descrivere più o meno la stessa cosa, usava invece il termine di arpeggi repentini. A tal genere di forma preziosa e lieve mi sembrano appartenere anche alcuni passaggi della poesia di oggi: le immagini della tomba di Longfellow o dei fiori di vetro, in cui mi sembra di cogliere il simbolo di una realtà, raffinata e prestigiosa, ma ormai priva di vita e di calore. Una luce lieve e limpida sfiora anche i versi che descrivono la qualità peculiare della gente superiore che

... può venir spogliata del linguaggio

dal linguaggio che l’ha deliziata

Il lettore più attento avrà colto qui non solo la studiata concentrazione di figure retoriche: il chiasmo, l' anadiplosi e l'antitesi, ma anche - sul piano del significato - il fatto che la spoliazione del linguaggio prepara paradossalmente la rivelazione del verso più decisivo ed intenso  dell'intero componimento: 

Il sentimento più profondo si rivela sempre in silenzio

L'opera della scrittrice americana - come dicevamo - ha avuto molti estimatori, ma quando mi sono soffermato sulla poesia "Silenzio" subito mi è venuto in mente quando Cristina Campo scrive che la Moore, speciosa e inflessibile come tutti i visionari, persegue niente di meno che l’ardua e meravigliosa perfezione: una divina ingiuria da venerare nella natura, da toccare nell’arte, da inventare gloriosamente nel quotidiano contegno». E quel contegno di cui la Campo scrive non è forse in sintonia con il restraint della nostra poesia? non sono forse ritegno, moderazione, contegno, sinonimi di quell'atteggiamento interiore al tempo stesso riservato e regale  che distingue la gente superiore ? 

Non è facile dire cosa produca quelle risonanze emotive così evidenti nei versi della poetessa americana, ma per me è qualcosa che ha a che fare con quanto ha scritto Nadia Fusini a proposito del fatto che la ricerca poetica della Moore raggiunge la sua forza espressiva più autentica attraverso uno stile costruito sulla lingua parlata, su un’espressione viva, corporea, che nasce dal silenzio e nel silenzio si articola, prende forma. Come il gatto, che con la preda ancora tra le fauci, si ritira nel suo angolo solitario.

Certo, Silenzio è una lirica non priva di un suo carattere enigmatico, che può lasciare perplessi coloro che nei versi vogliono disbrogliare ogni immagine simbolica, spiegare ogni metafora.  Riconosciamo con facilità che la voce dell'io lirico appartiene ad una figlia, pronta a condividere il ricordo degli insegnamenti impartiti da suo padre riguardo alla natura della gente superiore.  Tale voce - lo sappiamo - non coincide con quella della scrittrice, che il padre lo conobbe a stento, dato che era stato ricoverato in una clinica psichiatrica prima della sua nascita.  Secondo quanto ha rivelato la stessa Moore la poesia nasce da una conversazione con la signorina A.M. Homans, professoressa di Igiene al Wellesley College, la quale stava ricordando le parole di suo padre. Tuttavia alcune cose continuano a sfuggirci: ad esempio non possiamo dire con chiarezza a quale genere di persone il padre si riferisca quando parla di gente superioreSecondo me le allusioni alla gente superiore non si riferiscono ad un ceto sociale privilegiato: nessuna immagine in effetti ci rimanda agli agi della ricchezza o del benessere materiale. La superiorità di cui si parla nella poesia mi sembra piuttosto legata ad una qualità interiore, quella di chi non ha bisogno di ricevere elogi a buon mercato, seguendo le mode comuni. La tomba del magniloquente poeta Longfellow o le perfette ricostruzioni dei fiori realizzate in vetro per il Museo di Storia Naturale di Harvard, in questo senso, potrebbero alludere ad una maestria ormai esangue, ad una passione ormai inaridita dal tempo, sebbene da molti ancora tenuta in stima; entrambi si rivelano oggetto di attenzione per mera consuetudine, perché è così che si fa, luoghi che somigliano a magneti potenti in grado di attrarre a sé l'ampia famiglia umana dei conformisti. 

Più agevole - probabilmente - si rivela il compito di interpretare la similitudine del gatto, che tenendo in bocca la propria preda, con giusto riserbo si apparta solitario. Gli studiosi ritrovano qui un elemento ricorrente dell'arte della poetessa americana, la sua convinzione quasi religiosa che nella forma fisica, nel corpo animale (che è «stile di vita» e modo di essere dettato dalla Natura, o da Dio), è depositata una saggezza, un senso della realtà immediata e cosmica che noi non possediamo o che è divenuto labile. Quando la Moore si sprofonda nella contemplazione di un animale, - è stato scritto - tutte le sue facoltà più forti e più sottili si risvegliano, si animano. Così, nei versi di "Silenzio" l'impresa felina, pur ridimensionata dalla nuova similitudine che mette in relazione la coda del topo con un comune laccio di scarpe, spinge il lettore a comparare la sobria fierezza del gatto alla vanagloria e alla superbia di tanti successi volgarmente ostentati. 

Nei riguardi dell'insegnamento del padre, in chiusura della poesia, la voce lirica mostra una approvazione non priva di ambiguità, riconoscendo la sostanziale sincerità dell'invito a prima vista garbato:  fate della mia casa un albergo. La spiegazione di tale apprezzamento è tuttavia meno scontata, perché si fonda su una distinzione di non immediata comprensione, quella tra albergo e residenza, ovvero tra un luogo accogliente ed ospitale, ma adatto a visite fugaci, improvvisate, rapide, ed un altro luogo, costruito per soggiorni prolungati, colmo di arredi familiari e di comodità pensate per una lunga permanenza. La casa, in tal senso, potrebbe essere una metafora della dimensione più nascosta e profonda dell'animo, alla quale è bene concedere l'accesso ad alcune, scelte persone, in vista di frequentazioni intense e piacevoli, ma necessariamente brevi, come quelle di un albergo. Le parole pronunciate dal padre, dunque, non sono false, poiché accolgono il visitatore con sincero spirito di ospitalità, ma con la riserva implicita  - puntualizzata dal commento della figlia - che la visita non si trasformi in un'indiscreta invadenza. A mio avviso, ma qui siamo davvero nel campo di ipotesi non dimostrabili, la simbologia di questi ultimi versi rimanda di nuovo a quella rara virtù del riserbo, del contegno, del silenzio con cui è necessario preservare il proprio mondo interiore, lì dove sono custoditi tesori preziosi, inestimabili e tuttavia assolutamente fragili. Non a tutti destinati.



sabato 17 agosto 2024

Così sono venuto al mondo

 



Veniva dalla città mia madre,

bella fanciulla della plebe.

Sposò un figlio di contadini,

proprietari terrieri.


Da quel matrimonio lontano

nacqui io, di notte,

in un anno lugubre,

mentre moriva padre Stalin.


Si dimenticarono presto

nel paese della mia nascita.

Il villaggio si mise a lutto,

per giorni e notti.


I seni delle madri

si svuotarono di quel poco latte.

Davanti al Segretario del Partito

i contadini piangevano disperati:


«Meglio se fosse morto mio figlio, che Lui» –

gridavano i padri.

I cani ulularono fino a notte fonda

per la tragedia accaduta.


Così sono venuto al mondo,

con il sangue spaventato d’un bambino

e l’augurio di morire

al posto di un dittatore.



di Ghëzim Hajdari, Poesie scelte, Edizioni Controluce 


Non sono rimasti  molti i luoghi come l'Albania in cui capita di fare esperienza di un altrove così vivo al tempo stesso nei paesaggi negli sguardi e nei modi delle persone. Ci si imbatte in storie lontane nel tempo, scuole sufi fondate da valorosi giannizzeri e in storie più vicine come quelle legate alle memorie dolorose di uno dei regimi comunisti più crudeli della storia. Le memorie dell'impero ottomano, in un possente  castello, convivono gomito a gomito con quelle delle celle della spietata repressione di Henver Hoxa. Da una chiesa ortodossa si innalzano litanie bizantine, mentre dall'alto di un minareto - all'ora prescritta -  si alzerà il canto del muezzin.

In Albania le storia, la geografia la linguistica sono un rompicapo. L'albanese costituisce ancora oggi un'enigma per gli studiosi che concordano sul fatto che essa appartenga alla famiglia delle lingue indoeuropee, ma su molte altre questioni rilevanti prevalgono le incertezze. Oltre a ciò in quel territorio sono presenti - mescolate come in un puzzle - numerose minoranze etniche e linguistiche dai nomi affascinanti: bosniaci di Shijak, serbi di Fier, valacchi, aromuni, greci, pomacchi.  Un guazzabuglio di storie, costumi, tradizioni tramandate da secoli per via orale, come quella del Kanun, il codice di norme consuetudinarie che secondo alcuni risalirebbe ai tempi degli Illiri. Un codice in cui la vendetta di sangue e l'ospitalità sono contemplati con lo stesso riguardo.

Un simile interessante intreccio tra antico e moderno, tra storia contemporanea e modelli simbolici atavici mi sembra percorra la lirica di Ghëzim Hajdari: da un lato il senso del destino ineluttabile che imprime il suo sigillo funesto sulla vita appena sbocciata, dall'altro la dimensione disumana della nuova oppressione. Il lutto ritualizzato ed esibito secondo costumi ancestrali non è più destinato alla comunità del villaggio, ma al commissario politico, che dall'intensità del pianto valuterà forse la fedeltà di ognuno ai recenti valori del partito. Ululano i lupi nella notte, come nelle antiche leggende raccontate dagli anziani davanti ai fuochi, mentre ai consueti auguri offerti per la vita appena iniziata si sostituiscono i tristi auspici di anime piegate da un giogo ferreo ed inesorabile.

Per coloro che volessero approfondire la vita e la poesia di  Ghëzim Hajdari, consiglio il sito L'ombra delle parole che metto in link qui:

L'ombra delle parole

Se la poesia vi è piaciuta o non vi è piaciuta, se volete condividere una vostra riflessione, lasciate un commento. Il blog ne risulterà arricchito.

sabato 27 luglio 2024

dove s'addensa la tempesta

 

Una breve e necessaria avvertenza sul titolo della poesia: "Prospice" è una parola latina, un verbo al modo imperativo, vuol dire guarda di fronte a te. Robert Browning scrisse i versi che seguono poco tempo la morte di sua moglie Elisabeth.


Bassorilievo in marmo: Orfeo, Euridice ed Hermes, Museo Archeologico Nazionale di Napoli


Prospice


Temer la morte? Sentire la nebbia

in gola, la bruma in viso,

alla prima neve, e quando le raffiche

segnalano che m'appresso al luogo, 

al regno della notte, dove s'addensa la tempesta,

alla postazione del nemico;

dov'è il terrore in forma visibile

deve l'uomo coraggioso andare:

il viaggio è finito, la vetta conquistata,

le barriere cadono,

resta una battaglia prima del dono

che ricompensa ogni cosa.

Ho sempre lottato - un'altra battaglia

allora, l'ultima e suprema...

Mi ripugna che la morte mi bendi gli occhi pietosa

e mi faccia passare il varco strisciando.

No, fino in fondo, avanti coi miei pari,

gli eroi antichi, nella mischia, 

a saldare in un minuto a una vita felice

i debiti di sofferenza gelo e tenebra:

all'improvviso le sorti della battaglia si rovesciano,

per gli audaci, vola il minuto oscuro,

e la furia della tempesta col delirio delle voci

infernali, sfuma confusa,

sofferenza fatta pace,

e poi una luce e il tuo petto, 

anima dell'anima mia! Un abbraccio, 

e il resto sia nelle mani di Dio.


di Robert Browing, traduzione di Angelo Righetti

ed ecco il testo nella sua versione originale:


Fear death?—to feel the fog in my throat,

The mist in my face,

When the snows begin, and the blasts denote

I am nearing the place,

The power of the night, the press of the storm,

The post of the foe;

Where he stands, the Arch Fear in a visible form,

Yet the strong man must go:

For the journey is done and the summit attained,

And the barriers fall,

Though a battle's to fight ere the guerdon be gained,

The reward of it all.

I was ever a fighter, so—one fight more,

The best and the last!

I would hate that death bandaged my eyes and forbore,

And bade me creep past.

No! let me taste the whole of it, fare like my peers

The heroes of old,

Bear the brunt, in a minute pay glad life's arrears

Of pain, darkness and cold.

For sudden the worst turns the best to the brave,

The black minute's at end,

And the elements' rage, the fiend-voices that rave,

Shall dwindle, shall blend,

Shall change, shall become first a peace out of pain,

Then a light, then thy breast,

O thou soul of my soul! I shall clasp thee again,

And with God be the rest!


La poesia che avete appena letto fu pubblicata nel 1864 nella raccolta Dramatis Personae in piena epoca vittoriana: a Londra da poco è stata inaugurata la nuova rete della metropolitana, da tempo le strade sono illuminate con il gas durante la notte, i successi della tecnologia si susseguono a ritmo sempre più serrato. Tali conquiste del progresso - quando le si osservi da lontano - appaiono grandiose, ma se lo sguardo si fa più prossimo, ecco l'altra faccia della medaglia: malattie, miseria e sfruttamento minorile. Anche la morte ovviamente non ha cessato di diffondere i suoi affanni o di scuotere la coscienza degli artisti. 

La poesia di Robert Browning fa risuonare invece echi antichi. Attinge ad un patrimonio di immagini in cui vive la nobiltà della lontananza insieme alla nostalgia di un'antica grandezza d'animo, non del tutto perduta.  Dai suoi contemporanei infatti il poeta non fu particolarmente apprezzato, nonostante il suo indubbio talento. 

Nella lirica Prospice (che titolo meraviglioso per parlare della morte) Browning diventa un nuovo Orfeo: mentre si dirige verso i regni oscuri della morte, dal suo animo prorompono immagini potenti, come quando l'io lirico dice:

Sentire la nebbia / in gola, la bruma in viso

Avvicinarsi ai confini del regno della morte è entrare in uno spazio in cui il senso della vista è ostacolato, se non del tutto impedito; su quel confine infatti dominano la notte e la tempesta. Si tratta di un'immagine a cui spesso ricorrono i poemi omerici: si pensi ad esempio all'episodio in cui Circe ammonisce Odisseo affinché, una volta giunto alle soglie dell’Ade, compia i sacrifici previsti, senza mai guardare verso l’Erebo (Od. X 528-529). Alla stessa concezione va associato il passo in cui Esiodo nella Teogonia, dovendo descrivere i luoghi infernali, usa l'espressione Tartaro nebbioso (Teog. 119). 

La strada deve essere percorsa senza esitazione, troppo grande è ciò che aspetta: 

dov'è il terrore in forma visibile / deve l'uomo coraggioso andare...

Anche se ha combattuto molte battaglie nella sua vita, resta una battaglia prima del dono / che ricompensa ogni cosa. La moglie Elisabeth non è destinata a rimanere nelle spire oscure del Tartaro nebbioso, avvolta da oscurità e lamenti: c'è da combattere un'ultima battaglia non con le armi degli antichi guerrieri, ma con il loro stesso spirito. Una lotta tutta interiore, tutta vissuta nell'anima nuda davanti alla sventura

No, fino in fondo, avanti coi miei pari,

gli eroi antichi, nella mischia, 

a saldare in un minuto a una vita felice

i debiti di sofferenza gelo e tenebra

L'apparenza terribile e vittoriosa della nemica si rivela ora nella sua vera natura:

e la furia della tempesta col delirio delle voci / infernali, sfuma confusa

La potenza della poesia, in tal modo, è in grado di sottrarre la preda ghermita dalla morte: ciò che è stato strappato ed imprigionato nell'oscurità è tratto alla luce: riesce al poeta di cogliere non solo il  mero ricordo dell'amata moglie ma di afferrare una qualche intimità essenziale, un'unione di tipo nuovo e sublime

e il resto sia nelle mani di Dio


domenica 30 giugno 2024

E' il sangue degli dèi immortale e segreto

 


NEL GOLFO DI CORINTO

Nel Golfo di Corinto
Il respiro degli dèi è visibile:
E' un arco un alone una nuvola 
Attorno alle montagne e alle isole
Come un cielo più intenso e abbagliato

E anche l'odore degli dèi invade le strade
E' un odore di resina di miele e di frutta
Dove si disegnano grandi corpi lisci e brillanti
Senza dolore senza sudore senza pianto
Senza la minima ruga del tempo

E una luce color di mora nel ponente si specchia
E' il sangue degli dèi immortale e segreto
Che si unisce al nostro sangue e con esso lotta.


    Sophia de Mello Breyner Andresen, Il giardino di Sophia, traduzione di Roberto Maggiani, "Il ramo e la foglia edizioni"


        
Nessuno ormai dubita che nella poesia lusitana un posto  rilevante debba essere riconosciuto ai versi di Sophia de Mello Breyner Andresen, basterebbe a testimoniarlo il fatto che è  stata tra le pochissime donne a vincere il  prestigioso premio Camões, il più importante  riconoscimento letterario per gli autori di lingua  portoghese. Era nata a Porto nel 1919 da una famiglia  di origini danesi per parte paterna. Suo nonno, Jan  Eenrik Andresen, un giorno sbarcò a Porto e non lasciò  mai più questa regione. Nel  1895, suo padre, João  Henrique Andresen, acquistò Quinta do Campo Alegre,  oggi divenuto il Giardino Botanico della città. Nella sua  formazione centrale si rivela fondamentale l'incontro  con la cultura della Grecia classica che costituisce  l'occasione per scoprire il fondamento dei propri valori e una fonte fondamentale della propria poetica.  L'arco della sua vita ha attraversato le stagioni  tempestose che la sua terra ha conosciuto, la dittatura di  Salazar, la sua sconfitta, le sfide difficili dell'impegno civile nella ricostruzione, la centralità della vocazione letteraria. Muore a Lisbona nel 2004.

Grazie alla giovane casa editrice "Il ramo e la foglia edizioni" dunque il lettore italiano può avere accesso alla pregevole raccolta delle liriche selezionate e tradotte da Roberto Maggiani - poeta lui stesso sarà bene ricordarlo - raccolta che opportunamente è accompagnata dall'ottima postfazione di Claudio Trognoni, necessaria introduzione alla poesia della Andresen. Proprio nella postfazione di Trognoni troviamo alcune indicazioni preziose per comprendere più profondamente la ricca trama di espressioni  e di riferimenti simbolici connessi alla cultura greca evidenti nella lirica Nel golfo di Corinto; l'esperienza estetica del mondo ellenico infatti diventa occasione di contatto con la verità circoscritta da quella luce inimitabile, "luogo per eccellenza di unità tra divino e terreno, tra parola poetica, mondo empirico e verità assoluta". Nel Golfo di Corinto - non a caso - la voce poetante afferma che il respiro degli dèi è visibile e la natura stessa dell'aere è dotata di un carattere numinoso, come un cielo più intenso e abbagliato. La presenza degli dèi poi non è solo luce, ma un profumo fragrante, un odore di resina di miele e di frutta; all'anima in tal modo pare di scorgere la presenza del divino: corpi che non conoscono pena ed afflizione, le rughe del tempo e degli affanni. L'epifania del divino è esperienza del totalmente altro, di un altrove assoluto:
... grandi corpi lisci e brillanti
Senza dolore senza sudore senza pianto
Senza la minima ruga del tempo

Essa manifesta sì il contatto possibile, ma anche l'irrimediabile distanza: può forse essere la natura umana altro che dolore, sudore, pianto e rughe del tempo ? Così, se persino il mare si tinge della presenza degli dèi, essi nell'ultimo, meraviglioso verso si rivelano entità lontane e tuttavia presenti, unite al nostro sangue ed inevitabilmente con noi in lotta. Felicissima mi sembra la scelta della poetessa lusitana di concludere la poesia con un termine che in apparenza sembra contraddire il nucleo dell'ispirazione dei suoi versi, ma che in realtà - in luminosa coerenza con lo spirito greco - sancisce la profonda intuizione di quello stesso spirito: il destino dell'uomo - la sua natura essenziale ed il suo compito - consiste nel sentimento tragico della propria finitezza, nel senso del proprio limite in cui abita una lucida amarezza, priva al tempo stesso di qualunque indulgente forma di autocommiserazione. 
 





sabato 15 giugno 2024

Purché fra noi, per almeno un momento


 


Cari amici, qui dico amici

Nel senso vasto della parola:

Moglie, sorella, sodali, parenti,

Compagne e compagni di scuola,

Persone viste una volta sola

O praticate per tutta la vita:

Purché fra noi, per almeno un momento,

Sia stato teso un segmento,

Una corda ben definita.

Dico per voi, compagni d’un cammino

Folto, non privo di fatica,

E per voi pure, che avete perduto

L’anima, l’animo, la voglia di vita:

O nessuno, o qualcuno, o forse un solo, o tu

Che mi leggi: ricorda il tempo,

Prima che s’indurisse la cera,

Quando ognuno era come un sigillo.

Di noi ciascuno reca l’impronta

Dell’amico incontrato per via;

In ognuno la traccia di ognuno.

Per il bene od il male

In saggezza o in follia

Ognuno stampato da ognuno.

Ora che il tempo urge da presso,

Che le imprese sono finite,

A voi tutti l’augurio sommesso

Che l’autunno sia lungo e mite.


Primo Levi, dalla raccolta "Ad ora incerta", 1985

Una bella poesia di Primo Levi sulle persone che hanno attraversato la nostra vita lasciando un segno. Di alcune perdiamo le tracce, con altre i sentieri continuano ad intrecciarsi, altre ancora non ci hanno mai lasciati, anche se non sono più... 

per tutti voi old friends

martedì 30 aprile 2024

ad altri il verde suono dell'albero

 


IL BATTENTE



Ci sono alcuni che in testa

coltivano giardini

e i loro capelli sono sentieri

per città assolate e bianche

scrivere gli è facile

chiudono gli occhi

ed ecco defluirgli dalla fronte

branchi di immagini

la mia immaginazione

è un pezzetto d’asse

e il mio solo strumento

una stecca di legno

percuoto l’asse

ed essa mi risponde

sì – sì

no – no

ad altri il verde suono dell’albero

l’azzurro suono dell’acqua

il mio è un battente

per giardini incustoditi

percuoto l’asse

ed essa mi suggerisce

il secco poema del moralista

sì – sì

no – no


  Zbigniew Herbert, "Rapporto dalla città assediata" a cura di Pietro Marchesani


Da dove nasce la poesia? quale è la sua fonte misteriosa, quali i suoi strumenti? Non lo sappiamo. Riconosciamo con una qualche approssimazione che nella mente di alcuni poeti crescono giardini pieni di colore, profumi ed armonia. Coloro tra noi che guardano con attenzione osservano un Blake o un Ovidio ed ecco che i loro capelli sono sentieri/ per città assolate e bianche. 

La voce che ci raggiunge da questi versi ha un altro timbro. I suoi strumenti sono rimasugli poveri, un pezzetto di asse, una stecca di legno, il suono che da questi si può ricavare - in apparenza - è poca cosa: 

sì - sì

no- no

niente altro.

Ci sono poeti che conoscono il verde suono dell'albero e sanno modulare l'azzurro suono dell'acqua. La loro voce può scuotere il cuore addomesticato o risvegliare l'ardore assopito, può scuotere ed infiammare. Ma oggi è bello lasciarci afferrare da una diversa e scarna melodia Un battente percosso da lieve tocco apre a giardini incustoditi, un ingresso dimesso introduce al tesoro recondito del secco poema del moralista. Ad esso ci abbeveriamo come dopo un lungo e penoso andare.

sabato 30 marzo 2024

Quelli che credi di sopraffare

 

Icona bizantina della discesa agli inferi

Non andar fiera morte, se anche c'è

chi ti ha detto terribile e potente - tu non lo sei.

Quelli che credi di sopraffare non periscono,

povera morte, né tu  mi puoi uccidere.

Da riposo e sonno, tue immagini mere

grande piacere ne fluisce. E quanto più

ne verrà da te.

Primi i migliori tra noi vengono con te,

riposo per le ossa, per l'anima liberazione.

E tu schiava del Fato, del Caso

di Re e di uomini alla disperazione,

tu che dimori  con veleni, guerre e malattie -

oppio e incantesimi ci sanno egualmente

addormentare e più felicemente

di ogni tuo fendente - perché ti insuperbisci?

Dopo breve sonno all'eternità ci desteremo, 

senza più morte, Morte morrai.

       

                                 Jhon Donne, Sonetti sacri. traduzione di Rosa Tavelli 


la versione originale:

Death be not proud, though some have called thee

Mighty and dreadful, for, thou art not so,

For, those, whom thou think’st, thou dost overthrow,

Die not, poore death, nor yet canst thou kill me.

From rest and sleepe, which but thy pictures bee,

Much pleasure, then from thee, much more must flow,

And soonest our best men with thee doe goe,

Rest of their bones, and souls deliverie.

Thou art slave to Fate, Chance, kings, and desperate men,

And dost with poyson, warre, and sicknesse dwell,

And poppie, or charmes can make us sleepe as well,

And better than thy stroake; why swell’st thou then;

One short sleepe past, wee wake eternally,

And death shall be no more; Death, thou shalt die.


In un saggio dedicato alla poesia di John Donne (Donne After Three Centuries, London 1932), Virginia Woolf, si chiedeva quale fosse la qualità delle parole del poeta elisabettiano che le rendevano così nitidamente udibili nei suoi anni, per quale strano segreto i versi di un poeta così lontano nel tempo fossero ancora  capaci di colpire il lettore contemporaneo. A questo interrogativo la Woolf rispondeva sottolineando il fatto che  - ancora prima del suo significato - la poesia di Donne è dotata di una caratteristica straordinaria, quella di eludere ogni prefazione, di consumare ogni preludio per irrompere nella nostra attenzione: una scossa ci percorre e le percezioni intorpidite e informi si ordinano secondo una visione precisa e sorprendente.  Tale qualità mi sembra evidente anche nella poesia Death be not proud  su cui oggi, Sabato Santo del 2024, possiamo soffermarci.

Il poeta si rivolge alla Morte  con piglio deciso, quasi sfrontato: non andar fiera, non ti insuperbire anche se in molti ti dicono potente e terribile e a queste definizioni chinano la testa. Vengono in mente inevitabilmente quelle potenti raffigurazioni della morte che a passo di danza conduce tutti, principi e mendicanti, papi e contadini, guerrieri e giovani ragazze verso il suo regno. Si tratta di quel motivo iconografico della Totentanz o della Danza macabra che adorna non pochi edifici di culto europei, come l'affresco della chiesa di San Vigilio, presso Pinzolo, opera del pittore cinquecentesco Simone Baschenis de Averara. L'idea alla base di queste rappresentazioni è chiara: siccome la morte tiene in suo potere ogni realtà terrena e su tutti essa esercita il suo invincibile potere, è necessario guardare alle cose del cielo e cambiare vita orientando le proprie scelte in direzione di ciò che la ruggine non divora e il tempo non consuma. Agisce in questa forma della rappresentazione della morte soprattutto il carattere della sua ineluttabilità, ma allo stesso tempo ne esce sottolineata la potenza, il suo essere  - apparentemente  - invincibile. L'effetto anagogico qui ricercato rischia di essere soverchiato da un senso di desolazione e smarrimento, dove anche la speranza viene meno. 

Diversa appare la scelta del poeta inglese: inutile che tu vada vantandoti del  tuo essere potente, thou art not so. Non lo sei, povera Morte. Ciò che tu offri a noi  - riposo e sonno - sono un piacere che già conosciamo e che ancora di più gusteremo grazie a te, giacché un breve sonno (short sleepe) è la tua essenza.  Quell'immagine maestosa e terribile di potenza sovrana viene poi ribaltata, nella sezione a mio avviso più riuscita del sonetto, in quella della schiavitù: 

E tu schiava del Fato, del Caso

di Re e di uomini alla disperazione,

tu che dimori  con veleni, guerre e malattie...

Viviamo un tempo spietato, un tempo in cui "portiamo la verità tra le labbra serrate" come recita un bel verso di Zbigniev Herbert ed anche nei giorni in cui siamo chiamati a vivere può subentrare lo stesso senso di annichilimento che la visione della Danza Macabra poteva indurre negli uomini di quell'epoca, spogliato però di ogni speranza di salvezza. Così, di fronte alla sofferenza di tanti innocenti, per nulla diversa da quella patita sulle croci del Calvario, la tentazione di credere nell'invincibilità della morte rischia, ancora una volta, di farsi  esperienza comune, contagiando i cuori con l'amaro sapore della necessità, che non conosce redenzione. 

Nella liturgia cattolica del triduo pasquale il Sabato Santo è il momento del silenzio, vero sottofondo del mistero che si celebrerà nella notte. Le parole di un’antica omelia, ripetuta ogni anno nella celebrazione delle Lodi ci introduce con grande intensità nella tacita attesa del Sabato Santo: «Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli dormivano. Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi». Come si vede anche in una venerata icona bizantina, Cristo scende a visitare quelli che siedono nelle tenebre e nell'ombra di morte, va a liberare dalle sofferenze Adamo ed Eva  e tutti coloro che si trovano lì prigionieri. le catene della morte sono infrante.

La poesia di Jhon Donne ci ricorda la stessa cosa nel suo ultimo incandescente verso:

And death shall be no more; Death, thou shalt die.


martedì 30 gennaio 2024

Così sono uscito nella notte

 


Buonanotte qui dentro


Ora la notte incombe sui prati,

ogni cosa muore nell'oscurità.

Ascolto alla finestra, il silenzio vuoto di fuori,

come quando l'orologio si ferma.


Allora sento delle voci chiamare,

come da un villaggio delle fate.

So che cercano me.

Buonanotte allora, a voi due, qui dentro,

ritornerò all'alba.


Così sono uscito nella notte, 

trascinato via misteriosamente -

che Dio abbia pietà di ogni padre e di ogni sposa

che hanno trovato la via del ritorno,

ma non sono mai tornati del tutto!


Knut Hamsun, Il coro selvaggio, traduzione di Luca Taglianetti


Knut Hamsun ha scritto alcuni dei libri che più ho amato nella mia giovinezza; è anche leggendo romanzi come Pan, Misteri o Fame che ho cominciato a sentire il contatto con la natura, con i boschi, con le montagne come una necessità vitale. Hamsun ha vinto il premio Nobel nel 1920 ed è considerato, dopo Ibsen, il più grande scrittore norvegese di tutti i tempi. Walter Benjamin in un suo saggio del 1929 lo considerava un maestro nell'arte di creare il personaggio dell' eroe sventurato, fuggitivo e vagabondo che si sottrae all'oppressiva disumanizzazione sociale per recuperare la freschezza di una natura non ancora  "fossilizzata dalla storia". Anche Thomas Mann lo stimava moltissimo per la sua capacità di essere, per così dire, l'incarnazione di quella ribellione vitale alla pianificazione borghese del mondo.  

Con grande curiosità mi sono avvicinato alla traduzione in Italiano delle sue liriche, pubblicate da Lindau con il titolo Il coro selvaggio. Luca Taglianetti, ha curato l'introduzione e la traduzione delle poesie, scegliendo di proporre quelle contenute nell'edizione del 1934, l'ultima a cui mise mano Hamsun. 

La poesia che leggete qui sopra contiene molti dei temi cari allo scrittore norvegese: su tutti il richiamo della natura selvaggia, una natura vivificata da un mistero inconoscibile e ineffabile, dotata di una sua propria volontà fascinatoria e pericolosa.

Nella prima strofa contempliamo la notte che incombe sui prati, tutto sembra morire nell'oscurità che avvolge ogni cosa. ovunque è silenzio. Ma delle voci - ci rivela l'io poetico - si odono, un lieve sussurro di fate. E' il mondo segreto e denso di magia di una natura misteriosa che qui si manifesta: esso affonda le sue radici nei gesti antichi del pastore o del contadino davanti ad una fonte, o nello sguardo del viandante che si posa sulla rugiada del mattino. Tutto è pieno di dèi dicevano del resto i sapienti prima di Socrate.  

Voci che giungono, come da un villaggio di fate. Non le comprende del tutto l'uomo, al riparo nella sua casa, ma sa che chiamano proprio lui. E il richiamo è tale che non può resistergli; alla logica delle parole forse si può fuggire, ma non al destino. Esce, allora, nella notte. Ma prima si volge ai suoi affetti per un augurio e una promessa: ritornerò all'alba. Quello che poi succede il poeta non lo dice, lo affida piuttosto ad una preghiera che invoca la pietas divina per coloro 

che hanno trovato la via del ritorno,

ma non sono mai tornati del tutto!

Sono tornati, certo. Ma qualcosa di loro è rimasto per sempre in quell'altrove che dimora là, poco più oltre gli alberi più fitti, perfetto, arcano, immemore.


domenica 31 dicembre 2023

Come spade in disordine




 Come spade in disordine

                                Omaggio minimo a Stéphane Mallarmé


Come spade in disordine 

la luce scorre sui campi.

Isole d'ombra svaniscono 

e tentano, invano di sopravvivere più lontano.

, di nuovo, le raggiunge il fulgore 

del Mezzogiorno che ordina le sue truppe 

e stabilisce i suoi domini.

L'uomo nulla sa di questi combattimenti silenziosi.

La sua vocazione di penombra, la sua abitudine all'oblio,

le sue usanze, infine, e le sue miserie, 

gli negano la gioia di questa festa imprevista 

che accade per disegno capriccioso 

da chi, dall'alto lancia dadi muti

la cui cifra mai conosceremo. 

I saggi, frattanto, predicano il conformismo.

Solo gli dèi sanno  che questa virtù incerta

è un altro vano tentativo di abolire la sorte.

                      Alvaro Mutis , Somma di Maqroll il gabbiere, Einaudi - traduzione di Fabio Rodriguez Amaya


Ed ecco la versione originale:


Como espadas en desorden

  la luz recorre los campos.

Islas de sombra se desvanecen

e intentan, en vano, sobrevivir más lejos.

  Allí, de nuevo, las alcanza el fulgor

del mediodía que ordena sus huestes

y establece sus dominios.

El hombre nada sabe de estos callados combates.

Su vocación de penumbra, su costumbre de olvido,

sus hábitos, en fin, y sus lacerias,

  le niegan el goce de esa fiesta imprevista

que sucede por caprichoso designio

de quienes, en lo alto, lanzan los mudos dados

cuya cifra jamás conoceremos.

Los sabios, entretanto, predican la conformidad.

Sólo los dioses saben que esta virtud incierta

es otro vano intento de abolir el azar.


Da poco è passato il solstizio d'inverno: il Sole lentamente comincia a riprendersi ciò che la Notte gli aveva sottratto. La luce ogni giorno ritorna a scorrere sui campi con lampi e bagliori che sembrano spade, sparse qua e là. Il fenomeno, consueto e misurabile, della vittoria quotidiana del Sole diventa nella poesia di Álvaro Mutis una battaglia nella quale si scontrano in silenzio truppe di opposti schieramenti: le ombre tentano invano di contrastare l'inevitabile dominio della luce del Mezzogiorno. Ma l'uomo non si accorge di questa quotidiana e silenziosa lotta, la vocazione alla comoda e rassicurante penombra e la consuetudine allo smemoramento gli ottundono i sensi più reconditi, quelli dello spirito. Smarrita dunque la gioia della festa improvvisa per la vittoria della luce, subentra l'appagamento nutrito di abitudine. C'è del resto uno strano paradosso nei versi che abbiamo appena letto: perché dovremmo festeggiare ciò che sappiamo accadrà inevitabilmente? Il sorgere del Sole non è forse un evento che la fisica è in grado di misurare con approssimazioni quasi nulle? Non sappiamo con certezza che domani l'alba si leverà a quella data ora? e che la Luna si mostrerà a quell'altra? Come può esserci una festa per ciò che accade ogni giorno? 

Il poeta a queste domande sembra rispondere nei versi successivi, dove per prima cosa si fa riferimento ad un disegno capriccioso, poi ad un lancio di dadi muti e infine al fatto che per noi è impossibile decifrare ciò che su quei dadi è iscritto. Sono tutte espressioni con cui la poesia - a mio avviso - ci invita a riconsiderare le nostre certezze, il nostro modo di vedere ciò che ci accade intorno. Presumiamo di sapere, quando invece siamo spettatori distratti di un mistero che ci sfugge, creduli seguaci di una saggezza rassicurante ed illusoria. Se a noi è preclusa una più profonda comprensione del senso della vita - ci avverte il poeta - gli dèi e solo loro hanno compreso che esta virtud incierta, questa fallace attitudine tutta umana, non è che un altro, vano tentativo di abolire il caso, la sua imprevedibile autorità. 

L'ultimo verso è una vera e propria citazione della celebre poesia di Mallarmé Un coup de dés n'abolira jamais le Hasard: qui si chiarisce  anche il significato della dedica al poeta simbolista posta all'inizio di Como espadas en desorden. Come nei versi di Mallarmè, anche nella poesia di Mutis, il lancio dei dadi disegna il perimetro di un'esperienza interiore in cui convivono la sete di assoluto e l'impossibilità di raggiungerlo, la tensione verso il raggiungimento di certezze incrollabili e la consapevolezza che la casualità è elemento essenziale della nostra esperienza.

I versi di Álvaro Mutis forse sono avari di parole rassicuranti e a prima vista possono sembrare cupi e disperati, ma non lo sono. Piuttosto indicano una possibilità fragile, l'avvio di una strada nascosta e difficile, poco segnata sulle mappe, un sentiero come quelli che piacciono a chi viaggia guidato da una stella tenue. Il primo passo lungo tale sentiero in realtà non è un passo, è lo sguardo con cui guarderemo domani il Sole a Mezzogiorno.






                  

giovedì 30 novembre 2023

storia di Lara, la dea Muta

Palazzo Massimo, Museo Nazionale Romano, Niobide ferita


Spesso al verificarsi di eventi tragici e sconvolgenti sentiamo la spinta a definire i caratteri di tali eventi sotto la specie della novità che sbalordisce, cerchiamo nel male che si manifesta accanto a noi le prove di una natura difforme, mostruosa, ma restiamo sgomenti quando questo male si fa prossimo, vicino, imprevedibile. In simili circostanze capita a volte che l'animo si volga ai racconti del mito, a quell'antica sapienza che da essi non smette di scaturire.
C'è una storia che ci giunge da Roma  e che mi è tornata in mente in questi ultimi giorni. A raccontarcela è un poeta latino, Ovidio, in un'opera che aveva scritto per riabilitarsi agli occhi di Augusto,  I Fasti. Ovidio aveva ragione di essere preoccupato, perché l'imperatore era decisamente irritato con lui per i versi leggeri, irriverenti, spesso licenziosi che era solito pubblicare in deciso contrasto con il programma culturale ufficiale. Con i Fasti il poeta intendeva probabilmente dare prova di poter sostenere, con un'opera seria, l'ambizioso programma di restaurazione morale voluto da Augusto. Quanto poi sia stata sincera l'adesione del poeta a tale programma e quanto adeguati gli strumenti espressivi in suo possesso è questione su cui la critica non ha cessato di confrontarsi. 

La storia della ninfa Lara prende avvio sullo sfondo più volte esplorato dai racconti tradizionali degli amori di Giove: il dio si è acceso di passione per la ninfa Giuturna, ma questa continua a sfuggirgli. Lui la insegue, le tende agguati, soffre umiliazioni non degne di un dio così grande, aggiunge Ovidio. Nulla sembra funzionare, troppo svelta ed agile si rivela la ninfa, allora il re degli dei convoca  tutte le ninfe che vivono nel Lazio e ordina loro di aiutarlo nella sua impresa. Spiega pure - a sua giustificazione - che, in cambio della grande voluttà da lui provata giacendo con Giuturna, questa avrebbe ottenuto grandi vantaggi. Magna voluptas per il dio, magna utilitas per la dea; non c'è che dire, uno scambio equo...

Tutte le Ninfe ascoltano i compiti che vengono loro assegnati, annuiscono. Ci si può forse opporre al volere del re degli dei? E' a questo punto che comincia la vicenda della ninfa Lara, sorella dunque di Giuturna e figlia di Almo (nume tutelare di uno degli affluenti del Tevere). Il nome Lara, ci spiega Ovidio, alluderebbe alla sua propensione a parlare invano, alle chiacchere incontrollate. Lara insomma non è una che riesce a stare zitta.

...Spesso Almo le aveva detto :

"Figlia, frena la lingua, ma lei non la frena.

E appena giunge al lago della sorella Giuturna,

"fuggi le rive" dice, e riferisce le parole di Giove.

Poi visita anche Giunone , e commiserando le spose, 

le dice: "Tuo marito ama la Naiade Giuturna".

La sequenza di questa azione non sembra del tutto coincidere con la caratteristica della femmina pettegola e troppo loquace. Non è per mancanza di autocontrollo che Lara rivela ciò che le era stato ordinato di tacere: la ninfa va in cerca della sorella con una evidente precipitazione, non altrimenti si spiega la congiunzione simul ac. Giuturna viene a conoscere i piani predatori di Giove non per una confidenza imprudente, ma grazie ad un atto voluto, che ha il colore della ribellione, o almeno a noi piace vederla così.

La reazione è feroce, crudele. 

Giove s'infuria, le strappa la lingua che lei

aveva usato senza moderazione, e chiama Mercurio;

"Conduci costei ai Mani - è luogo adatto ai silenziosi -;

ninfa, certo, ma sarà ninfa della palude inferna".

La punizione inflitta alla ninfa ribelle segue la legge del contrappasso, ma indica anche il destino futuro di Lara con un'aggiunta beffarda, sprezzante: la relegazione negli Inferi non priva la dea del suo rango, ma ne sancisce la sottomissione assoluta, giacché lei, privata della voce, abiterà un luogo adatto ai silenziosi. Ovidio a volte ci sorprende: il poeta della leggerezza elegante, dell'ironia distaccata, improvvisamente crea un'immagine di pura incandescenza espressiva, come questa della ninfa che si aggira nella palude infera, luogo adatto per chi non può parlare più. 

Gli ordini di Giove si compiono. Un bosco accoglie i viandanti:

si dice che allora il dio che la guidava si sia acceso di lei.

Le usa violenza, lei implora con lo sguardo invece

di parole, e cerca invano di parlare con le labbra mute.

La sventura di Lara si manifesta ora in modo completo, nulla di lei trova scampo, nulla le è risparmiato. Mercurio le usa violenza e di nuovo il poeta del disimpegno ci sorprende con i suoi versi, che si avvicinano, come di raro avviene nella letteratura antica, a mostrare l'orrore dello stupro: lo sguardo implora, l'espressione del volto chiede quella compassione che la sua lingua muta non può esprimere. L'ultima immagine è straziante, Lara cerca ancora scampo in parole che dalla sua bocca non possono uscire, l'animo pretende dal corpo quello che è impossibile, ma non può fare a meno di continuare a chiedere. Lo sguardo di Mercurio come non è stato capace di incontrare quello implorante di Lara così non si accorge nemmeno di quelle che parole che disperatamente provano a farsi voce. Invano.

Ed ecco  i versi originali di Ovidio

 forte fuit Nais, Lara nomine; prima sed illi
     dicta bis antiquum syllaba nomen erat,                               600
ex vitio positum. saepe illi dixerat Almo
     'nata, tene linguam': nec tamen illa tenet.
quae simul ac tetigit Iuturnae stagna sororis,
     'effuge' ait 'ripas', dicta refertque Iovis.
illa etiam Iunonem adiit, miserataque nuptas                          605
     'Naida Iuturnam vir tuus' inquit 'amat.'
Iuppiter intumuit, quaque est non usa modeste
     eripit huic linguam, Mercuriumque vocat:
'duc hanc ad manes: locus ille silentibus aptus.
     nympha, sed infernae nympha paludis erit.'                        610
iussa Iovis fiunt. accepit lucus euntes:
     dicitur illa duci tum placuisse deo.
vim parat hic, voltu pro verbis illa precatur,
     et frustra muto nititur ore loqui,
fitque gravis geminosque parit, qui compita servant               615
     et vigilant nostra semper in urbe Lares.

                            Ovidio, Fasti, II, vv.599-616

sabato 28 ottobre 2023

Come nelle tempeste fosse pace!

 


La vela


Biancheggia vela solitaria

Del mare nell'azzurra bruma ...

Cosa in lontana terra cerca?

Al paese natio cosa ha lasciato?


Fremono l'onde, il vento fischia

L'albero piega e geme ...

Ahimè ! felicità non cerca

E da felicità non viene!


Sott'essa il flutto più chiaro del cielo

Sopra, del sole d'oro il raggio ...

Ed essa inquieta chiede la tempesta,

Come nelle tempeste fosse pace !


                Michail Jur'evič Lermontov (traduzione di Tommaso Landolfi)


Una vela solitaria naviga sotto un cielo limpido, tracciando la sua misteriosa rotta su acque più limpide ancora. Non sappiamo cosa l'abbia spinta a mettersi per mare, di cosa vadano in cerca gli uomini che si affannano tra alberi, gomene e cime; nessuno di quelli che sono qui a terra ci sa dire cosa abbiano lasciato nel loro paese. La vela si gonfia, le onde fremono, mentre il mondo intorno sembra sereno, luminoso, rassicurante. Una bella giornata, fatta apposta - sembrerebbe - per stendere le gambe al sole e lasciarsi andare. 

Non così però è quella barca. Che non ha conosciuto molta felicità e neppure la cerca più. Inquietudine la spinge, inquietudine le dà forza e vigoria, cancellando rimpianti od abitudini. Chiede la tempesta e fugge il mare tranquillo, anela a correnti impetuose, disprezza gli approdi sicuri e va a caccia di passaggi perigliosi. Si illude forse che solo lì, dove tutto viene messo in gioco, solo nella sfida del vento di burrasca le cose riacquistino un loro ordine, un loro senso. Almeno per un po'...

Il poeta tuttavia conosce quel che al navigante ora sfugge. Il suo ultimo verso non è che un sospiro, pieno di partecipazione: Come nelle tempeste fosse pace!

sabato 30 settembre 2023

Se il sonno fosse...

 

Hypnos, il dio del sonno



Se il sonno fosse (c’è chi dice) una
tregua, un puro riposo della mente,
perché, se ti si desta bruscamente,
senti che t’han rubato una fortuna?

Perché è triste levarsi presto? L’ora
ci deruba d’un dono inconcepibile,
intimo al punto da esser traducibile
solo in sopore, che la veglia dora

di sogni, forse pallidi riflessi
interrotti dei tesori dell’ombra,
d’un mondo intemporale, senza nome,

che il giorno deforma nei suoi specchi.
Chi sarai questa notte nell’oscuro
sonno, dall’altra parte del tuo muro?



Il testo originale è così bello in spagnolo che merita di essere letto in originale:

Si el sueño fuera (como dicen) una
tregua, un puro reposo de la mente,
¿por qué, si te despiertan bruscamente,
sientes que te han robado una fortuna?

¿Por qué es tan triste madrugar? La hora
nos despoja de un don inconcebible,
tan íntimo que sólo es traducible
en un sopor que la vigilia dora

de sueños, que bien pueden ser reflejos
truncos de los tesoros de la sombra,
de un orbe intemporal que no se nombra

y que el día deforma en sus espejos.
¿Quién serás esta noche en el oscuro
sueño, del otro lado de su muro?


Nella poetica di Jorge Luis Borges alcuni temi ed immagini ricorrono con una frequenza significativa: l'orologio, lo specchio, l'ombra, il labirinto ed - appunto - il sueño che in spagnolo vuol dire al tempo stesso "sonno" e "sogno". A questo tema lo scrittore ha anche dedicato un piccolo studio, una storia generale dei sogni, che attinge ai suoi scritti e alle sue letture sterminate, da Plutarco a Mircea Eliade, passando da William Butler Yeats e l'epopea di Gilgamesh. Questo piccolo gioiello è stato pubblicato nella Piccola Biblioteca Adelphi con il titolo "Libro dei sogni", un'esperienza di lettura straordinaria, un viaggio tra i secoli, le civiltà più lontane e i luoghi più suggestivi.

La poesia di Borges prende avvio da un'ipotesi, da un interrogativo: se il sonno è solo una pausa, una tregua rispetto alla vita e alle sue faticose battaglie, come mai, se qualcuno ci sveglia in modo brusco, ci sembra di essere stati derubati di una misteriosa ricchezza, di un bene inestimabile, intimamente nostro.  

Il risveglio a cui allude il poeta  non è quello dell'ozioso, forzatamente sottratto alla sua inerzia, né quello del melanconico, prigioniero incatenato alle proprie angosce. E' piuttosto un'altra l'esperienza che è al centro delle immagini  evocate dai versi di Borges. Ciò si può cogliere alla fine della seconda quartina, lì dove si prova a descrivere il dono del quale siamo derubati. Questo dono sfugge innanzitutto ad ogni tentativo di rappresentazione razionale, è inconcepibile, nel senso che il pensiero non è capace di descriverne la natura. Siamo, al tempo stesso, consapevoli della straordinaria fortuna che nel sonno ci viene consegnata e del tutto incapaci di misurarne i caratteri o le forme. 
Un'altra qualità, tuttavia, il poeta intuisce come propria di tale dono: esso è talmente intimo - ovvero così connaturato alla profondità della nostra anima (in quel luogo dove abbiamo spesso difficoltà noi stessi a spingere lo sguardo) che le parole sono insufficienti, non bastano a tracciare una definizione. E se proprio volessimo dargli un nome - ci avverte Borges - potremmo usare la parola sopore, ma si tratterebbe pur sempre di un azzardo, di un maldestro tentativo, di un'approssimazione scivolosa. 

Non sembra proprio una  gran cosa questo dono ... non è forse il sopore uno stato di obnubilamento dei sensi? un ottenebramento della coscienza? In verità questa impressione immediata si svela subito fallace non appena leggiamo ciò che il sopore realizza, cioè ricoprire la materia umile e dimessa dello stato di veglia con il pregiato oro dei sogni. Siamo di fronte ad un ribaltamento deciso del normale sistema di valori secondo cui i sogni sono ombre evanescenti, mentre è sulla realtà del giorno che si possono costruire certezze affidabili. Al contrario i versi del poeta argentino ci spingono in una direzione diversa: sono i sogni - ciò che in essi si riesce a scorgere - ad essere la cosa più importante. Certo, non sono che pallidi riflessi di tesori più grandi, che abitano nell'ombra, in un mondo senza tempo e senza nome. E tuttavia ciò che nei sogni si riflette - forse in modo imperfetto - è ciò che più ci avvicina all'essenza stessa delle cose. Se questa non può che sfuggirci, non cesseremo di cercarla, seguendo quelle tracce labili e interrotte che intravediamo di tanto in tanto quando abbiamo gli occhi aperti.


domenica 13 agosto 2023

Fuge, tace, quiesce



Mentre il silenzio fasciava la terra

e la notte era a metà del suo corso,

tu sei disceso, o Verbo di Dio,

in solitudine e più alto silenzio.


La creazione ti grida in silenzio,

la profezia da sempre ti annuncia,

ma il mistero ha ora una voce,

al tuo vagito il silenzio è più fondo.


E pure noi facciamo silenzio,

più che parole il silenzio lo canti,

il cuore ascolti quest'unico Verbo

che ora parla con voce di uomo.


A te, Gesù, meraviglia del mondo,

Dio che vivi nel cuore dell'uomo,

Dio nascosto in carne mortale,

a te l'amore che canta in silenzio.


                            di David Maria Turoldo

L'estate può essere un periodo complicato: cerchiamo la tranquillità e sperimentiamo inquietudine, desideriamo compagnia eppure nei luoghi affollati siamo a disagio, ecco il rumore della musica, le chiacchere dei benpensanti che si mischiano con il vociare dei saccenti... 

Ho cominciato a scrivere queste note in un posto tranquillo ed ombroso, lungo la costa lucana; d'un tratto da un invisibile altoparlante suona una musica a me del tutto sconosciuta, le canzoni si susseguono uguali l'una all'altra, parlano di spacciatori, di macchine di lusso e di belle tipe, di pistole e di sbirri da cui scappare. Il ritmo è ossessivo, come un tamburo di orchi nell'oscurità. Per uno di quei casi che capitano a chi viaggia verso una stella tenue, cullato dal rap criminale, sprofondo nelle parole del libro di fronte a me. E da una citazione procedo ad un verso poetico, da quel verso giungo ad una Sura del Corano e da questa sura sono come trascinato alla storia del profeta Elia, il quale, per le minacce della moglie di Acab Jezebel, si inoltrò nel deserto e andò a sedersi sotto una ginestra, in preda allo sconforto. Ma proprio lì - nel deserto, nel silenzio, nella solitudine, nell'apparente sconfitta di tutti i suoi progetti -  fece l'esperienza più profonda della tenerezza di Dio, che si rivela a lui non nei tuoni e nei lampi e nei terremoti, ma come sussurro di una brezza leggera. Il rap dei gangster per un attimo mi fa andare fuori rotta, ma infine ecco l'approdo salutare alla poesia di David Maria Turoldo, quella riportata qui sopra, nella quale la parola silenzio ritorna per sette volte in sedici versi. I tamburi sono ormai un'eco lontana. Vi racconto dunque il mio vagabondaggio, voi mettetevi comodi. 

Il viaggio comincia nel IV secolo della nostra era, sugli avamposti della spiritualità contemplativa cristiana, al limite del deserto, tra l'Egitto e la Siria. Voltate le spalle alla civiltà, alle città ricche raffinate e colte del mediterraneo, eremiti e monaci scelgono di abitare l'inabitabile e dei loro eremi fanno il luogo per conoscere se stessi, anzi per divenire se stessi: lì "il temibile faccia a faccia con il proprio io reale (oltre i fantasmi del proprio narcisismo) può trasformarsi - secondo Adalberto Mainardi - nello strumento per una dilatazione della propria umanità. Certo, l'elogio della vita solitaria, trascorsa nel silenzio e nella ricerca interiore non è un'invenzione dei cristiani, percorre tratti importanti della filosofia della Grecia e dell'India; è tra gli ammonimenti dell'oracolo delfico, addirittura Filone di Alessandria, nel suo trattato sulla vita contemplativa, non si limita a farne l’elogio, ma arriva a dire che “la divina  Sapienza è amica del deserto (philéremos)”.

Abba Arsenio è uno di questi santi monaci, forse - da quanto capiamo - il meno adatto alla solitudine; dopo aver abbandonato gli sfarzi della corte imperiale, dove svolgeva la funzione di precettore dei figli dell’imperatore Teodosio, sceglie la strada del deserto, ma  si tratta di una scelta difficile, piena di ostacoli. Ad un certo punto lo vediamo nel pieno di un combattimento interiore, allora domanda a Dio di condurlo in una via in cui possa salvarsi. La risposta gli giunge attraverso una voce che dal cielo lo esorta: fuge, tace, quiesce !  Ovvero: fuggi, rimani in silenzio, riposa nel tuo cuore.

Il misterioso imperativo interiore udito da Abba Arsenio indica un rigoroso itinerario ad Deum, scandito da ostacoli ardui, da avversari ben identificabili. A partire dal primo, l'invito alla vita solitaria, probabilmente oggi il più difficile, se guardiamo allo stato di smarrimento del mondo moderno, nel quale segno inconfutabile di una vita pienamente realizzata è la socialità spontanea, l'essere connessi sempre, l'ampiezza della rete di contatti-conoscenze-ammiratori, ora anche digitali. Ciò che accade di importante è soprattutto ciò che può essere visto dagli altri, ciò che diciamo o facciamo presuppone un pubblico, pena l'assoluta irrilevanza. Fuge! invece impone l'ammonimento oltremondano: fuggi dalla folla, tieniti lontano dalla ressa, rimani in disparte dall'accorrere della moltitudine. Cerca piuttosto la solitudine interiore, tendi l'orecchio alla voce del cuore. La strada intrapresa da Arsenio ha avuto un enorme seguito nella storia della spiritualità occidentale ed indicazioni dello steso tenore si possono leggere ancora oggi negli statuti dell'ordine della Certosa, espressi con limpida grazia : "L'anima del monaco sia dunque nella solitudine come un lago tranquillo le cui acque, scaturendo dalla purissima fonte dello spirito e non essendo agitate dall’ascolto di nessun rumore venuto dall’esterno, riflettano, quale nitido specchio, la sola immagine di Cristo."

Il secondo invito ci appare anch'esso in assoluta controtendenza rispetto alla propensione diffusa nei nostri giorni per la quale siamo  di continuo incitati a prendere la parola, ad intervenire, a "dire la nostra",  a volte con una qualche trascuratezza rispetto alle competenze o alle nozioni specifiche che sarebbero necessarie. Si tratta di un fenomeno che ci coinvolge tutti e a cui assistiamo di continuo: la nostra civiltà sembra aborrire il silenzio, lo ha ridimensionato ad una forma di indecisione dell'animo; in modo simile la meditazione assorta si riduce a rinuncia e la disposizione ad ascoltare assume i tratti della condiscendenza. Mi sembra che abbiano ragione quegli studiosi, ad esempio Vito Mancuso, per i quali il timore moderno di fronte all'esperienza del silenzio ha a che fare con il fatto che esso ci ricorda da vicino il grande silenzio, quello estremo della morte. Il silenzio immette al cospetto del sacro e della morte.

Dal punto di vista della vita interiore il silenzio ha ovviamente un valore del tutto diverso, costituendo di questa esperienza la via privilegiata; tutte le scuole spirituali - induismo, buddhismo, sapienza greca, la via del deserto nel cristianesimo -  mostrano a tal riguardo la medesima consapevolezza. Pitagora imponeva cinque anni di silenzio a chi volesse essere accolto come suo discepolo, Isacco di Ninive scrive che il silenzio profondo introduce l’anima nel mondo spirituale, essendo il silenzio "mistero del mondo futuro e la lingua organo del mondo presente". La più alta virtù spirituale è individuata da Simone Weil nella προσοχή, nell'attenzione e per essere attenti occorre saper fare silenzio, innanzitutto dentro se stessi.

Il terzo comando ha la forza del vento boreale che sgombra le nubi dal cielo: quiesce! In prima battuta potremmo tradure semplicemente come "riposa!" o "resta nel riposo", ma - di nuovo - il significato del termine, nell'ordine spirituale, non potrebbe essere più lontano dalla moderna considerazione del riposo. In effetti è difficile credere che sia mai esistita una civiltà più della nostra ossessionata dalla necessità di riposare e al tempo stesso più incapace di sperimentare questo riposo; anche questa - credo - è esperienza comune: più si desidera il riposo e più questo pare sfuggire, più si cerca un tempo in cui vivere l'assenza di preoccupazioni e più queste ci stanno da presso. Sovente il riposo è rappresentato nelle nostre conversazioni con termini che evocano lo staccare la mente oppure la spina; il desiderio evocato con tale espressioni fa riferimento ad una macchina che ha bisogno di essere scollegata dalle ansie, dalle difficoltà, dalle ferite. Una specie di camera iperbarica ben arredata in cui vivere per qualche tempo in uno stato di sospensione dalla vita.

Se ora volgiamo lo sguardo alla voce salvifica che giunse a soccorso di Arsenio nella sua originale forma greca ci avviciniamo al senso profondo di tale ammonimento. Il verbo usato, all'imperativo, infatti deriva da  ἡσυχάζω, che ci rimanda al sostantivo esichia, cioè assenza di agitazione, pace, riposo, tranquillità: il termine esichia poi corrisponde al "silenzio di tutte le cose", all’abbandono di qualunque pensiero, anche dei concetti più divini. Il pensiero deve dunque cadere nel silenzio, deve essere superato, affinché si possa avere esperienza del divino. Si tratta di un vuoto nel quale si è totalmente aperti al divino, che così può comunicarsi in pienezza. Il comando imposto al nostro monaco presuppone dunque non l'oblio della mente, ma una disciplina dell'animo, la cura dell'attenzione (nel senso che Simone Weil ha dato a questo termine), la  fatica del cuore in un combattimento interiore contro le passioni che rendono invivibili le relazioni umane: invidia, superbia, arroganza, presunzione, ira. Occorre un paziente itinerario per rendere abitabile lo spazio interiore del cuore.

La via del silenzio è al centro anche della poesia di David Maria Turoldo. Nella prima strofa si trattiene quasi il respiro, non si sa per quale motivo accada, ma siamo convocati al cospetto di qualcosa d'importante. Lo intuiamo d'istinto: è una notte speciale nella quale tutto tace di un silenzio più alto, in una solitudine carica di un'attesa diversa dal solito. La seconda strofa comincia con un ossimoro di grande forza espressiva, La creazione ti grida in silenzio; nel verso risuonano diverse immagini bibliche, tra cui quella della Lettera ai Romani (8,22) in cui l'apostolo Paolo così esprime l'anelito alla salvezza che coinvolge tutto il creato nell'attesa della redenzione: sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Il cosmo è pervaso da una tensione fortissima perché anch'esso, al pari dell'uomo attende la propria liberazione. Che significato dunque possiamo attribuire al fatto che la creazione - nell'imminenza del compimento delle antiche profezie - gridi in silenzio al verbo di Dio? La ragione essenziale  -  a mio avviso - ha a che fare con le immagini della Lettera ai Romani ora richiamata: tutto il creato attende di essere sciolto dalle catene che lo tengono soggiogato tramite la paura della morte. La natura geme e soffre come al momento del parto, nel suo grido vi è il dolore della sofferenza e l'attesa per la liberazione e questo grido tuttavia è anche silenzio attonito, pieno di gratitudine di fronte al Mistero che sta per compiersi. C'è dunque il grido ma anche il respiro sospeso, uno stupore che toglie la parola. Cose in effetti che possono succedere solo nella poesia... La strofa prosegue ora con la congiunzione ma; il tempo dell'aspettare è alle spalle, il mistero adesso ha una voce per quanto fragile ed indifesa. E di nuovo la natura non ha una voce adatta ad esprimere quello che è accaduto. Un silenzio più fondo risponde al vagito del bambino.

Con la terza strofa lo sguardo si sposta dal piano 'cosmico' all'esperienza umana, me è bene osservare che tra i due piani non sussiste una differenza ontologica, anzi ciò che succede sul piano della creazione  accade - o può accadere, o è bene che accada - tra gli uomini: e pure noi facciamo silenzio. Così come accade alla natura che non può ricorrere ad alcuna forma di linguaggio per esprimere il miracolo dell'incredibile, ma con questo entra in relazione con un silenzio più fondo, allo stesso modo la via che la poesia ci propone è quella del silenzio: più che le parole il silenzio lo canti. Anche in quest'ultima espressione è opportuno vedere qualcosa di più di una semplice strategia retorica, piuttosto essa allude alla profonda esperienza spirituale di quanti scoprono che è soprattutto nel silenzio  che l'anima scopre l'essenziale. Scopre infatti che il luogo tanto anelato dell'incontro con Dio altro non è che l'intimità del proprio io interiore, poiché è nel cuore dell'uomo che Egli vive.