μηδὲν ἄγαν
Cuore, mio cuore, turbato da affanni senza rimedio,
sorgi, difenditi, opponendo agli avversari
il petto; e negli scontri coi nemici poniti, saldo,
di fronte a loro; e non ti vantare davanti a tutti, se vinci;
vinto, non gemere, prostrato nella tua casa.
Ma gioisci delle gioie e soffri dei dolori
non troppo: apprendi la regola che gli uomini governa.
di Archiloco
Due incisioni erano scolpite nel tempio di Apollo a Delfi, il più importante santuario dell’antichità: la prima è “Conosci te stesso” e la seconda è appunto il "nulla di troppo", l'espressione che costituisce l'architrave ideale ed emotivo della poesia di Archiloco.

La tensione tra la forza scaturita dall'energia generatrice delle profondità abissali e quella di Apollo, divinità degli Iperborei, della legge e del calmo dominio di sé percorre anche le due frasi incise sul frontone del tempio. Secondo Massimo Cacciari in queste iscrizioni possiamo individuare veri e propri paradigmi fondamentali della nostra civiltà: esse non indicano due diversi e separati ammonimenti, ma c'è un nesso intimo di dipendenza tra il conoscere se stessi e l’evitare ogni forma di hybris, ogni dismisura, ogni eccesso. Come quello vissuto da Edipo fino alla negazione di ogni possibilità o utilità della conoscenza di sé nel gesto dell'autoaccecamento. La correlazione tra le due sentenze poi è evidente anche nel noto frammento di Eraclito che dice: “per quanto tu cammini e per quante strade tu possa percorrere non incontrerai mai i confini dell’anima così profonda è la sua vera essenza”.
"Più radicalmente ancora - scrive Cacciari su «Il rasoio di Occam», L'invenzione dell'individuo: conoscersi presupporrebbe identificare in sé soggetto e oggetto (realizzare il sogno di Narciso), pensante e pensato. Ma ciò è troppo per l’uomo; sarebbe troppo anche per gli «dèi creati» Solo nell’Uno al di là di ogni determinazione quest’identità è pensabile. Ma anche «nulla di troppo» sta scritto a Delfi. Non solo, allora, l’uomo non potrà realizzare quel fine cui l’«imperativo categorico» sembrerebbe destinarlo, ma neppure deve, poiché già il fatto di volerlo perseguire è manifestazione certa di hybris. Queste opposte tendenze, questo agòn, è il Sé dell’uomo; il suo più proprio è la loro azione drammatica, il loro dran. "
E' in questo continuo ed ininterrotto confronto fra i due ammonimenti di Delfi che siamo chiamati a percorrere la via; solo sul confine tra le confuse profondità oscure dell'omphalos e il dominio della forma nelle colonne del tempio di Delfi potremo cercare il senso profondo delle cose.
Nel celebre frammento 128 West, Archiloco, il poeta soldato e mercenario, si rivolge al suo cuore, turbato da affanni senza rimedio. Lo invita a sorgere, a difendersi: è l'ora di opporre il petto agli avversari, sia che essi siano nemici in carne ed ossa, sia che, per metafora, siano tormento e afflizione a dover essere affrontati. Secondo l'etica guerriera che gli è propria, nonostante la provocatoria noncuranza con cui si vantava di aver perso lo scudo, Archiloco invita il suo cuore a stare saldo di fronte ai nemici. In effetti non c'è altro luogo dove si può onestamente stare se non lì, faccia a faccia con le sfide della propria vita. Non c'è nel poeta di Paros autocommiserazione o rimpianto, non imputa ad altri la propria condizione e non cerca scampo nella vergognosa fuga. Hic et nunc, solo l'attimo irripetibile in cui è possibile plasmare la propria vita. Il senso di realtà, virtù eminentemente kṣatriyaḥ, conduce poi alla profonda consapevolezza della natura umana: se vinci non vantarti e non gemere prostrato in casa nella sconfitta.
Ma gioisci delle gioie e soffri dei dolori
non troppo...
Quanto appare lontana questa forma dello spirito greco da quello moderno, per il quale la gioia si atrofizza nel timore del trascorrere del tempo e il dolore stritola e annichilisce occupando il futuro con il suo imperio spietato.
Non possiamo fare a meno della sapienza di Delfi e dell'amabile dono che le Muse diedero ad Archiloco. La nostra rotta passa ancora lungo queste coordinate.