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giovedì 26 settembre 2019

nella forte solitudine di rupi senza sole




Δώρια

Sii in me come l'eterno corruccio
del vento gelido, e non
come sono le cose fuggitive....
allegrezza di fiori.
Tienimi nella forte solitudine
di rupi senza sole
E d'acque grige.
Fa' che gli dei parlino di noi serenamente
Nei giorni a venire,
i fiori ombrosi dell'Orco
Abbiano memoria di te.

                                      

                                             di Ezra Pound


grazie mille a Nicoletta per la segnalazione...

martedì 24 settembre 2019

La foresta





Dovresti sdraiarti ora e ricordare la foresta,
perché sta sparendo –
no, la verità è che è scomparsa ormai
e così qualsiasi dettaglio tu possa richiamare alla memoria
potrebbe avere una specie di vita.

Non quella che avevi sperato, ma una vita
-dovresti sdraiarti ora e ricordare la foresta-
tuttavia, potresti chiamarla “nella foresta,”
no la verità è, che è scomparsa ormai,
cominciando in qualche posto vicino all’inizio, a quel bordo,

O invece al primo strato, al posto che ricordi
( non quella che avevi sperato, ma una vita )
quasi fosse solido sotto i piedi, perché quel posto è un mare,
tuttavia, potresti chiamarlo “nella foresta,”
sul quale non possiamo mai andare alla deriva, essendo lì o no,

Rasenti a nessuna superficie. E anche al nulla nella vita,
o invece al primo strato, al posto che ricordi,
mentre gli strati si piegano nel tempo, nell’humus nero,
quasi fosse solido sotto i piedi, perché quel posto è un mare,
come una mano sinistra che scende leggera, sempre sulle stesse chiavi.

I variopinti uccelli della foresta cantano di là da te
rasenti a nessuna superficie. E anche al nulla nella vita,
cantano senza una musica dove non ci può essere armonia,
mentre gli strati si piegano nel tempo, nell’humus nero,
dove vasti panneggi di luce si stagliano fra i tronchi grigi,

Dove l’aria è intessuta di muschio che s’asciuga,
i variopinti uccelli della foresta cantano di là da te:
un aroma di muschio dai funghi e dalle trine di muffe.
Cantano senza una musica dove non ci può essere armonia,
benché qualcosa cada dall’alto nelle foglie secche,

Niente che scenda qui da noi.
Dove l’aria è intessuta di muschio che s’asciuga,
(in quel posto dove son cresciuta) la foresta in un groviglio,
un aroma di muschio dai funghi e dalle trine di muffe,
dolce-stellato andare, in un groviglio di rovi, di felci

E lente cordicelle di cinquefoglia, falsa fragola, sommàcco-
niente che scenda qui da noi,
macchiato. Un ramo basso che dondola sopra un torrente
in quel posto dove son cresciuta, la foresta in un groviglio,
e uno spazio cavo proprio dell’ampiezza delle scapole.
.
Puoi capire quel che faccio se penso al varco-
e alle lente cordicelle di cinquefoglia, falsa fragola, sommàcco-
come a una specie di limite. A volte immagino noi che camminiamo lì
(…fitolacche, macchiati. Un ramo basso che dondola sopra un torrente)
in un posto che è qualcosa di simile a una foresta.

Ma forse d’altro tipo, dove il suolo è sotto una coltre
( puoi capire quel che faccio se penso al varco)
di verdi aghi cedevoli, lì sotto le fronde di pino,
una specie di limite. A volte immagino noi che camminiamo lì.
E affrettandosi di sotto brune s’adagiano le affilate foglie,

La nerezza che si sfigura, poi la bulbosa fosforescenza delle radici.
Ma forse d’altro tipo, dove il suolo è sotto una coltre,
così stranamente simile eppure anche così originale, sotto
i verdi aghi cedevoli, le fronde di pino.
Una volta eravamo perduti nella foresta, così stranamente simile eppure anche così originale,
ma la verità è, che essa è, ormai perduta per noi.


                                          Susan Stewart, Columbarium e altre poesie (1981-2003), Ares 2006, traduzione e cura di Maria Cristina Biggio


Susan Stewart vive tra Filadelfia e Princeton. Poetessa e traduttrice, si è occupata anche di critica d'arte. Nel 2005 ha ottenuto il titolo di chancellor dall'Academy of American Poets ed è membro dell'American Academy of Arts and Sciences. Docente di discipline umanistiche presso la Princeton University, in Italia sono stati pubblicati due libri, Columbarium e altre poesie, (Ares 2006) e Red Rover, (Jaca Book 2011), a cura di Maria Cristina Biggio.

Per l'analisi della poesia di Susan Stewart lascio la parola a Maria Cristina Biggio che della poetessa americana ha curato le edizioni italiane. L'intervento completo  lo trovate in
 http://poesia.blog.rainews.it/2012/01/susan-stewart-due-poesie/


La poesia La foresta apre la raccolta Columbarium, ma in realtà  "l'intero volume si avvolge tenacemente attorno a questo inizio, raccontando la poetica dell’attraversamento per strati consci e inconsci del passato e della memoria (dell’umano e della foresta). Se il suo fitto e buio groviglio rifiuta d’essere esplorato se non per lo spazio impervio dell’esperienza “proprio dell’ampiezza delle spalle”, il “dolce-stellato andare”, il trasumanar della poesia scaverà fino nelle profondità più nascoste e sarà continuamente sostenuto dalla nostalgia delle origini e dal desiderio che ciò che è stato e ciò che è siano ancora, sempre e in ogni dove, casa, luogo dove si è cresciuti.
Cominciando in qualche posto vicino all’inizio, a quel bordo 
 O invece al primo strato, al posto che ricordi,

Scandita nei suoi movimenti figurativi e conoscitivi dal contrasto, ottico e mentale, tra un punto più luminoso e uno più scuro – tra seme e cenere, morte naturale e rigenerazione, “nerezza che si sfigura” e “bulbosa fosforescenza delle radici”, musica e silenzio – essa tenterà continuamente di far riemergere i più piccoli dettagli di tutto quel che è forestis, che è al di là di noi, affinché essi possano avere una specie di vita. "

Nel suo attraversamento fino alla “svolta” che apre la seconda sezione del libro, - nota ancora Maria Cristina Biggio - Stewart sembra volerci consegnare il fardello di un passato collettivo segnato dagli orrori della storia che non si possono e non si vogliono dimenticare.  La disturbante massa di fatti rubati alle atrocità del vero – macellazioni, stupri, violenze, cannibalismi – in cui tragicamente “ciascuno potrebbe essere il soggetto”, diventa prolungata allegoria di veritade ascosa sotto bella menzogna (secondo l'espressione usata da Dante in Convivio II,4).

"Il neo-residente della foresta-metropoli-labirinto, che ha dolorosamente conquistato una maggiore consapevolezza di sé e delle proprie azioni ascoltando e prendendosi cura dell’altro da sé, sarà richiamato al luogo del suo principio, alla radura luminosa cui ogni sentiero conduce, dove qualcosa di nuovo comincerà finalmente a essere, nell’atrofia spirituale e a svelarsi alla conoscenza [...]

La foresta si rivela così complessa e potente metafora di tutto quel che è forestis, di quel che sta al di là da noi e ci trascende. Con le parole della Stewart, la foresta è “risorsa della natura, di tutto ciò che è oltre i fatti della storia, oltre i nostri concetti di spazio e tempo e le categorie e il nostro modo di conoscere e che, in quanto tale, precede la memoria e l’invenzione. La natura è l’indefinibile, l’illimitata risorsa al di sopra della quale la conoscenza si innalza – proprio come l’invisibilità sta al di là del visibile – non in senso mistico ma come un reale riconoscimento del limite dei nostri poteri analogo alla finitudine sancita dalle nostre morti individuali”.

L’amato modo della ripetizione assume in questo testo un particolare potere incantatorio. Via via che la poesia cresce e cambia forma pur restando sempre uguale, essa delinea una struttura non-lineare e spaziale del tempo che resiste allo sviluppo narrativo. Procedendo con le ripetizioni i versi svelano i propri limiti e le proprie frontiere, e tendono a farsi casa (del linguaggio, del ritmo, della metafora, del mito, della conoscenza, della nostalgia) le cui mura confinano con la luce e i suoi “vasti panneggi”, con la musica e il silenzio. I variopinti uccelli che cantano di là da noi “senza una musica” si appellano al non-essere o al pre-essere delle melodie non udite di Keats, ovvero al silenzio primordiale dal quale e nel quale ogni musica sorge e rifluisce. Rivelando i propri limiti e la proprie frontiere la poesia riesce a farci sperimentare la certezza di qualcosa d’altro che supera e avvolge l’edificio della parola. "



domenica 22 settembre 2019

Ciò Che Ogni Albero Sa





foto di Axel Bernstorff

Ciò Che Ogni Albero Sa 

Impara, cuore, ciò che ogni albero sa:
Disporre la radice, infliggerla con giusto orientamento
Nel buio sparso; non dentro il sasso, bensì
Attorno al sasso; non dentro l’argilla
Bensì verso l’acqua non lontana;
Non nella ripulsa, ma nell’amore pronto
A rendere alla pressione di radice angusta ascesa
Fu per l’asse anulare, dritto, fino alla forcella,
E oltre, per l’erta obliqua delle fronde ripetente
L’ordine della sete sottostante nella luce, nel vento,
In simmetria, nell’equilibrio che accoppia
Nadir e zenit; e infine sino al frutto
Che vorrebbe arrotondare col suo peso
Movimento in misura appassionata. Così non agendo
Vantaggio del suo danno, rachitica sarà la chioma
Gibboso lo sforzo di rizzarsi, brutta la corteccia,
Partito il frutto e rado. Ogni albero lo sa.
Non imparare, cuore, dal folle albero di olivo
Che ricorda gli dei ellenici, innamorato della pietra
E del serpe che custodisce alla radice.



                          di Ivan Lalić da Poesie (Jaca Book, 1991), trad. it. Eros Sequi.


Ivan V. Lalic (Belgrado, 8 giugno 1931 – Rovigno, 28 luglio 1996) è uno dei massimi esponenti della poesia iugoslava nel vero senso del termine, essendo nato a Belgrado ed avendo studiato a Zagabria, le due capitali di quelle che erano le repubbliche iugoslave della Serbia e della Croazia, fra le quali ha diviso la maggior parte della sua vita.
Lalic ha iniziato la sua carriera nel 1955 ed ha pubblicato 14 raccolte di poesie, oltre a svolgere un’intensa attività di critico letterario e di traduttore da Hölderlin a Rilke, da Whitman a Pierre-Jean-Jouve, fino a rendere in versi persino La Divina Commedia. 
La sua poesia, definita «protogiovane» per via "dell'istante che, nonostante il suo manifestarsi innumerevoli volte ripetuto nella storia umana, e a dispetto della sua infinita ripetibilità, serba in sé, per chi giunge in una lunga serie di generazione di uomini, la giovinezza e l'originalità dell'esperienza viva” (Vlada Urosevic, citata in L'anno di poesia, 1987, Jaca Book), riflette l'interculturalità della propria vita, tanto da apparire un poeta mediterraneo prima ancora che un poeta Iugoslavo (da https://letteratura.tesionline.it/letteratura/article.jsp?id=24295).


venerdì 20 settembre 2019

Se qualcuno un giorno bussa alla tua porta








Se qualcuno un giorno bussa alla tua porta,

dicendo che è un mio emissario,

non credergli, anche se sono io;

ché il mio orgoglio vanitoso non ammette

neanche che si bussi

alla porta irreale del cielo.

Ma se, ovviamente, senza che tu senta

bussare, vai ad aprire la porta

e trovi qualcuno come in attesa

di bussare, medita un poco. Quello è

il mio emissario e me e ciò che

di disperato il mio orgoglio ammette.

Apri a chi non bussa alla tua porta.



                                            di Fernardo Pessoa



lunedì 16 settembre 2019

La strada è una ferita aperta nel cielo



          “Tranquera al atardecer”, Argentina. Agosto 2018 - foto di J. M. Ciampagna



ULTIMO SOLE A VILLA ORTÙZAR

Sera come di Giudizio Finale.
La strada è una ferita aperta nel cielo.
Non so più se fu Angelo o un occaso la chiarezza che 
                                  [bruciò nel profondo.
Insistente, come un incubo, pesa su di me la distanza.
All'orizzonte un reticolato gli duole.
Il mondo è come inservibile e gettato.
Nel cielo è giorno, ma la notte è traditrice nei fossati.
Tutta la luce è nei muretti azzurri e in quello 
                                                 [schiamazzare di ragazze.
Non so più se è un albero o è un dio, quello che sporge
                                                  [dal cancello arrugginito.
Quanti paesi in una volta: il campo, il cielo, i dintorni.
Oggi sono stato ricco di strade e di occaso affilato e
                                                  [della sera fatta stupore.
Lontano, mi restituirò alla mia povertà.


                                     di Jorge Luis Borges

venerdì 13 settembre 2019

Il fuoco e la rosa


a Pino che infine è giunto là onde partimmo  attraversando il cancello, ignoto eppure rammemorato, là dove tutto sarà bene...


Il fuoco e la rosa


Noi non cesseremo l’esplorazione
e la fine di tutto il nostro esplorare
sarà giungere là onde partimmo
e conoscere il luogo per la prima volta.

Attraverso l’ignoto, rammemorato cancello
quando l’ultima terra da conoscere
sia quella che era il principio;
alle sorgenti del fiume più lungo
la voce della cascata nascosta
e i bambini tra i rami del melo
non noti, poiché non attesi
ma uditi, uditi appena nel silenzio
tra due onde di mare. Su
presto, qui, ora, sempre -

Una condizione di completa semplicità
(che costa non meno di ogni cosa)
e tutto sarà bene e
ogni sorta di cose sarà bene,
quando le lingue di fiamma si incurvino
nel nodo incoronato di fuoco
e il fuoco e la rosa siano uno.

                                                                                                 di   T.S.Eliot



lunedì 9 settembre 2019


ASSENZA



San Telmo, Buenos Aires



Dovrò rialzare la vasta vita
che ancora adesso è il tuo specchio:
ogni mattina dovrò ricostruirla.
Da quando ti allontanasti, 
questi luoghi sono diventati vani
e senza senso, uguali 
a lumi del giorno.
Sere che furono nicchia della tua immagine,
musiche in cui sempre mi attendevi, 
parole di quel tempo,
io dovrò frantumarle con le mani.
In quale profondità nasconderò la mia anima
perché non veda la tua assenza
che come un sole terribile, senza occaso,
brilla definitiva e spietata?
La tua assenza mi circonda
come la corda la gola
il mare chi sprofonda.

                                                                                               di Jorge Luis Borges



venerdì 6 settembre 2019

Mentire con grazia



Office in a Small City, 1953 by Edward Hopper



Riprendo a mentire con grazia,
mi inchino rispettoso allo specchio
che riflette il mio collo e la cravatta.
Credo d’essere questo signore che esce
tutti i giorni alle nove.
Gli dei sono morti uno a uno in lunghe file
di carta e cartone.
Niente mi manca, neanche tu
mi manchi. Sento un buco, però è facile
un tamburo: pelle ai due lati.
A volte torni la sera, quando leggo
cose che tranquillizzano: bollettini,
il dollaro e la sterlina, i dibattiti
delle Nazioni Unite. Mi sembra
che la tua mano mi pettina. Non mi manchi!
Solo cose minute all’improvviso mi mancano
e vorrei ricercarle: la contentezza
e il sorriso, questo animaletto furtivo
che ormai non vive più fra le mie labbra.



                                                                                       

                                                                                                                             di Julio Cortàzar






Julio Cortázar è nato a Bruxelles nel 1914, figlio di un funzionario dell'ambasciata argentina in Belgio. È considerato fra i maggiori autori di lingua spagnola del XX secolo. Morì di leucemia nel 1984 a Parigi, dove è sepolto. Tra i suoi libri pubblicati da Einaudi, oltre a Bestiario (1965) e al Gioco del mondo. Rayuela (1969, 2013), Storie di cronopios e di famas (1971), Ottaedro (1979), Il viaggio premio (1983), Il persecutore (ultima edizione nelle «Letture Einaudi», 2017), il volume complessivo dei Racconti a cura di Ernesto Franco, nella «Biblioteca della Pléiade» (1994), Fine del gioco (2003), Carte inaspettate (2012), Gli autonauti della cosmostrada ovvero Un viaggio atemporale Parigi-Marsiglia (2012), diario di viaggio scritto a quattro mani con la moglie Carol Dunlop, Animalia (2013) e Lezioni di letteratura (2014).

domenica 1 settembre 2019

Vincendo me col lume del sorriso


Nella poesia Il sorriso di lei , pubblicata qualche giorno fa, Emily Dickinson elabora un'immagine particolarmente coinvolgente: una donna il cui viso non è diverso da tanti altri sorride, ma questo sorriso stringe in una morsa il cuore con una trafittura della gioia (secondo la felice espressione di C. S. Lewis),

... come quando
un uccello si alza in volo, vuole cantare,
poi ricorda il Proiettile che l'ha ferito

Lo spirito vorrebbe cantare, è per questo che si vola, ma una ferita dolorosa sopraggiunge...

Allora si aggrappa a un ramo sottile,
convulso, e la musica intanto si schianta
come perle finite in un pantano.   

Leonardo da Vinci, Sant'Anna, particolare
L'uccello si tiene ad un ramo sottile mentre si agita in modo convulso e il suo canto si schianta giù, come qualcosa di prezioso e raro che finisce nel fango. Tutta la forza della poesia si gioca sull'istante in cui convivono insieme, sul sorriso di lei, il desiderio del canto e la consapevolezza del dolore che sopraggiunge.

Leonardo da Vinci ha colto nel volto di Sant'Anna questa particolare qualità che il sorriso di una donna assume talvolta, quasi velata da un presentimento di dolore o da una pensosa consapevolezza.
Maria tende le braccia verso suo figlio che gioca con un agnello (prefigurazione della sua futura Passione), mentre Anna osserva la scena con un sorriso indimenticabile: presagisce che la vita di quella sua figlia non sarà come quella delle altre fanciulle, vede forse la spada che le trafiggerà il cuore? l'angoscia della Via dolorosa e del Golgota ? Sorride Anna, di fronte a un mistero che le sfugge o forse già intuisce che quella storia non finirà in un sepolcro vuoto?

La suggestione che ci spinge dietro a questo strano sorriso, in cui convivono dolore e felicità ci conduce ora ad una delle cose più belle della letteratura italiana: il sorriso di Beatrice nell'opera poetica di Dante.Tra i numerosi luoghi in cui il poeta fiorentino si sofferma su tale immagine, è in questa terzina, tratta dal canto XVIII del Paradiso che essa appare espressa in modo mirabile:

Vincendo me col lume del sorriso
ella mi disse: "Volgiti e ascolta
chè non pur ne' miei occhi è paradiso.

Si tratta, a mio personalissimo avviso, della più intensa, struggente e potente visione della gentilissima. Non a caso a proposito di questi versi il Momigliano ha scritto che la terzina "è scritta con una mano d'incomparabile leggerezza, e conserva alla Beatrice beata, insieme con la luminosità del paradiso, un'ombra, meno di un'ombra, di compiacimento femminile".
Già nella Vita Nuova tuttavia, al capitolo XXI nella parte finale del sonetto Ne li occhi porta la mia donna Amore, Dante si soffermava sul riso della donna:

Quel ch'ella par quando un poco sorride
non si può dicer né tenere a mente,
sì è novo miracolo e gentile

Gabriel Rosettti, Dante’s Dream at the Time of the Death of Beatrice

Il sorriso della gentilissima è ineffabile, la mente non può trattenerlo, è una cosa miracolosa, diversa da tutte le altre alle quali l'uomo è abituato. Non è un caso tuttavia che proprio questo sorriso sia collocato da Dante in una sezione particolare della Vita Nuova, immediatamente prima del racconto della morte del padre di lei, del suo dolore amarissimo e del suo pianto pietoso. Episodio seguito immediatamente da quello di un'esperienza personale di infermità fisica ed interiore del poeta, che culmina nel sogno-visone della morte dell'amata.
Non è possibile, nell'esperienza esistenziale ed artistica di Dante, separare il sorriso di Beatrice dalla sua morte prematura, il suo potere miracoloso dalla disperazione che la sua scomparsa terrena produce. L'alzarsi in volo dallo schianto del canto.

Il novo miracolo di questo sorriso è lo stesso a cui allude William Blake quando in una sua poesia scrive che esso:

... a fondo nel profondo del cuore penetra,
E affonda nelle midolla delle ossa -
E mai nessun Sorriso fu sorriso,
Ma solo quel sorriso solo,

Sorriso che dalla culla alla fossa
Sorridere si può una volta sola,
Quando è sorriso,
Ha fine ogni miseria.

Proprio così ... ha fine ogni miseria.