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domenica 5 aprile 2020

A che punto è la notte?




Gustav Dorè, Apparizione dello spettro di Banquo

La luce s'oscura, e il corvo
dirige il volo verso il bosco delle cornacchie;
le buone creature del giorno cominciano a vacillare e ad assopirsi
mentre i neri agenti della notte si destano per predare.
Tu ti stupisci alle mie parole: ma sta tranquilla:
le cose cominciate nel male traggono forza dal male.

                                                                                                                
Quando rivolge queste parole a sua moglie, Macbeth ha già preso la risoluzione di far uccidere il suo fidato compagno, il generale Banquo. Non è bastato uccidere a tradimento il sovrano legittimo, Duncan, suo cugino, un uomo onesto e generoso; viene quindi il turno dei testimoni del delitto e di coloro che lo sospettano. Poi i figli e gli amici, in una spirale di sangue che non si arresta di fronte a nulla, finché da ultimo  non viene ucciso lui stesso. 

Come ha notato Jan Kott in "Shakespeare nostro contemporaneo", nel Macbeth il sangue sommerge tutti, invade la scena; la storia è il rantolo dell'agonizzante, uno scintillio di spade, un colpo di pugnale. In questa prospettiva la trama si riduce ad un'unica essenziale distinzione: quelli che uccidono e quelli che sono uccisi. La scia di sangue che Macbeth lascia dietro di sé ha qualcosa dell'ossessione, dell'incubo da cui non è possibile risvegliarsi. La maggior parte delle scene, non a caso, si svolge di notte - è ancora Jan Knott a guidarci in questa rilettura della tragedia: "la notte è sempre presente, continuamente, insistentemente ricordata ed  invocata". Non c'è spazio per il sonno in questa notte, il delitto lo ha scacciato per sempre; solo rimane l'incubo, senza fine. 

La notte avvolge tutto: la notte che sta arrivando, come nei versi citati sopra, nei quali essa è oscuramento della luce; nel declinare del sole vacillano le buone creature, mentre si destano  i neri agenti della notte per inseguire e predare. Lo abbiamo visto: gli uomini si distinguono in quelli che sanno uccidere e quelli che esitano e vengono uccisi.  Qui la notte è desiderata, se non invocata per occultare gli assassini che già escono per dare la caccia a Banquo e a suo figlio. 

La notte che soffoca la luce del giorno. Anche quando il sole si muove nel cielo, tuttavia, è la notte a regnare. Proprio questo viene notato, dopo l'assassinio del re (siamo nell'atto II), da uno dei nobili di Scozia, Ross:

... per l'orologio è giorno,
e tuttavia l'oscura notte soffoca la mobile lampada.
E' per il predominio della notte, o per la vergogna del giorno
che l'oscurità seppellisce il viso della terra,
quando dovrebbe baciarla la luce viva?


Più volte, inoltre, i personaggi si domandano: a che punto è la notte? La prima volta è Banquo a chiederlo a suo figlio Fleance, quando il buon Duncan non è ancora caduto per mano di Macbeth. La luna è già tramontata e Banquo guardando il cielo soggiunge: 

... In cielo fanno economia,
hanno spento tutte le candele. 

Persino le stelle appaiono oscurate da questa notte che nessuno capisce quanto durerà...

La stessa domanda che Banquo fa a suo figlio la pone nel III atto Macbeth a sua moglie alla fine di una giornata di sangue. Il nuovo re, infatti, ha invitato i nobili di Scozia a festeggiare, con lui, ma l'atmosfera allegra del banchetto è subito spezzata: lo spettro di Banquo silenzioso compare davanti al re, si siede al suo posto, nessun altro pare vederlo. Macbeth è smarrito, pronuncia frasi senza senso, appare turbato, incapace di controllarsi. I nobili vengono invitati a congedarsi e sulla scena rimangono soli:  Lady Macbeth e suo marito. E' allora che la domanda risuona di nuovo nella bocca del nuovo re:

... a che punto è la notte?

Il senso di questa domanda, tuttavia, appare diverso dai precedenti. Vorrebbe Macbeth che l'alba non sorgesse mai e che la notte per davvero - non solo per via di metafora come nelle parole di Ross - estendesse il suo dominio a seppellire per sempre il viso della terra. La notte in cui sprofonda è sempre più fitta.

Macbeth non è solo una tragedia che disvela la forza distruttrice dell'ambizione e della brama di potere. Se fosse solo questo, molti - sentendosi al riparo da tali suggestioni - finirebbero per misurare con una certa serenità la propria distanza dalle passioni funeste del re assassino e della sua Lady. La vicenda di Macbeth ci riguarda molto più da vicino. Siamo noi Macbeth.

Secondo l'interpretazione di Jan Kott, Macbeth "si definisce per negazione": per se stesso egli è quello che non è, non è il re e non è e non sarà padre di una discendenza - ha avuto un figlio ma è morto. Né può aspettarsi che sua moglie ne generi degli altri, giacché questa, evocando gli Spiriti che presiedono a pensieri di morte, a loro domanda: toglietemi il sesso, rendete denso il mio sangue (alludendo qui all'interruzione del ciclo mestruale) e ancora, mutate il mio latte in fiele. Anche Lady, in un processo quasi simbiotico, desidera essere qualcos'altro: non vuole essere donna, o almeno non vuole quelle debolezze dentro di lei che ritiene incompatibili con il compito che si è data.

Macbeth non desidera le cose di Duncan, il suo castello, le sue terre, le sue qualità; anche lui, come sua moglie, desidera essere un altro, ciò che non può essere, dato che non può esservi un re senza discendenza. Ancor peggio - ed è la sua Lady a gettargli in faccia il rimprovero - non può illudersi di diventare re senza macchiarsi le mani di sangue innocente:

        ... non sei 
privo di ambizione, ma non vuoi
che il male la accompagni. Ciò che desideri
ardentemente, lo vorresti santamente.

Ciò che accende i desideri  di Macbeth è in verità non essere più Macbeth. Sceglie così di vivere i desideri di un Altro (soprattutto quelli della moglie) ma dopo ogni scelta si ritrova sempre più estraneo a se stesso e sempre più spaventoso.

Carl Gustav Jung a proposito di questo aspetto del desiderare ha scritto. "Troppi non vogliono sapere a che cosa anelano, perché ciò pare loro impossibile o troppo doloroso. Il desiderio è però la via della vita. Se non ammetti di fronte a te stesso il tuo desiderio, allora non seguirai te stesso ma strade estranee che altri hanno tracciato per te. Così non vivi la tua vita, ma una vita estranea. Ma chi altri deve vivere la tua vita, se non tu stesso? "

In questa strana Domenica delle Palme del 2020, in cui non ci sono processioni per le strade e le immagini di San Pietro vuota entrano nelle case e stringono il cuore, è di un'altra notte che vorrei parlare. Quella del Getsemani. A questa notte ha dedicato un piccolo, ma densissimo saggio Massimo Recalcati. Anche la notte del Getsemani è "una notte che non finisce mai": la caduta, la solitudine estrema e l'esperienza radicale dell'abbandono travolgono l'anima stessa di Cristo, prima che chiodi, percosse e spine facciano scempio del suo corpo.

Recalcati passa in rassegna il racconto dei Vangeli con la opportuna cautela di chi si accosti ad un testo da non specialista, non rinunciando al tempo stesso alla sua prospettiva di ricerca: è infatti uno psicanalista e non un biblista. Nella sua lettura del racconto del Getsemani si sofferma soprattutto su un punto che a noi sembra importante sottolineare: nelle ore buie di questa notte, nell'esperienza dell'abbandono assoluto che Cristo sperimenta, "non incontriamo solo il nostro dolore di uomini". Secondo Recalcati infatti, nella prostrazione di fronte al silenzio di Dio e al tradimento degli amici, Gesù - grazie alla preghiera  dialogo con il Padre - può trovare "un varco che gli consente di attraversare questa notte tremenda. Qui la lezione ultima del Getsemani incontra quella della psicoanalisi; "nelle parole con cui Gesù accetta che si compia la volontà del padre si realizza "la libera scelta di aderire al proprio destino, di scegliere [...] l'eredità che il Padre gli ha consegnato". A questo riguardo, nota ancora Recalcati, l'obbedienza di Gesù alla Legge (il progetto di salvezza del Padre per l'umanità) "coincide con l'obbedienza al proprio desiderio"; è grazie a questa svolta inaudita che Cristo può raggiungere una nuova versione della Legge (non più quella del sacrificio) ma "quella del dono di sé, dell'assumere la Legge del proprio desiderio".

Nelle notti interminabili di Dunsinane Macbeth ha cercato il nascondimento dei propri delitti, compiuti in nome di un desiderio che non è il suo, in quanto è desiderio di essere altro da sé, o al massimo desiderio di corrispondere alle ossessioni di un altro (il desiderio di sua moglie). Finisce così per scoprire che la vita è nulla:

La vita non è che un'ombra che cammina; un povero attore
che si pavoneggia e si agita per la sua ora sulla scena
e del quale poi non si ode più nulla: una storia
raccontata da un idiota, piena di rumore e furore,
che non significa nulla.

L'uomo del Gestsemani ci indica un'altra strada.


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