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giovedì 11 luglio 2019

Haiku n.3





è primavera:

una collina che non ha nome

velata nel mattino

                                                                      
                                                                                   di Matsuo  Bashō (1644-1694)
                                                                                       

E poi? 

Spesso la reazione del lettore occidentale di fronte a uno haiku è più o meno questa. Non appena questo coglie l'immagine al centro delle diciassette sillabe che la compongono, la poesia si congeda da lui, lo abbandona veloce, lasciando un senso di incertezza se non di insoddisfazione. Dov'è la storia? si chiede il nostro lettore interdetto da una brevitas che sembra non mantenere ciò che promette.

In un precedente post dicevo che negli haiku non c'è mai  descrizione, piuttosto osserviamo - come dice  Elena Dal Pra - il cristallizzarsi, il coagularsi di un intuizione estetica, possibile solo a patto che il soggetto riesca a scomparire per lasciare tutto il posto all'oggetto, all'evento che diventa quasi un "correlativo oggettivo" nipponico, un 'espressione immediata e disinteressata che "non descrive, non declama, non giudica e non spiega, ma solamente presenta un'immagine...". Un frammento della storia del mondo colto nell'attimo del suo realizzarsi, indipendentemente dalla condizione o dalla prospettiva del soggetto.

Eccoci allo haiku di oggi: siamo di fronte ad un momento preciso della ruota delle stagioni, la primavera, con tutto quello che ciò comporta in termini di colori, di profumi, di fragranza dell'aria, del trascorrere inarrestabile del tempo. Il poeta dice semplicemente è primavera, poiché nell'estrema parsimonia verbale di questo genere di poesia l'indicazione del tempo ha - secondo la felice espressione di un valido studioso come Kennet Yesuda - la stessa funzione che ha la luce nella pittura espressionista. Lo svolgersi del tempo ci invita ad entrare nell'irripetibile fluire della vita.

Una visione di seguito ci appare: una collina senza nome, un luogo indefinito, che non possiamo rivendicare, fare nostro come facciamo con tutto ciò che ha un nome. Non diamo forse nomi a ciò con cui entriamo in relazione? Un cucciolo di cane è soltanto una delle tante varianti della biologia finché non gli viene dato un nome. Lo stesso accade con i luoghi della nostra memoria, quelli che identifichiamo come momenti importanti della nostra esistenza: per me, ad esempio, sono l'alba sulle colline della Galizia, il sole che riluce sulle pietre di Dùn Aengus, le rive del fiume Uebi Scebeli.

una collina senza nome ... l'immagine definisce invece i confini di uno spazio che non deve essere contaminato da alcuna emozione personale, né da alcuno sforzo di  logica concettuale, quella con cui attribuiamo identità assolute alle cose intorno a noi: quelle colline, quel riflesso del sole, le acque di quel fiume.

Nella visione del Buddismo  Zen tutto è mutamento, perché tutto è in perpetuo cambiamento. Una cosa non resta la stessa durante due attimi consecutivi e poiché le cose si trasformano di continuo esse non possono mantenere la propria identità assoluta. La cose nel tempo sono momentanee; nello spazio sono sprovviste di identità assoluta. Allo stesso modo le cose sono dinamiche e vive mentre i nostri concetti sono statici e poveri. Il mondo dei concetti è diverso dal mondo della realtà in sé  che si può conoscere solo per esperienza diretta. Ciò è chiamato saggezza non-immaginativa, una forma di conoscenza che nasce dalla meditazione, nella quale non si distingue l'oggetto dal soggetto: raggiungere la verità significa risvegliarsi nel seno della realtà (Thich Nhat Hanh, Introduzione allo Zen).

Nello Haiku di Bashō  la collina senza nome è poi descritta come velata nel mattino. La vista è offuscata dalla bruma del mattino, qualcosa si sottrae alla nostra pretesa di misurare e definire lo spazio. Qualcosa nell'indefinito chiarore del mattino sfugge all'esigenza tipicamente umana di descrivere il mondo per concetti e definizioni, lasciandoci in una salutare inquietudine. Si apre in questo modo la possibilità  di vedere qualcosa di universale e immutabile dietro a ciò che la parola e la logica non possono esprimere.

I Giapponesi a questo riguardo usano il termine yugen (幽玄) che può essere tradotto come “leggermente scuro”, ma ricopre una più ampia gamma di significati. Non serve infatti solo a descrivere il fascino delle cose in penombra di cui non riusciamo a conoscere del tutto i limiti ed i particolari, ma si usa anche per indicare ciò che, essendo oscuro, è insondabile, misterioso ed imperscrutabile, al di là dell’umana comprensione(http://www.sesshutoyo.com/…/estetica…/wabi-sabi-aware-yugen/).
Un paesaggio, un’opera d’arte, persino l'espressione improvvisa di un volto, ci trasmettono yugen quando riusciamo a cogliere in esse un bagliore, un’impressione che per un attimo, al di là delle capacità del linguaggio, sembri rivelarci un varco nel mistero dell’universo.


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