Una breve e necessaria avvertenza sul titolo della poesia: "Prospice" è una parola latina, un verbo al modo imperativo, vuol dire guarda di fronte a te. Robert Browning scrisse i versi che seguono poco tempo la morte di sua moglie Elisabeth.
|
Bassorilievo in marmo: Orfeo, Euridice ed Hermes, Museo Archeologico Nazionale di Napoli |
Prospice
Temer la morte? Sentire la nebbia
in gola, la bruma in viso,
alla prima neve, e quando le raffiche
segnalano che m'appresso al luogo,
al regno della notte, dove s'addensa la tempesta,
alla postazione del nemico;
dov'è il terrore in forma visibile
deve l'uomo coraggioso andare:
il viaggio è finito, la vetta conquistata,
le barriere cadono,
resta una battaglia prima del dono
che ricompensa ogni cosa.
Ho sempre lottato - un'altra battaglia
allora, l'ultima e suprema...
Mi ripugna che la morte mi bendi gli occhi pietosa
e mi faccia passare il varco strisciando.
No, fino in fondo, avanti coi miei pari,
gli eroi antichi, nella mischia,
a saldare in un minuto a una vita felice
i debiti di sofferenza gelo e tenebra:
all'improvviso le sorti della battaglia si rovesciano,
per gli audaci, vola il minuto oscuro,
e la furia della tempesta col delirio delle voci
infernali, sfuma confusa,
sofferenza fatta pace,
e poi una luce e il tuo petto,
anima dell'anima mia! Un abbraccio,
e il resto sia nelle mani di Dio.
di Robert Browing, traduzione di Angelo Righetti
ed ecco il testo nella sua versione originale:
Fear death?—to feel the fog in my throat,
The mist in my face,
When the snows begin, and the blasts denote
I am nearing the place,
The power of the night, the press of the storm,
The post of the foe;
Where he stands, the Arch Fear in a visible form,
Yet the strong man must go:
For the journey is done and the summit attained,
And the barriers fall,
Though a battle's to fight ere the guerdon be gained,
The reward of it all.
I was ever a fighter, so—one fight more,
The best and the last!
I would hate that death bandaged my eyes and forbore,
And bade me creep past.
No! let me taste the whole of it, fare like my peers
The heroes of old,
Bear the brunt, in a minute pay glad life's arrears
Of pain, darkness and cold.
For sudden the worst turns the best to the brave,
The black minute's at end,
And the elements' rage, the fiend-voices that rave,
Shall dwindle, shall blend,
Shall change, shall become first a peace out of pain,
Then a light, then thy breast,
O thou soul of my soul! I shall clasp thee again,
And with God be the rest!
La poesia che avete appena letto fu pubblicata nel 1864 nella raccolta Dramatis Personae in piena epoca vittoriana: a Londra da poco è stata inaugurata la nuova rete della metropolitana, da tempo le strade sono illuminate con il gas durante la notte, i successi della tecnologia si susseguono a ritmo sempre più serrato. Tali conquiste del progresso - quando le si osservi da lontano - appaiono grandiose, ma se lo sguardo si fa più prossimo, ecco l'altra faccia della medaglia: malattie, miseria e sfruttamento minorile. Anche la morte ovviamente non ha cessato di diffondere i suoi affanni o di scuotere la coscienza degli artisti.
La poesia di Robert Browning fa risuonare invece echi antichi. Attinge ad un patrimonio di immagini in cui vive la nobiltà della lontananza insieme alla nostalgia di un'antica grandezza d'animo, non del tutto perduta. Dai suoi contemporanei infatti il poeta non fu particolarmente apprezzato, nonostante il suo indubbio talento.
Nella lirica Prospice (che titolo meraviglioso per parlare della morte) Browning diventa un nuovo Orfeo: mentre si dirige verso i regni oscuri della morte, dal suo animo prorompono immagini potenti, come quando l'io lirico dice:
Sentire la nebbia / in gola, la bruma in viso
Avvicinarsi ai confini del regno della morte è entrare in uno spazio in cui il senso della vista è ostacolato, se non del tutto impedito; su quel confine infatti dominano la notte e la tempesta. Si tratta di un'immagine a cui spesso ricorrono i poemi omerici: si pensi ad esempio all'episodio in cui Circe ammonisce Odisseo affinché, una volta giunto alle soglie dell’Ade, compia i sacrifici previsti, senza mai guardare verso l’Erebo (Od. X 528-529). Alla stessa concezione va associato il passo in cui Esiodo nella Teogonia, dovendo descrivere i luoghi infernali, usa l'espressione Tartaro nebbioso (Teog. 119).
La strada deve essere percorsa senza esitazione, troppo grande è ciò che aspetta:
dov'è il terrore in forma visibile / deve l'uomo coraggioso andare...
Anche se ha combattuto molte battaglie nella sua vita, resta una battaglia prima del dono / che ricompensa ogni cosa. La moglie Elisabeth non è destinata a rimanere nelle spire oscure del Tartaro nebbioso, avvolta da oscurità e lamenti: c'è da combattere un'ultima battaglia non con le armi degli antichi guerrieri, ma con il loro stesso spirito. Una lotta tutta interiore, tutta vissuta nell'anima nuda davanti alla sventura
No, fino in fondo, avanti coi miei pari,
gli eroi antichi, nella mischia,
a saldare in un minuto a una vita felice
i debiti di sofferenza gelo e tenebra
L'apparenza terribile e vittoriosa della nemica si rivela ora nella sua vera natura:
e la furia della tempesta col delirio delle voci / infernali, sfuma confusa
La potenza della poesia, in tal modo, è in grado di sottrarre la preda ghermita dalla morte: ciò che è stato strappato ed imprigionato nell'oscurità è tratto alla luce: riesce al poeta di cogliere non solo il mero ricordo dell'amata moglie ma di afferrare una qualche intimità essenziale, un'unione di tipo nuovo e sublime
e il resto sia nelle mani di Dio