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domenica 31 dicembre 2023

Come spade in disordine




 Come spade in disordine

                                Omaggio minimo a Stéphane Mallarmé


Come spade in disordine 

la luce scorre sui campi.

Isole d'ombra svaniscono 

e tentano, invano di sopravvivere più lontano.

, di nuovo, le raggiunge il fulgore 

del Mezzogiorno che ordina le sue truppe 

e stabilisce i suoi domini.

L'uomo nulla sa di questi combattimenti silenziosi.

La sua vocazione di penombra, la sua abitudine all'oblio,

le sue usanze, infine, e le sue miserie, 

gli negano la gioia di questa festa imprevista 

che accade per disegno capriccioso 

da chi, dall'alto lancia dadi muti

la cui cifra mai conosceremo. 

I saggi, frattanto, predicano il conformismo.

Solo gli dèi sanno  che questa virtù incerta

è un altro vano tentativo di abolire la sorte.

                      Alvaro Mutis , Somma di Maqroll il gabbiere, Einaudi - traduzione di Fabio Rodriguez Amaya


Ed ecco la versione originale:


Como espadas en desorden

  la luz recorre los campos.

Islas de sombra se desvanecen

e intentan, en vano, sobrevivir más lejos.

  Allí, de nuevo, las alcanza el fulgor

del mediodía que ordena sus huestes

y establece sus dominios.

El hombre nada sabe de estos callados combates.

Su vocación de penumbra, su costumbre de olvido,

sus hábitos, en fin, y sus lacerias,

  le niegan el goce de esa fiesta imprevista

que sucede por caprichoso designio

de quienes, en lo alto, lanzan los mudos dados

cuya cifra jamás conoceremos.

Los sabios, entretanto, predican la conformidad.

Sólo los dioses saben que esta virtud incierta

es otro vano intento de abolir el azar.


Da poco è passato il solstizio d'inverno: il Sole lentamente comincia a riprendersi ciò che la Notte gli aveva sottratto. La luce ogni giorno ritorna a scorrere sui campi con lampi e bagliori che sembrano spade, sparse qua e là. Il fenomeno, consueto e misurabile, della vittoria quotidiana del Sole diventa nella poesia di Álvaro Mutis una battaglia nella quale si scontrano in silenzio truppe di opposti schieramenti: le ombre tentano invano di contrastare l'inevitabile dominio della luce del Mezzogiorno. Ma l'uomo non si accorge di questa quotidiana e silenziosa lotta, la vocazione alla comoda e rassicurante penombra e la consuetudine allo smemoramento gli ottundono i sensi più reconditi, quelli dello spirito. Smarrita dunque la gioia della festa improvvisa per la vittoria della luce, subentra l'appagamento nutrito di abitudine. C'è del resto uno strano paradosso nei versi che abbiamo appena letto: perché dovremmo festeggiare ciò che sappiamo accadrà inevitabilmente? Il sorgere del Sole non è forse un evento che la fisica è in grado di misurare con approssimazioni quasi nulle? Non sappiamo con certezza che domani l'alba si leverà a quella data ora? e che la Luna si mostrerà a quell'altra? Come può esserci una festa per ciò che accade ogni giorno? 

Il poeta a queste domande sembra rispondere nei versi successivi, dove per prima cosa si fa riferimento ad un disegno capriccioso, poi ad un lancio di dadi muti e infine al fatto che per noi è impossibile decifrare ciò che su quei dadi è iscritto. Sono tutte espressioni con cui la poesia - a mio avviso - ci invita a riconsiderare le nostre certezze, il nostro modo di vedere ciò che ci accade intorno. Presumiamo di sapere, quando invece siamo spettatori distratti di un mistero che ci sfugge, creduli seguaci di una saggezza rassicurante ed illusoria. Se a noi è preclusa una più profonda comprensione del senso della vita - ci avverte il poeta - gli dèi e solo loro hanno compreso che esta virtud incierta, questa fallace attitudine tutta umana, non è che un altro, vano tentativo di abolire il caso, la sua imprevedibile autorità. 

L'ultimo verso è una vera e propria citazione della celebre poesia di Mallarmé Un coup de dés n'abolira jamais le Hasard: qui si chiarisce  anche il significato della dedica al poeta simbolista posta all'inizio di Como espadas en desorden. Come nei versi di Mallarmè, anche nella poesia di Mutis, il lancio dei dadi disegna il perimetro di un'esperienza interiore in cui convivono la sete di assoluto e l'impossibilità di raggiungerlo, la tensione verso il raggiungimento di certezze incrollabili e la consapevolezza che la casualità è elemento essenziale della nostra esperienza.

I versi di Álvaro Mutis forse sono avari di parole rassicuranti e a prima vista possono sembrare cupi e disperati, ma non lo sono. Piuttosto indicano una possibilità fragile, l'avvio di una strada nascosta e difficile, poco segnata sulle mappe, un sentiero come quelli che piacciono a chi viaggia guidato da una stella tenue. Il primo passo lungo tale sentiero in realtà non è un passo, è lo sguardo con cui guarderemo domani il Sole a Mezzogiorno.






                  

giovedì 30 novembre 2023

storia di Lara, la dea Muta

Palazzo Massimo, Museo Nazionale Romano, Niobide ferita


Spesso al verificarsi di eventi tragici e sconvolgenti sentiamo la spinta a definire i caratteri di tali eventi sotto la specie della novità che sbalordisce, cerchiamo nel male che si manifesta accanto a noi le prove di una natura difforme, mostruosa, ma restiamo sgomenti quando questo male si fa prossimo, vicino, imprevedibile. In simili circostanze capita a volte che l'animo si volga ai racconti del mito, a quell'antica sapienza che da essi non smette di scaturire.
C'è una storia che ci giunge da Roma  e che mi è tornata in mente in questi ultimi giorni. A raccontarcela è un poeta latino, Ovidio, in un'opera che aveva scritto per riabilitarsi agli occhi di Augusto,  I Fasti. Ovidio aveva ragione di essere preoccupato, perché l'imperatore era decisamente irritato con lui per i versi leggeri, irriverenti, spesso licenziosi che era solito pubblicare in deciso contrasto con il programma culturale ufficiale. Con i Fasti il poeta intendeva probabilmente dare prova di poter sostenere, con un'opera seria, l'ambizioso programma di restaurazione morale voluto da Augusto. Quanto poi sia stata sincera l'adesione del poeta a tale programma e quanto adeguati gli strumenti espressivi in suo possesso è questione su cui la critica non ha cessato di confrontarsi. 

La storia della ninfa Lara prende avvio sullo sfondo più volte esplorato dai racconti tradizionali degli amori di Giove: il dio si è acceso di passione per la ninfa Giuturna, ma questa continua a sfuggirgli. Lui la insegue, le tende agguati, soffre umiliazioni non degne di un dio così grande, aggiunge Ovidio. Nulla sembra funzionare, troppo svelta ed agile si rivela la ninfa, allora il re degli dei convoca  tutte le ninfe che vivono nel Lazio e ordina loro di aiutarlo nella sua impresa. Spiega pure - a sua giustificazione - che, in cambio della grande voluttà da lui provata giacendo con Giuturna, questa avrebbe ottenuto grandi vantaggi. Magna voluptas per il dio, magna utilitas per la dea; non c'è che dire, uno scambio equo...

Tutte le Ninfe ascoltano i compiti che vengono loro assegnati, annuiscono. Ci si può forse opporre al volere del re degli dei? E' a questo punto che comincia la vicenda della ninfa Lara, sorella dunque di Giuturna e figlia di Almo (nume tutelare di uno degli affluenti del Tevere). Il nome Lara, ci spiega Ovidio, alluderebbe alla sua propensione a parlare invano, alle chiacchere incontrollate. Lara insomma non è una che riesce a stare zitta.

...Spesso Almo le aveva detto :

"Figlia, frena la lingua, ma lei non la frena.

E appena giunge al lago della sorella Giuturna,

"fuggi le rive" dice, e riferisce le parole di Giove.

Poi visita anche Giunone , e commiserando le spose, 

le dice: "Tuo marito ama la Naiade Giuturna".

La sequenza di questa azione non sembra del tutto coincidere con la caratteristica della femmina pettegola e troppo loquace. Non è per mancanza di autocontrollo che Lara rivela ciò che le era stato ordinato di tacere: la ninfa va in cerca della sorella con una evidente precipitazione, non altrimenti si spiega la congiunzione simul ac. Giuturna viene a conoscere i piani predatori di Giove non per una confidenza imprudente, ma grazie ad un atto voluto, che ha il colore della ribellione, o almeno a noi piace vederla così.

La reazione è feroce, crudele. 

Giove s'infuria, le strappa la lingua che lei

aveva usato senza moderazione, e chiama Mercurio;

"Conduci costei ai Mani - è luogo adatto ai silenziosi -;

ninfa, certo, ma sarà ninfa della palude inferna".

La punizione inflitta alla ninfa ribelle segue la legge del contrappasso, ma indica anche il destino futuro di Lara con un'aggiunta beffarda, sprezzante: la relegazione negli Inferi non priva la dea del suo rango, ma ne sancisce la sottomissione assoluta, giacché lei, privata della voce, abiterà un luogo adatto ai silenziosi. Ovidio a volte ci sorprende: il poeta della leggerezza elegante, dell'ironia distaccata, improvvisamente crea un'immagine di pura incandescenza espressiva, come questa della ninfa che si aggira nella palude infera, luogo adatto per chi non può parlare più. 

Gli ordini di Giove si compiono. Un bosco accoglie i viandanti:

si dice che allora il dio che la guidava si sia acceso di lei.

Le usa violenza, lei implora con lo sguardo invece

di parole, e cerca invano di parlare con le labbra mute.

La sventura di Lara si manifesta ora in modo completo, nulla di lei trova scampo, nulla le è risparmiato. Mercurio le usa violenza e di nuovo il poeta del disimpegno ci sorprende con i suoi versi, che si avvicinano, come di raro avviene nella letteratura antica, a mostrare l'orrore dello stupro: lo sguardo implora, l'espressione del volto chiede quella compassione che la sua lingua muta non può esprimere. L'ultima immagine è straziante, Lara cerca ancora scampo in parole che dalla sua bocca non possono uscire, l'animo pretende dal corpo quello che è impossibile, ma non può fare a meno di continuare a chiedere. Lo sguardo di Mercurio come non è stato capace di incontrare quello implorante di Lara così non si accorge nemmeno di quelle che parole che disperatamente provano a farsi voce. Invano.

Ed ecco  i versi originali di Ovidio

 forte fuit Nais, Lara nomine; prima sed illi
     dicta bis antiquum syllaba nomen erat,                               600
ex vitio positum. saepe illi dixerat Almo
     'nata, tene linguam': nec tamen illa tenet.
quae simul ac tetigit Iuturnae stagna sororis,
     'effuge' ait 'ripas', dicta refertque Iovis.
illa etiam Iunonem adiit, miserataque nuptas                          605
     'Naida Iuturnam vir tuus' inquit 'amat.'
Iuppiter intumuit, quaque est non usa modeste
     eripit huic linguam, Mercuriumque vocat:
'duc hanc ad manes: locus ille silentibus aptus.
     nympha, sed infernae nympha paludis erit.'                        610
iussa Iovis fiunt. accepit lucus euntes:
     dicitur illa duci tum placuisse deo.
vim parat hic, voltu pro verbis illa precatur,
     et frustra muto nititur ore loqui,
fitque gravis geminosque parit, qui compita servant               615
     et vigilant nostra semper in urbe Lares.

                            Ovidio, Fasti, II, vv.599-616

sabato 28 ottobre 2023

Come nelle tempeste fosse pace!

 


La vela


Biancheggia vela solitaria

Del mare nell'azzurra bruma ...

Cosa in lontana terra cerca?

Al paese natio cosa ha lasciato?


Fremono l'onde, il vento fischia

L'albero piega e geme ...

Ahimè ! felicità non cerca

E da felicità non viene!


Sott'essa il flutto più chiaro del cielo

Sopra, del sole d'oro il raggio ...

Ed essa inquieta chiede la tempesta,

Come nelle tempeste fosse pace !


                Michail Jur'evič Lermontov (traduzione di Tommaso Landolfi)


Una vela solitaria naviga sotto un cielo limpido, tracciando la sua misteriosa rotta su acque più limpide ancora. Non sappiamo cosa l'abbia spinta a mettersi per mare, di cosa vadano in cerca gli uomini che si affannano tra alberi, gomene e cime; nessuno di quelli che sono qui a terra ci sa dire cosa abbiano lasciato nel loro paese. La vela si gonfia, le onde fremono, mentre il mondo intorno sembra sereno, luminoso, rassicurante. Una bella giornata, fatta apposta - sembrerebbe - per stendere le gambe al sole e lasciarsi andare. 

Non così però è quella barca. Che non ha conosciuto molta felicità e neppure la cerca più. Inquietudine la spinge, inquietudine le dà forza e vigoria, cancellando rimpianti od abitudini. Chiede la tempesta e fugge il mare tranquillo, anela a correnti impetuose, disprezza gli approdi sicuri e va a caccia di passaggi perigliosi. Si illude forse che solo lì, dove tutto viene messo in gioco, solo nella sfida del vento di burrasca le cose riacquistino un loro ordine, un loro senso. Almeno per un po'...

Il poeta tuttavia conosce quel che al navigante ora sfugge. Il suo ultimo verso non è che un sospiro, pieno di partecipazione: Come nelle tempeste fosse pace!

sabato 30 settembre 2023

Se il sonno fosse...

 

Hypnos, il dio del sonno



Se il sonno fosse (c’è chi dice) una
tregua, un puro riposo della mente,
perché, se ti si desta bruscamente,
senti che t’han rubato una fortuna?

Perché è triste levarsi presto? L’ora
ci deruba d’un dono inconcepibile,
intimo al punto da esser traducibile
solo in sopore, che la veglia dora

di sogni, forse pallidi riflessi
interrotti dei tesori dell’ombra,
d’un mondo intemporale, senza nome,

che il giorno deforma nei suoi specchi.
Chi sarai questa notte nell’oscuro
sonno, dall’altra parte del tuo muro?



Il testo originale è così bello in spagnolo che merita di essere letto in originale:

Si el sueño fuera (como dicen) una
tregua, un puro reposo de la mente,
¿por qué, si te despiertan bruscamente,
sientes que te han robado una fortuna?

¿Por qué es tan triste madrugar? La hora
nos despoja de un don inconcebible,
tan íntimo que sólo es traducible
en un sopor que la vigilia dora

de sueños, que bien pueden ser reflejos
truncos de los tesoros de la sombra,
de un orbe intemporal que no se nombra

y que el día deforma en sus espejos.
¿Quién serás esta noche en el oscuro
sueño, del otro lado de su muro?


Nella poetica di Jorge Luis Borges alcuni temi ed immagini ricorrono con una frequenza significativa: l'orologio, lo specchio, l'ombra, il labirinto ed - appunto - il sueño che in spagnolo vuol dire al tempo stesso "sonno" e "sogno". A questo tema lo scrittore ha anche dedicato un piccolo studio, una storia generale dei sogni, che attinge ai suoi scritti e alle sue letture sterminate, da Plutarco a Mircea Eliade, passando da William Butler Yeats e l'epopea di Gilgamesh. Questo piccolo gioiello è stato pubblicato nella Piccola Biblioteca Adelphi con il titolo "Libro dei sogni", un'esperienza di lettura straordinaria, un viaggio tra i secoli, le civiltà più lontane e i luoghi più suggestivi.

La poesia di Borges prende avvio da un'ipotesi, da un interrogativo: se il sonno è solo una pausa, una tregua rispetto alla vita e alle sue faticose battaglie, come mai, se qualcuno ci sveglia in modo brusco, ci sembra di essere stati derubati di una misteriosa ricchezza, di un bene inestimabile, intimamente nostro.  

Il risveglio a cui allude il poeta  non è quello dell'ozioso, forzatamente sottratto alla sua inerzia, né quello del melanconico, prigioniero incatenato alle proprie angosce. E' piuttosto un'altra l'esperienza che è al centro delle immagini  evocate dai versi di Borges. Ciò si può cogliere alla fine della seconda quartina, lì dove si prova a descrivere il dono del quale siamo derubati. Questo dono sfugge innanzitutto ad ogni tentativo di rappresentazione razionale, è inconcepibile, nel senso che il pensiero non è capace di descriverne la natura. Siamo, al tempo stesso, consapevoli della straordinaria fortuna che nel sonno ci viene consegnata e del tutto incapaci di misurarne i caratteri o le forme. 
Un'altra qualità, tuttavia, il poeta intuisce come propria di tale dono: esso è talmente intimo - ovvero così connaturato alla profondità della nostra anima (in quel luogo dove abbiamo spesso difficoltà noi stessi a spingere lo sguardo) che le parole sono insufficienti, non bastano a tracciare una definizione. E se proprio volessimo dargli un nome - ci avverte Borges - potremmo usare la parola sopore, ma si tratterebbe pur sempre di un azzardo, di un maldestro tentativo, di un'approssimazione scivolosa. 

Non sembra proprio una  gran cosa questo dono ... non è forse il sopore uno stato di obnubilamento dei sensi? un ottenebramento della coscienza? In verità questa impressione immediata si svela subito fallace non appena leggiamo ciò che il sopore realizza, cioè ricoprire la materia umile e dimessa dello stato di veglia con il pregiato oro dei sogni. Siamo di fronte ad un ribaltamento deciso del normale sistema di valori secondo cui i sogni sono ombre evanescenti, mentre è sulla realtà del giorno che si possono costruire certezze affidabili. Al contrario i versi del poeta argentino ci spingono in una direzione diversa: sono i sogni - ciò che in essi si riesce a scorgere - ad essere la cosa più importante. Certo, non sono che pallidi riflessi di tesori più grandi, che abitano nell'ombra, in un mondo senza tempo e senza nome. E tuttavia ciò che nei sogni si riflette - forse in modo imperfetto - è ciò che più ci avvicina all'essenza stessa delle cose. Se questa non può che sfuggirci, non cesseremo di cercarla, seguendo quelle tracce labili e interrotte che intravediamo di tanto in tanto quando abbiamo gli occhi aperti.


domenica 13 agosto 2023

Fuge, tace, quiesce



Mentre il silenzio fasciava la terra

e la notte era a metà del suo corso,

tu sei disceso, o Verbo di Dio,

in solitudine e più alto silenzio.


La creazione ti grida in silenzio,

la profezia da sempre ti annuncia,

ma il mistero ha ora una voce,

al tuo vagito il silenzio è più fondo.


E pure noi facciamo silenzio,

più che parole il silenzio lo canti,

il cuore ascolti quest'unico Verbo

che ora parla con voce di uomo.


A te, Gesù, meraviglia del mondo,

Dio che vivi nel cuore dell'uomo,

Dio nascosto in carne mortale,

a te l'amore che canta in silenzio.


                            di David Maria Turoldo

L'estate può essere un periodo complicato: cerchiamo la tranquillità e sperimentiamo inquietudine, desideriamo compagnia eppure nei luoghi affollati siamo a disagio, ecco il rumore della musica, le chiacchere dei benpensanti che si mischiano con il vociare dei saccenti... 

Ho cominciato a scrivere queste note in un posto tranquillo ed ombroso, lungo la costa lucana; d'un tratto da un invisibile altoparlante suona una musica a me del tutto sconosciuta, le canzoni si susseguono uguali l'una all'altra, parlano di spacciatori, di macchine di lusso e di belle tipe, di pistole e di sbirri da cui scappare. Il ritmo è ossessivo, come un tamburo di orchi nell'oscurità. Per uno di quei casi che capitano a chi viaggia verso una stella tenue, cullato dal rap criminale, sprofondo nelle parole del libro di fronte a me. E da una citazione procedo ad un verso poetico, da quel verso giungo ad una Sura del Corano e da questa sura sono come trascinato alla storia del profeta Elia, il quale, per le minacce della moglie di Acab Jezebel, si inoltrò nel deserto e andò a sedersi sotto una ginestra, in preda allo sconforto. Ma proprio lì - nel deserto, nel silenzio, nella solitudine, nell'apparente sconfitta di tutti i suoi progetti -  fece l'esperienza più profonda della tenerezza di Dio, che si rivela a lui non nei tuoni e nei lampi e nei terremoti, ma come sussurro di una brezza leggera. Il rap dei gangster per un attimo mi fa andare fuori rotta, ma infine ecco l'approdo salutare alla poesia di David Maria Turoldo, quella riportata qui sopra, nella quale la parola silenzio ritorna per sette volte in sedici versi. I tamburi sono ormai un'eco lontana. Vi racconto dunque il mio vagabondaggio, voi mettetevi comodi. 

Il viaggio comincia nel IV secolo della nostra era, sugli avamposti della spiritualità contemplativa cristiana, al limite del deserto, tra l'Egitto e la Siria. Voltate le spalle alla civiltà, alle città ricche raffinate e colte del mediterraneo, eremiti e monaci scelgono di abitare l'inabitabile e dei loro eremi fanno il luogo per conoscere se stessi, anzi per divenire se stessi: lì "il temibile faccia a faccia con il proprio io reale (oltre i fantasmi del proprio narcisismo) può trasformarsi - secondo Adalberto Mainardi - nello strumento per una dilatazione della propria umanità. Certo, l'elogio della vita solitaria, trascorsa nel silenzio e nella ricerca interiore non è un'invenzione dei cristiani, percorre tratti importanti della filosofia della Grecia e dell'India; è tra gli ammonimenti dell'oracolo delfico, addirittura Filone di Alessandria, nel suo trattato sulla vita contemplativa, non si limita a farne l’elogio, ma arriva a dire che “la divina  Sapienza è amica del deserto (philéremos)”.

Abba Arsenio è uno di questi santi monaci, forse - da quanto capiamo - il meno adatto alla solitudine; dopo aver abbandonato gli sfarzi della corte imperiale, dove svolgeva la funzione di precettore dei figli dell’imperatore Teodosio, sceglie la strada del deserto, ma  si tratta di una scelta difficile, piena di ostacoli. Ad un certo punto lo vediamo nel pieno di un combattimento interiore, allora domanda a Dio di condurlo in una via in cui possa salvarsi. La risposta gli giunge attraverso una voce che dal cielo lo esorta: fuge, tace, quiesce !  Ovvero: fuggi, rimani in silenzio, riposa nel tuo cuore.

Il misterioso imperativo interiore udito da Abba Arsenio indica un rigoroso itinerario ad Deum, scandito da ostacoli ardui, da avversari ben identificabili. A partire dal primo, l'invito alla vita solitaria, probabilmente oggi il più difficile, se guardiamo allo stato di smarrimento del mondo moderno, nel quale segno inconfutabile di una vita pienamente realizzata è la socialità spontanea, l'essere connessi sempre, l'ampiezza della rete di contatti-conoscenze-ammiratori, ora anche digitali. Ciò che accade di importante è soprattutto ciò che può essere visto dagli altri, ciò che diciamo o facciamo presuppone un pubblico, pena l'assoluta irrilevanza. Fuge! invece impone l'ammonimento oltremondano: fuggi dalla folla, tieniti lontano dalla ressa, rimani in disparte dall'accorrere della moltitudine. Cerca piuttosto la solitudine interiore, tendi l'orecchio alla voce del cuore. La strada intrapresa da Arsenio ha avuto un enorme seguito nella storia della spiritualità occidentale ed indicazioni dello steso tenore si possono leggere ancora oggi negli statuti dell'ordine della Certosa, espressi con limpida grazia : "L'anima del monaco sia dunque nella solitudine come un lago tranquillo le cui acque, scaturendo dalla purissima fonte dello spirito e non essendo agitate dall’ascolto di nessun rumore venuto dall’esterno, riflettano, quale nitido specchio, la sola immagine di Cristo."

Il secondo invito ci appare anch'esso in assoluta controtendenza rispetto alla propensione diffusa nei nostri giorni per la quale siamo  di continuo incitati a prendere la parola, ad intervenire, a "dire la nostra",  a volte con una qualche trascuratezza rispetto alle competenze o alle nozioni specifiche che sarebbero necessarie. Si tratta di un fenomeno che ci coinvolge tutti e a cui assistiamo di continuo: la nostra civiltà sembra aborrire il silenzio, lo ha ridimensionato ad una forma di indecisione dell'animo; in modo simile la meditazione assorta si riduce a rinuncia e la disposizione ad ascoltare assume i tratti della condiscendenza. Mi sembra che abbiano ragione quegli studiosi, ad esempio Vito Mancuso, per i quali il timore moderno di fronte all'esperienza del silenzio ha a che fare con il fatto che esso ci ricorda da vicino il grande silenzio, quello estremo della morte. Il silenzio immette al cospetto del sacro e della morte.

Dal punto di vista della vita interiore il silenzio ha ovviamente un valore del tutto diverso, costituendo di questa esperienza la via privilegiata; tutte le scuole spirituali - induismo, buddhismo, sapienza greca, la via del deserto nel cristianesimo -  mostrano a tal riguardo la medesima consapevolezza. Pitagora imponeva cinque anni di silenzio a chi volesse essere accolto come suo discepolo, Isacco di Ninive scrive che il silenzio profondo introduce l’anima nel mondo spirituale, essendo il silenzio "mistero del mondo futuro e la lingua organo del mondo presente". La più alta virtù spirituale è individuata da Simone Weil nella προσοχή, nell'attenzione e per essere attenti occorre saper fare silenzio, innanzitutto dentro se stessi.

Il terzo comando ha la forza del vento boreale che sgombra le nubi dal cielo: quiesce! In prima battuta potremmo tradure semplicemente come "riposa!" o "resta nel riposo", ma - di nuovo - il significato del termine, nell'ordine spirituale, non potrebbe essere più lontano dalla moderna considerazione del riposo. In effetti è difficile credere che sia mai esistita una civiltà più della nostra ossessionata dalla necessità di riposare e al tempo stesso più incapace di sperimentare questo riposo; anche questa - credo - è esperienza comune: più si desidera il riposo e più questo pare sfuggire, più si cerca un tempo in cui vivere l'assenza di preoccupazioni e più queste ci stanno da presso. Sovente il riposo è rappresentato nelle nostre conversazioni con termini che evocano lo staccare la mente oppure la spina; il desiderio evocato con tale espressioni fa riferimento ad una macchina che ha bisogno di essere scollegata dalle ansie, dalle difficoltà, dalle ferite. Una specie di camera iperbarica ben arredata in cui vivere per qualche tempo in uno stato di sospensione dalla vita.

Se ora volgiamo lo sguardo alla voce salvifica che giunse a soccorso di Arsenio nella sua originale forma greca ci avviciniamo al senso profondo di tale ammonimento. Il verbo usato, all'imperativo, infatti deriva da  ἡσυχάζω, che ci rimanda al sostantivo esichia, cioè assenza di agitazione, pace, riposo, tranquillità: il termine esichia poi corrisponde al "silenzio di tutte le cose", all’abbandono di qualunque pensiero, anche dei concetti più divini. Il pensiero deve dunque cadere nel silenzio, deve essere superato, affinché si possa avere esperienza del divino. Si tratta di un vuoto nel quale si è totalmente aperti al divino, che così può comunicarsi in pienezza. Il comando imposto al nostro monaco presuppone dunque non l'oblio della mente, ma una disciplina dell'animo, la cura dell'attenzione (nel senso che Simone Weil ha dato a questo termine), la  fatica del cuore in un combattimento interiore contro le passioni che rendono invivibili le relazioni umane: invidia, superbia, arroganza, presunzione, ira. Occorre un paziente itinerario per rendere abitabile lo spazio interiore del cuore.

La via del silenzio è al centro anche della poesia di David Maria Turoldo. Nella prima strofa si trattiene quasi il respiro, non si sa per quale motivo accada, ma siamo convocati al cospetto di qualcosa d'importante. Lo intuiamo d'istinto: è una notte speciale nella quale tutto tace di un silenzio più alto, in una solitudine carica di un'attesa diversa dal solito. La seconda strofa comincia con un ossimoro di grande forza espressiva, La creazione ti grida in silenzio; nel verso risuonano diverse immagini bibliche, tra cui quella della Lettera ai Romani (8,22) in cui l'apostolo Paolo così esprime l'anelito alla salvezza che coinvolge tutto il creato nell'attesa della redenzione: sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Il cosmo è pervaso da una tensione fortissima perché anch'esso, al pari dell'uomo attende la propria liberazione. Che significato dunque possiamo attribuire al fatto che la creazione - nell'imminenza del compimento delle antiche profezie - gridi in silenzio al verbo di Dio? La ragione essenziale  -  a mio avviso - ha a che fare con le immagini della Lettera ai Romani ora richiamata: tutto il creato attende di essere sciolto dalle catene che lo tengono soggiogato tramite la paura della morte. La natura geme e soffre come al momento del parto, nel suo grido vi è il dolore della sofferenza e l'attesa per la liberazione e questo grido tuttavia è anche silenzio attonito, pieno di gratitudine di fronte al Mistero che sta per compiersi. C'è dunque il grido ma anche il respiro sospeso, uno stupore che toglie la parola. Cose in effetti che possono succedere solo nella poesia... La strofa prosegue ora con la congiunzione ma; il tempo dell'aspettare è alle spalle, il mistero adesso ha una voce per quanto fragile ed indifesa. E di nuovo la natura non ha una voce adatta ad esprimere quello che è accaduto. Un silenzio più fondo risponde al vagito del bambino.

Con la terza strofa lo sguardo si sposta dal piano 'cosmico' all'esperienza umana, me è bene osservare che tra i due piani non sussiste una differenza ontologica, anzi ciò che succede sul piano della creazione  accade - o può accadere, o è bene che accada - tra gli uomini: e pure noi facciamo silenzio. Così come accade alla natura che non può ricorrere ad alcuna forma di linguaggio per esprimere il miracolo dell'incredibile, ma con questo entra in relazione con un silenzio più fondo, allo stesso modo la via che la poesia ci propone è quella del silenzio: più che le parole il silenzio lo canti. Anche in quest'ultima espressione è opportuno vedere qualcosa di più di una semplice strategia retorica, piuttosto essa allude alla profonda esperienza spirituale di quanti scoprono che è soprattutto nel silenzio  che l'anima scopre l'essenziale. Scopre infatti che il luogo tanto anelato dell'incontro con Dio altro non è che l'intimità del proprio io interiore, poiché è nel cuore dell'uomo che Egli vive.


giovedì 27 luglio 2023

su quanti abissi ho cantato

 


Primo preavviso


In fondo che cosa c'importa 

Che tutto si tramuti in cenere,

Su quanti abissi ho cantato, 

In quanti  specchi ho vissuto?

Che io non sia né sonno né gioia

E, meno di tutto, grazia beatificante,

Ma, forse, più di quanto necessiti

Ti toccherà rammentare 

E il rombo dei versi smorzantisi,

E l'occhio che al fondo nasconde

Quel rugginoso serto pungente

Nel suo silenzio angoscioso.

Mosca, 6 giugno 1963


                        Anna Achmàtova, da "Poema senza eroe" (traduzione di Carlo Riccio)


Riprendo a scrivere dopo un po' di tempo,  sollecitato dalla lettura del libro "Vi avverto che vivo per l'ultima volta" dedicato ad Anna Achmatova da Paolo Nori. Un libro acceso di passione, cupo senza essere disperato,  bello di una bellezza non consolatoria. Nelle sue  pagine la vita difficile della poetessa russa si mescola alle tragedie dei nostri giorni: le persecuzioni politiche, la guerra, l'importanza della poesia, la temerarietà disinvolta di chi sfida il potere. In un continuo oscillare tra passato e presente.


Poche poetesse mi coinvolgono come Anna Achmàtova. Lo confesso. Prendete questa poesia, dodici versi bellissimi, un linguaggio che vibra della forza incandescente delle immagini subito dai primi due versi: 
In fondo che cosa c'importa / Che tutto si tramuti in cenere. Un incipit straordinario, seguito da altri due versi impressionanti,  Su quanti abissi ho cantato.  Si coglie in questi versi, in modo limpido, il senso di ciò Cristina Campo ha chiamato "il coraggio dell'attenzione" e che coincide con il nocciolo stesso della poesia.

C'è  un aneddoto  tra quelli  che Paolo Nori racconta nel suo libro che ha a che fare con l'intensità dolente di questa espressione. Nel 1965, un anno prima di morire, Anna Achmatova accetta di incontrare un professore americano che vuole sapere da lei che cosa sia la cosiddetta anima russa. La poetessa prova più  volte, gentilmente, a cambiare discorso, ma l'americano non demorde,  insiste,  insiste fino a farla irritare. Esasperata esplode:  "Non lo sappiamo cos'è l'anima russa!" Il professore ribatte alzando la voce: "Dostoevskij lo sapeva!". La risposta di Anna è  profonda e raggelante. La immagino così, il volto ricomposto in un'espressione di regale benevolenza. "Dostoevskij sapeva molte cose"  - dice  - "ma non tutto. Per esempio pensava che se uccidi  una persona, diventi Raskol'nikov. (Sta parlando del protagonista di Delitto e castigo) Ma noi adesso sappiamo che puoi ucciderne cinquanta, cento, e la sera andare a teatro beato e tranquillo". 
Quando Anna rivolge queste parole al professore americano sa di cosa parla: i bolscevichi le hanno ucciso il primo marito nel 1921, il regime staliniano ha fatto morire il secondo in carcere, ha imprigionato suo figlio per quindici anni, i suoi amici poeti anche loro hanno conosciuto l'orrore del gulag, alcuni come Mandel štam vi sono morti. Nel 1946  Anna Achmatova viene espulsa dall'Unione degli scrittori: "la sua poesia - dicono - non è  tollerabile nella letteratura sovietica". Viene privata di ogni  sovvenzione ridotta alla fame, a vivere negli stenti. Non smette mai di scrivere poesia.

Se cerco nella mia biblioteca mentale una definizione di cosa sia un dittatore o un despota, mi sa che questa risposta dell'Achmatova al professore americano è la cosa migliore che trovo: uno che può uccidere cinquanta o cento uomini e poi andare a teatro beato e tranquillo.
È così che voglio  spiegare la dittatura ai miei studenti.





domenica 30 aprile 2023

Ognuno è il suo inizio; ognuno, in sé, un fine...

 


E ora a valle, te stesso, e l’ombra di te stesso,

tutto quello che porti indietro.

Eppure, è abbastanza: cassa di risonanza, corrimano,

apparecchio acustico e occhio introspettivo...

indietro dalla montagna delle sette caverne, la sua croce

dove è inchiodato il serpente; indietro

dal ceppo di querce e dalla rosa, il loro rivolo

ricercato dai ciechi col loro tocco asciutto; indietro

dagli Innocenti, quella tinozza dove il sole e la luna

s’immergono nel loro bagno rosso...

l’Eco è arbitraria: fiamma, vento, diluvio

e suolo, ognuno un sopravvissuto, ognuno

erede dell’impronta digitale, il lapsus linguae.

Ognuno è il suo inizio; ognuno, in sé, un fine...


Charles Wright, Breve storia dell'ombra, Crocetti Editore. Traduzione di Antonella Francini

Ed ecco anche  il testo originale :

And so down river, yourself, and yourself’s shadow,

All that you bring back.

Still, it’s enough: sounding board, handhold,

Ear rig and in-seeing eye . . .

Back from the seven-caved mountain, its cross

Where the serpent is nailed; back

From the oak-stock and rose, their rivulet

Sought by the blind with their dry touch; back

From the Innocents, that vat where the sun and the moon

Dip to their red bath . . .

The Echo is arbitrary: flame, wind, rainwrack

And soil; each a survivor, each one

An heir to the fingerprint, the slip of a tongue.

Each is where you begin; each one an end in itself. . .


Tornare giù. Dopo essere salito in vetta, lì dove ciò che è dell'uomo pare così lontano, così insignificante. Di cosa succede quando si scende a valle - forse la cosa più difficile - di questo parla la poesia di Charles Wright. Di ciò che portiamo giù: te stesso, e l'ombra di te stesso. Non molto sembrerebbe, ma abbastanza dice il poeta, mentre indica qualcosa: cassa di risonanza, corrimano e poi ancora apparecchio acustico e occhio introspettivo. Metto in fila queste immagini stasera, il legno di una chitarra che trasmette onde sonore di armonia, un appiglio per non cadere, uno strumento giapponese, minuscolo, che mi riveli il diverso suono dell'inganno e della verità, un occhio che trapassi le apparenze. Il quadro ora si fa più nitido; per chi scenda dall'esperienza della vetta questo il destino: essere voce di un'armonia che non gli appartiene, un appiglio per chi rischia il precipizio, ascoltare senza perdere né una sillaba, né un sussurro, infine spingere la vista al cuore delle cose, all'intimo nascondiglio dell'anima o lì dove giace prigioniera.

indietro... la poesia insiste su questo movimento, indietro ... un ritorno è qui evocato dai versi di Wright, un ritorno da luoghi ricchi di memorie sacre, abitati da arcane presenze. La montagna con le sue sette caverne, il serpente inchiodato alla croce, il sangue degli Innocenti; il linguaggio è allusivo, evoca l'esperienza di un altrove assoluto, dove non si può sfuggire al rischio di perdere o vincere tutto. 

A proposito dell'immagine dell'Eco che domina i versi finali,  l'autore ha lasciato detto che "è un eufemismo per "Whatever's-out-There" , ovvero "qualunque cosa ci sia là fuori". Prodigiosa allegoria di un dio che sfugge ad ogni definizione ad ogni legge di necessità.

l’Eco è arbitraria: fiamma, vento, diluvio e suolo

Strana eco questa. Tu gridi il nome di un affanno e lei risponde con una parola di inaspettata leggerezza, tu sollevi nell'aria parole di letizia e ti restituisce un monito grave.  L’Eco è arbitraria, è  voce che non sta alle nostre regole, voce che infiamma e consuma, che scuote, inonda, sommerge e nutre. Al suo cospetto ognuno può infine riconoscersi (che sia questo il segreto del viaggio verso la vetta?)

ognuno un sopravvissuto ... 

ognuno è il suo inizio.

domenica 26 marzo 2023

le scissioni, la crepa ed i passaggi

 


Celati


Cela te stesso con maschere e trucchi

stringi gli occhi come chi vede male,

che dal tuo volto mai si distingua 

dove sono il tuo essere, il tuo crollo.


Ultime luci, lungo bui giardini

il cielo un rovinio di notti e incendi -

celati: dove lacrimi e resisti

la carne ove ciò si compie non si veda.


Le scissioni, la crepa ed i passaggi,

il nocciolo dentro cui vieni annientato

celali, come se i tuoi canti di lontano

venissero da una gondola vicina.


Gottfried Benn, Frammenti e distillazioni, traduzione di Anna Maria Carpi


Una poesia per questi tempi, segnati dalle grida dei venditori di almanacchi e dal brusio pieno di fervore degli zelanti. 

E' a se stesso che il poeta parla. La prima strofa ha il gusto della sollecitudine: nasconditi avverte, cela il tuo volto con maschere e trucchi, come un giullare di fronte al suo pubblico o come il fuggitivo al cospetto della ronda che lo va cercando. L'invito è poi ripetuto con l'esortazione - di uguale urgenza - a stringere gli occhi come chi vede male: che nessuno possa distinguere dove è la sua essenza, ciò che lo costituisce come essere irripetibile, creatura diversa da ogni altra. Soprattutto, che nessuno possa intuire dove sia il suo crollo. Questo sta a cuore alla voce che ammonisce. Già... non siamo che identità singolari, imperfette, preziose ed irregolari, ma inevitabilmente destinate a sgretolare in macerie.

La strofa successiva si apre nel segno della visione, un paesaggio tra luce ed ombra. Il cielo è un rovinio di notti e incendi. L'immagine è potente e piena di una fascinazione misteriosa: la natura del cielo è spesso associata alla liberazione dai vincoli della materia o all'ascesi salvifica, non qui. Qui non è altro che il luogo della caduta rovinosa, il cui tratto distintivo è il buio della notte o la feroce allegria dell'incendio.

Celati, ammonisce dunque la voce e pare di avvertire la  premura del comando. Celati, là dove ti concedi alle lacrime o dove tenti l'ultima disperata resistenza. Non veda occhio umano la tua carne, là dove si sparge il suo destino irrimediabile.

Nell'ultima strofa di nuovo torna l'invito al nascondimento e tuttavia precedono il verbo alcune immagini significative: le scissioni, la crepa ed i passaggi. Sono l'oggetto che va nascosto, il segreto che deve essere celato. In tutte e tre mi sembra scorrere la stessa forza allusiva: c'è una superficie, solida come il granito e resistente come pietra d'angolo, ma ecco, si aprono impreviste scissioni, subitanee crepe, passaggi stretti ed impervi. Non siamo forse noi qui ad essere rappresentati? mura ben difese su cui si aprono crepe, bastioni indeboliti da nascosti passaggi, densa materia segnata da imperdonabili scissioni.  

Ben altro poi sia nascosto, comanda l'io poetico: il nocciolo dentro cui vieni annientato. Subito dopo le immagini inziali delle scissioni, delle crepe e dei passaggi, un'altra dunque si sovrappone ed esige la nostra attenzione. Benn qui si muove lungo una traiettoria dell'emozione volutamente ambigua. Da un lato infatti ciò che accade dentro il tegumento del seme non può che richiamare il processo di generazione del mondo vegetale: una nuova pianta è destinata a sorgere dall'annientamento delle strutture vitali presenti all'interno del nocciolo, una forma nuova prende così vita dalla distruzione di un'altra. Né possiamo ignorare che tale processo nel corso del tempo si è progressivamente caricato di profondi significati allegorici, persino spirituali, come nella parabola del vangelo di Giovanni secondo cui il chicco di grano che se non muore non può fare frutto. Nulla di tutto questo nella poesia di Benn. L'immagine su cui ci siamo soffermati è sottratta a qualunque vocazione sacrificale, ad ogni prospettiva salvifica. Il nocciolo è solo il luogo più segreto che custodisce la fragile esistenza umana, la potenzialità germinativa rimane inerte e nulla sembra poter sorgere dall'estremo annientamento.

Ho l'impressione però che questo invito a celare se stessi e quanto di più prezioso viva in noi non esorti alla fuga del disertore, ma all'occultamento necessario in vista dell'unica forma di rivolta ormai possibile, quella estetica, che si può realizzare nell'arte in genere e ovviamente nella poesia. Sono gli ultimi versi a indurmi a questa ipotesi:

come se i tuoi canti di lontano

venissero da una gondola vicina.

Se non è difficile vedere nei canti la metafora della poesia, più impegnativa si rivela la riflessione attorno al nesso sintattico "come se" che fa da collegamento con l'esortazione al nascondersi. Cela tutto ciò che hai più caro  - dice insomma il poeta - come se la tua arte fosse la canzone di un barcaiolo...

Cosa ci sta dicendo il poeta? 

La locuzione scelta da Benn ci immette in una terra incognita, ci sollecita ad una maggiore vigilanza intellettiva, ad uno sforzo interpretativo in grado di discernere l'apparenza - i canti che provengono da una gondola vicina - da una realtà altra, altrimenti sfuggente. E' qui che mi sembra di scorgere in azione quella strategia del nascondimento che opera in tutta la lirica, una strategia che non è rinuncia, ma intenzione lucidamente messa in atto. Se l'intento è quello di dissimulare le potenzialità della poesia sotto l'aspetto più modesto della melodia popolare, del canto umile e dimesso, alieno da ogni pretesa di rivelazione vaticinante, qual è la ragione di tale stratagemma? Credo che la risposta vada cercata in quel clima di devastazione materiale e spirituale della civiltà europea della quale, finita la seconda guerra mondiale, il poeta era testimone. Il precipizio in cui la condizione umana è sprofondata da un lato esclude ogni progettualità nell'ambito del politico, dall'altro ogni possibile ricerca di riscatto personale. Solo nell'arte si dischiude l'estrema forma di resistenza al ferreo dominio del regno della quantità. Inevitabile strumento dell'artista è tuttavia il ricorso all'accorta strategia della dissimulazione, in virtù della quale - come si è detto - il poeta traveste i suoi canti con gli abiti semplici della canzone popolare, prossima e familiare - in apparenza -  a colui che ascolta. E' solo per mezzo di tale operazione di mascheramento che il poeta può fare ancora la sua parte, vinto dallo scatenamento dell'ultima era ma non renitente, annientato ma non per questo incapace di alzare nella notte il suo canto di lontano.

giovedì 9 febbraio 2023

Musa diversa

 



Uno dei criteri con cui sono solito distinguere la buona poesia da quella che "non fa per me" l'ho pescato in un piccolo scritto di Rilke, "Lettera ad un giovane poeta" di cui ho già avuto modo di parlare. Si tratta di un mio personale modo di vedere le cose, senza alcuna pretesa di oggettività o di rigore accademico. E' solo che, leggendo le parole  indirizzate da Rilke ad uno scrittore che gli chiedeva consigli e giudizi - siamo nei primi anni del 900 - ho sentito subito una spontanea consonanza; quelle parole mi sono sembrate subito illuminanti, come nessun'altra. Una via precisa indica Rilke a chi gli domandava consigli, una via essenziale: esaminare se la ragione che chiama a scrivere "estenda le sue radici nel più profondo del cuore". E poi aggiunge: "Questo anzitutto: domandatevi nell'ora più silenziosa della vostra notte: devo io scrivere?"  Secondo Rilke dunque c'è una poesia che nasce come un impulso che non può essere soffocato, che si manifesta come bisogno, o come destino avrebbero forse detto gli antichi; "un'opera d'arte è buona - ci viene spiegato - s'è nata da necessità. In questa maniera della sua origine risiede il suo giudizio".

Uno dei pregi delle poesie contenute nella raccolta "Di madre nuda" di Simona Mancini mi pare
proprio questo: è un'arte "nata da necessità". E credo anche  che la maniera della sua origine sia del tutto evidente  in alcuni versi-aforismi contenuti nella sezione Imperfezioni, come ad esempio quando scrive:

La poesia è il castigo per chi scampa alla vita

oppure, con una leggera variazione di tono:

Sono poeta per scelta altrui.

La natura "necessitata" della poesia di Simona Mancini è riconoscibile nei versi di un componimento tra i più significativi della raccolta appena pubblicata: Musa diversa


Poesia,
tu mi svegli come un cane di notte:
mi aggiro tra i vicoli sordi,
i balordi assoldati dall'oscurità.

Poesia
che ci fai sul mio pane tostato,
sul coltello affilato?

E non so se spalmarti
o ammazzarci qualcuno
con te: io sono nessuno, o poco di più.

Sei tu nell'armadio?
Nell'acqua corrente che mi spegne
le fiamme da cento e una ruga
che ho qui sulla fronte?
Io sono Caronte che invoca pietà.

Tu m'inganni Musa diversa.
Mi attraversa solo un pensiero
ma è l'ultima sillaba di un verso ipermetro.

Torno indietro e riscrivo il finale.


Colpisce la prima similitudine: i versi accostano la Poesia ad un cane randagio che nel cuore della notte faccia esplodere i suoi latrati, forse un avviso allarmato. Allo stato di apparente quiete del sonno, in cui si trova l'io poetico, fa riscontro l'abbaiare del cane. La Musa non è certo il segno distintivo di un animo speciale, sigillo di un privilegio, magari scomodo, ma pur sempre gratificante. La sua voce non ha il timbro melodioso della lira pizzicata con arte, è piuttosto un grido inquieto, l'urgenza di un sospetto. 

Parleremo di questa e di altre poesie domani sera alla libreria eli di Roma, in viale Somalia 50/a a partire dalle 18.30. Le poesie di Simona Mancini meritano davvero; di colui che le presenterà sapete che troppi danni non dovrebbe farli. Vi aspetto

sabato 21 gennaio 2023

Qualcosa ci è sempre mancato



L'amicizia

Noi non ci conosciamo. Penso ai giorni
che, perduti nel tempo, c’incontrammo,
alla nostra incresciosa intimità.
Ci siamo sempre lasciati
senza salutarci,
con pentimenti e scuse da lontano.
Ci siam riaspettati al passo,
bestie caute,
cacciatori affinati,
a sostenere faticosamente
la nostra parte di estranei.
Ritrosie disperanti,
pause vertiginose e insormontabili,
dicevan, nelle nostre confidenze,
il contatto evitato e il vano incanto.
Qualcosa ci è sempre rimasto,
amaro vanto,
di non ceduto ai nostri abbandoni,
qualcosa ci è sempre mancato. 

di Vincenzo Cardarelli

L'opera poetica di Vincenzo Cardarelli è  forse caduta in una colpevole ed affrettata dimenticanza. Eppure non mancano ai suoi versi slanci che aprono porte inaspettate all'immaginazione.
In questa poesia sull'amicizia, ad esempio, la voce che ci parla ci disorienta: comincia con un'asserzione categorica "noi non ci conosciamo", ma pochi versi dopo ci sorprende riferendosi al rapporto che lega il noi della poesia come ad una incresciosa intimità. 
Che amicizia strana siamo chiamati a considerare! Intravediamo due anime che si aprono l'una all'altra e che al tempo stesso si sorvegliano con la cautela di un cacciatore esperto. Si aspettano, eppure faticano a rimanere estranee. Ora,  su di loro, incombe un incanto evanescente, ora il pentimento da lontano. Le pause sono occasione di vertigine, ma sembrano anche innalzare mura insormontabili, tracciare confini che non verranno mai varcati.
L'incontro scolora nella lontananza di ritrosie disperanti. L'abbraccio, incurante del pudore e dimentico di ogni comoda prudenza, si scioglie ancor prima di stringersi.