Cerca nel blog

domenica 28 febbraio 2021

Beata l'acqua





Beata l’acqua
Che non teme di cadere,
Ma seguendo il pendio
Sfugge a suo piacere.


Clemente Rebora, "Dieci poesie per una lucciola"


Dicono che le dieci poesie Rebora le abbia scritte per la pianista russa Lydia Natus, una donna colta e sensibile, l'unica che il poeta amò nella sua vita. Dicono che l'acqua che scorre in questa poesia sia una metafora dell'amore. 

E' vero, l'amore non può essere che questo: non temere di cadere, sfuggendo via a proprio piacere, in fedeltà solo alla propria natura.


domenica 14 febbraio 2021

come il fiore del Loto



Quando cade,

solo allora galleggia

il fiore del loto.

                                Yamamoto Yosaburō

                                                  Diciotto aprile del ventesimo anno Shōwa (1945)

Questa è la poesia dell'addio (o Jisei come dicono i Giapponesi) che scrisse il sottotenente Yamamoto prima di decollare con il suo aeroplano per il suo ultimo viaggio: un'azione suicida destinata a colpire un bombardiere B-29 nemico. Erano quelli i giorni in cui prendeva corpo l'ultimo disperato tentativo di difendere "la terra del sole", poche settimane prima che una strana luce cancellasse per sempre la città di Hiroshima. Quei giovani aviatori passeranno alla storia come Kamikaze.
 Il Jisei in questione è citato nella preziosa raccolta curata da Ornella Civarda per la casa editrice SE, di cui ho già avuto modo di parlare su questo blog. Chi oggi si recasse nel giardino del tempio buddista di Renjōji, poco lontano da dove decollò il giovane Yamamotō, lo troverebbe scolpito sulla pietra del monumento alla pace che lì è stato eretto dopo la guerra.

Se vogliamo provare ad avvicinarci all'ispirazione profonda di questa poesia, non possiamo partire che dal fiore del Loto, a cui è connessa, nella cultura orientale, una vasta rete di significati simbolici, iconografici e spirituali: solo a titolo di esempio, si può citare il fatto che uno dei testi fondativi del buddismo è conosciuto come Sutra del Loto. 

Il Loto è una pianta acquatica meravigliosa, le foglie possono raggiungere un metro di diametro; galleggia in stagni e pozze d'acqua mentre le sue radici  prendono nutrimento dal fango melmoso in cui affondano.  Bellissimo sulla superficie di uno stagno, il fiore è inseparabile tuttavia dall'opacità delle acque sottostanti e dall'impurità della terra umida dalla quale trae vita. Il Loto è in questo senso immagine dell'Illuminazione: siamo radicati nel fango, ovvero nella catena delle aspettative e dei desideri sempre insoddisfatti, nella prigione dell'attaccamento che rende tutto oscuro. Ma possiamo anche diventare il fiore bellissimo che galleggia sulle acque senza esserne macchiato: i piedi sono piantati nel fango, la purezza dei colori galleggia sulle acque.

In questa struggente poesia del commiato, scritta in un mattino di aprile nell'imminenza di un volo senza ritorno, il fiorire del Loto, il suo galleggiare sulle acque stagnanti e torbide, e quindi il dischiudersi della vista che diviene limpida, libera da ogni inganno, è associato al cadere. E' probabile che il giovane Yamamoto avesse in mente il tempo in cui cadono i fiori di ciliegio, che da sempre in Giappone ha un profondo significato simbolico ed è vissuto intensamente, come una festa piena di malinconica gratitudine. Ciò che è bello - infatti - è destinato a cadere, a trascorrere velocemente, ma la bellezza che ci circonda è pur sempre attorno a noi e il suo trapassare può essere ancora vissuto con una commossa partecipazione che non indulge all'illusione. 

C'è un paradosso straordinario e potente in questa immagine: un fiore dalla bellezza inebriante diventa ciò che è per il fatto di allungare le sue radici attraverso acque putride ed opache e agganciarle nel fango e nella melma. 

Non posso fare a meno di pensare, tuttavia, che il nostro pilota poeta abbia voluto in questi versi dare espressione ad un altro cadere, più prossimo e drammatico per lui: quello del suo aeroplano, in mezzo alle nubi e alle esplosioni, mentre vola verso il suo obiettivo. Cadere dunque, per fiorire, precipitare tra il fuoco per galleggiare, sulle acque stagnanti dell'inazione e della rassegnazione. E il sorriso del risveglio che distende lo sguardo nella contemplazione del trascorrere del tutto.





lunedì 8 febbraio 2021

per coloro che vegliano la miniera del tempo

 



Città


Un pianto,

un pianto di donna

interminabile,

acquietato,

quasi tranquillo.

Nella notte, un pianto di donna mi ha svegliato.

Prima un rumore di una serratura,

dopo piedi che vacillano,

e poi, all'improvviso, il pianto.

Sospiri intermittenti

come scrosci di un’acqua interiore,

densa,

imperiosa,

inesauribile,

come una chiusa che accumula e libera le sue acque

o come un'elica segreta

che ferma e riprende il suo lavoro

travasando il bianco tempo della notte.

Tutta la città è andata riempiendosi di questo pianto,

fino ai retri dove si accumulano le immondizie,

sotto le cupole degli ospedali,

sulle terrazze dell’estate,

nelle celle discrete  della prostituzione,

tra i fogli che scivolano lungo viali solitari,

con il vapore tiepido di certe cucine militari,

tra le medaglie che riposano nei cofanetti di teck,

un pianto di donna che ha pianto lungamente

nella stanza a fianco,

per tutti quelli che scavano la propria tomba nel sonno,

per coloro che vegliano la miniera del tempo,

per me che lo ascolto

senza conoscere altro

che il suo fragile rotolare all’intemperie

inseguendo le tacite sabbie dell’alba.


            di Álvaro Mutis, traduzione di Fabio Rodriguez Amaya


Nella notte, da una stanza chiusa a chiave si alza il pianto di una donna. Sembra non finire mai, poi si acquieta, diventa quasi tranquillo, riprende, denso, inesauribile. Come una diga che riversa le sue acque, tutte. La città lentamente si riempie di questo pianto, fino ai luoghi dove non tutti vanno, dove non si spinge lo sguardo volentieri. Si alza tra le cartacce di un viale solitario, oltre le stanzette dove le monete comprano l'illusione della passione, tra le medaglie concesse per antiche imprese. 

Non è solo per sé che piange questa donna eppure il suo pianto è come l'orazione di un'anacoreta che sfregia il silenzio del deserto. Il pianto della donna è per molti, ma solo un uomo sembra ascoltare. Si tratta di un personaggio conosciuto, il marinaio Maqroll, il Gabbiere, l'io poetico a cui Mutis ha affidato il compito di cantare le sue storie. E Maqroll è sveglio, ascolta il pianto che ora si arresta ora fluisce inarrestabile. Non sa nulla, se non  il suo fragile rotolare. Strano movimento questo del rotolare, non dipende dai muscoli, né dal senso di orientamento, ma dalla gravità e dalla inclinazione della terra. Basta un sussulto e si comincia a girare su se stessi,  nemmeno serve volerlo. Un rotolare fragile sembra una attività pericolosa; certo una cosa fragile che rotola andrà facilmente in frantumi, gli urti lasceranno cicatrici e  toglieranno via qualche pezzo. 

Nei versi finali di questa poesia i sensi vengono imprigionati da suoni e colori ora apollinei ora dionisiaci (secondo la bella espressione di Fabio Rodriguez Amaya), immagini di vita e di morte si confondono procedendo lungo traiettorie misteriose . Siamo di fronte all'epifania di un oracolo, nell'ora dell'estremo pericolo. Ma non abbiamo la vista sufficientemente aguzza, i sillogismi si arrestano impotenti sulle labbra.

Resta - e non è poco - il destino di ascoltare quel pianto. Forse è tutto quello che fa ancora la differenza: vegliare ed ascoltare.