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martedì 29 settembre 2020

e le foglie roteavano sulle cicatrici della terra

 



Prova a cantare il mondo storpiato


Prova a cantare il mondo storpiato.

Ricorda di giugno le lunghe giornate

e le fragole, le gocce di vin rosé,

e le ortiche implacabili a coprire

le dimore lasciate dagli esuli.

Devi cantare questo mondo storpiato.

Hai visto navi e yacht eleganti

Alcuni dinanzi avevano un lungo viaggio,

ad attendere altri era solo il nulla salmastro.

Hai visto i profughi andare da nessuna parte,

hai sentito cantare di gioia i carnefici.

Dovresti cantare il mondo storpiato.

Ricorda quegli attimi in cui eravate insieme

e la tenda si mosse nella stanza bianca.

Torna col pensiero al concerto, quando esplose la musica.

D’autunno raccoglievi ghiande nel parco

e le foglie roteavano sulle cicatrici della terra.

Canta il mondo storpiato

e la penna grigia perduta dal tordo,

e la luce delicata che erra, svanisce

e ritorna.


di Adam ZAGAJEWSKI, traduzione di Valentina Parisi 

giovedì 24 settembre 2020

Canta come se nulla fosse

 



CHIEDO IL SILENZIO

... canta, lastimada mia

Cervantes


anche se è tardi, è notte,

e tu non puoi.


Canta come se nulla fosse.


Nulla è.


di Alejandra Pizarnik



Ritorno, con questa poesia sul tema del silenzio e della solitudine. Non il silenzio di chi abbia perduto interesse al mistero della condizione umana, né la solitudine di chi abbia smarrito il ricordo di canti attorno al fuoco o dell'abbraccio che accoglie sulla soglia di casa dopo lungo andare. 

E' un silenzio diverso che nella poesia di Alejandra Pizarnik si chiede. E' notte, un'ora tarda in cui tutti dormono o dovrebbero dormire. La stessa ora forse del passo del Don Chisciotte (seconda parte, capitolo XLIV) citato a margine del titolo: Emerenza invita l'amica Altisidora a cantare una serenata per il cavaliere della Mancia.  

"Canta, lastimada mía, en tono bajo y suave, al son de tu harpa" ...

"Canta, mia sventurata, in tono basso e dolce, al suono della tua arpa"...

Nel breve componimento della poetessa argentina tutto comincia dal titolo: "chiedo il silenzio". Bisogna che ogni suono si arresti e ogni voce taccia perché lei possa cominciare a parlare.

anche se è tardi, è notte,

e tu non puoi 

Lo fa con riserbo e delicatezza, sa che nulla può pretendere: lo so che è notte e che è tardi e che forse nemmeno è possibile, sembra voler dire, quasi a scusarsi. E poi questo verso sbalorditivo, forte come un grido disperato e nel profondo tuttavia simile ad una preghiera che sorpassa lo spazio ed il tempo:

Canta come se nulla fosse.


mercoledì 16 settembre 2020

una cosa di nessuno

 


        Largo


O lasciate lasciate che io sia 

una cosa di nessuno

per queste vecchie strade

in cui la sera affonda -


O lasciate lasciate ch'io mi perda

ombra nell'ombra -

gli occhi 

due coppe alzate

verso l'ultima luce -


E non chiedetemi - non chiedetemi

quello che voglio

e quello che sono

se per me nella folla è il vuoto

e nel vuoto l'arcana folla

dei miei fantasmi -

e non cercate - non cercate

quello ch'io cerco

se l'estremo pallore del cielo

m'illumina la porta di una chiesa

e mi sospinge ad entrare -


Non domandatemi se prego

e chi prego

e perché prego -


Io entro soltanto

per avere un po' di tregua

e una panca e il silenzio

in cui parlino le cose sorelle -


Poi ch'io sono una cosa -

una cosa di nessuno

che va per le vecchie vie del suo mondo -

gli occhi

due coppe alzate

verso l'ultima luce -


Milano, 18 ottobre 1930


di Antonia Pozzi

sabato 12 settembre 2020

ci solleva dall'arbitrio dei sogni

 


        C'è una certa ora ...

                                                                  (Tjutčev)


C'è una certa ora - come un peso buttato via:

quando in noi l'arroganza è domata.

Un'ora di apprendistato, in ogni esistenza

trionfalmente ineluttabile.


Un'alta ora, in cui, deposta l'arma

ai piedi di chi ci ha indicato - il Dito,

la porpora di guerriero con il pelo di cammello

scambiamo sulla sabbia del mare.


Oh, quell'ora, che all'impresa come una Voce

ci solleva dall'arbitrio dei giorni!

Oh quell'ora, in cui come spiga matura,

ci pieghiamo sotto il nostro peso.


E la spiga cresce e scocca l'ora della gioia,

e il grano brama la macina.

Legge! Legge! Già nell'utero della terra

giogo da me concupito.


Ora dell'apprendistato! Ma un'altra luce

ci si fa vedere e conoscere - appena accesa l'aurora.

Te benedetta, ora suprema della solitudine

che passo passo la segui!



15 aprile 1921


di Marina Cvetaeva


Sostiene Jorge Luis Borges che “qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà di un solo momento: quello in cui l’uomo sa per sempre chi è”. 

La poesia di Marina Cvetaeva parla proprio di questo, di quel momento, di quell'ora che è come un peso buttato via. Un grave fardello pesava su di noi, rallentava il passo: in quei giorni la mente sta ferma e il cuore si fa pesante. Ed ecco viene l'ora in cui questo peso, d'un tratto, è buttato via. Come è possibile? In un verso straordinario la poetessa russa cattura con esattezza il carattere speciale di questo tempo: quando in noi l'arroganza è domata. Ogni parola è qui scelta e disposta nel verso con nitidezza:  l'orgoglio (гордыню in russo vuol dire arroganza ed anche orgoglio) infatti è domato da una forza più grande, non è abbandonato con il distacco della raggiunta sapienza, ma vinto da sconfitte e delusioni, sottoposto alla ferrea legge dell'inevitabile. Non ha 'rinunciato' la Cvetaeva al suo orgoglio, come - forse - non possiamo rinunciarci noi. Piuttosto ne contempla la sconfitta.

Un'ora di apprendistato tuttavia è questa: l'io lirico dice di aver imparato qualcosa di importante, come un apprendista che ruba il mestiere all'artigiano suo maestro. Credeva di sapere  - nella sua/nostra arroganza - ha invece sperimentato - così come fa l'apprendista di una bottega - imparando ciò che non conosceva. 

Quest'ora è poi un'ora di trionfo, un'alta ora che ci solleva all'impresa dall'arbitrio dei giorni. Non è un'ora qualsiasi, un momento di un tempo, sempre uguale, senza volto. E' l'ora in cui ci appropriamo davvero del nostro destino; come il generale che celebra il trionfo tra i canti dei suoi soldati dirigendosi verso il tempio dove deporrà le armi del nemico vinto. 

Abbiamo qui la rappresentazione di due diversi movimenti: il primo indica la direzione che spinge all'impresa. La vita acquista sapore e significato nell'ora in cui scopriamo l'impresa a cui siamo destinati. Il secondo movimento rappresenta il distacco, il sollevarsi dall'arbitrio dei giorni ... Mi fermo un attimo, quasi senza fiato di fronte ad un verso meraviglioso, in cui brilla la ragione stessa del linguaggio poetico che, secondo Ezra Pound ,"è l'arte di caricare ogni parola del suo massimo significato". Profondissima intuizione, se di intuizione si tratta e non invece, come sembra, di ispirazione. L'ora del nostro apprendistato è l'ora che ci solleva, ci libera, potremmo anche dire, da una forza contraria che si oppone al nostro sollevarci e all'impresa che ci attende. Tale forza ha un nome, quello di arbitrio, che ben si adatta ad un imperio ferreo ed insensibile, incapace per natura di dare giustificazione delle sua azioni. L'arbitrio dei giorni è ciò che spesso viviamo: giorni si accumulano su giorni secondo un ordito la cui tessitura ci pare incomprensibile più che ingiusta. Al giorno della gioia succede quello della amarezza, a quello del morso dell'amore quello dello sguardo indifferente; il passo che ieri procedeva sicuro sulle creste ventose si muta d'un tratto nella esitante cautela. E' da tutto questo che l'ora dell'apprendistato ci solleva.

Oh quell'ora, in cui come spiga matura,

ci pieghiamo sotto il nostro peso

La stessa ora che solleva all'impresa è anche quella in cui, simili ad una spiga matura, ci pieghiamo sotto il nostro peso, forse l'ultimo passaggio del nostro apprendistato. Accogliere con gioia il destino che ci sottrae all'arbitrio del tempo, bramare la macina e l'ora dell'aurora che si accende. Un'altra luce ci si fa vedere e conoscere e possiamo benedire la suprema solitudine che ne segue il passo.