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sabato 29 febbraio 2020

Cuore, mio cuore


μηδὲν ἄγαν 


Cuore, mio cuore, turbato da affanni senza rimedio,
sorgi, difenditi, opponendo agli avversari
il petto; e negli scontri coi nemici poniti, saldo,
di fronte a loro; e non ti vantare davanti a tutti, se vinci;
vinto, non gemere, prostrato nella tua casa.
Ma gioisci delle gioie e soffri dei dolori
non troppo: apprendi la regola che gli uomini governa.

          di Archiloco


Due incisioni erano scolpite nel tempio di Apollo a Delfi, il più importante santuario dell’antichità: la prima è “Conosci te stesso” e la seconda è appunto il "nulla di troppo", l'espressione che costituisce l'architrave ideale ed emotivo della poesia di Archiloco.
Il tempio di Delfi ospitava la sacerdotessa di Apollo, la Pizia, famosa per i suoi responsi oracolari; a questo luogo convenivano genti da tutta l'Ellade per cercare risposte. Delfi aveva una storia oracolare che precedeva la presenza di Apollo e la stessa civilizzazione greca, nell'area sacra infatti coesistono la forza tellurica della Madre Terra (l'omphalos, la discesa della sacerdotessa nell'andito, la voragine che penetra nelle regioni sotterranee) e la spiritualità apolinnea (la antica leggenda delle due aquile liberate da Zeus ai confini del mondo che si riuniscono a Delfi, la maneisa - il delirio - della sacerdotessa che Platone paragona all'ispirazione poetica donata delle Muse e al trasporto amoroso di Afrodite. Discesa nelle profondità della terra, evocazione dell'energia tellurica della Grande Madre da una parte e dall'altra visione che diventa forma, il delirio sotto il controllo del dio che dà forma alle cose, il delirio che diventa conoscenza del passato e del futuro, le parole che si strutturano nel codice dei responsi rivelato agli exegetai - agli interpreti - che lo svelano in una condizione interiore di calma, di serena concentrazione.

La tensione tra la forza scaturita dall'energia generatrice delle profondità abissali e quella di Apollo, divinità degli Iperborei, della legge e del calmo dominio di sé percorre anche le due frasi incise sul frontone del tempio. Secondo Massimo Cacciari in queste iscrizioni possiamo individuare veri e propri paradigmi fondamentali della nostra civiltà: esse non indicano due diversi e separati ammonimenti, ma c'è un nesso intimo di dipendenza tra il conoscere se stessi e l’evitare ogni forma di hybris, ogni dismisura, ogni eccesso. Come quello vissuto da Edipo fino alla negazione di ogni possibilità o utilità della conoscenza di sé nel gesto dell'autoaccecamento.  La correlazione tra le due sentenze poi è evidente anche nel noto frammento di Eraclito che dice: “per quanto tu cammini e per quante strade tu possa percorrere non incontrerai mai i confini dell’anima così profonda è la sua vera essenza”. 

"Più radicalmente ancora - scrive Cacciari su «Il rasoio di Occam»,  L'invenzione dell'individuo: conoscersi presupporrebbe identificare in sé soggetto e oggetto (realizzare il sogno di Narciso), pensante e pensato. Ma ciò è troppo per l’uomo; sarebbe troppo anche per gli «dèi creati» Solo nell’Uno al di là di ogni determinazione quest’identità è pensabile. Ma anche «nulla di troppo» sta scritto a Delfi. Non solo, allora, l’uomo non potrà realizzare quel fine cui l’«imperativo categorico» sembrerebbe destinarlo, ma neppure deve, poiché già il fatto di volerlo perseguire è manifestazione certa di hybris. Queste opposte tendenze, questo agòn, è il Sé dell’uomo; il suo più proprio è la loro azione drammatica, il loro dran. "

E' in questo continuo ed ininterrotto confronto fra i due ammonimenti di Delfi che siamo chiamati a percorrere la via; solo sul confine tra le confuse profondità oscure dell'omphalos e il dominio della forma nelle colonne del tempio di Delfi potremo cercare il senso profondo delle cose. 

Nel celebre frammento 128 West, Archiloco, il poeta soldato e mercenario, si rivolge al suo cuore, turbato da affanni senza rimedio. Lo invita a sorgere, a difendersi: è l'ora di opporre il petto agli avversari, sia che essi siano nemici in carne ed ossa, sia che, per metafora, siano tormento e afflizione a dover essere affrontati. Secondo l'etica guerriera che gli è propria, nonostante la provocatoria noncuranza con cui si vantava di aver perso lo scudo, Archiloco invita il suo cuore a stare saldo di fronte ai nemici. In effetti non c'è altro luogo dove si può onestamente stare se non lì, faccia a faccia con le sfide della propria vita. Non c'è nel poeta di Paros autocommiserazione o rimpianto, non imputa ad altri la propria condizione e non cerca scampo nella vergognosa fuga. Hic et nunc, solo l'attimo irripetibile in cui è possibile plasmare la propria vita. Il senso di realtà, virtù eminentemente kṣatriyaḥ, conduce poi alla profonda consapevolezza della natura umana: se vinci non vantarti e non gemere prostrato in casa nella sconfitta. 

Ma gioisci delle gioie e soffri dei dolori
non troppo...


Quanto appare lontana questa forma dello spirito greco da quello moderno, per il quale la  gioia si atrofizza nel timore del trascorrere del tempo e il dolore stritola e annichilisce occupando il futuro con il suo imperio spietato. 

Non possiamo fare a meno della sapienza di Delfi e dell'amabile dono che le Muse diedero ad Archiloco. La nostra rotta passa ancora lungo queste coordinate.

martedì 25 febbraio 2020

per iscoprire la fenditura della pietra


Essere un bel pino italico
sopra un colle romano,
quando la luna è colma;
e sentire il vento della notte
muovere le tenere cime
che rinascono in mezzo ai vecchi aghi
in sommo dei vecchi rami
rosee come dita di pargoli.

Essere il più alto e il più fosco cipresso
della Villa d’Este,
dopo il crepuscolo,
quando la fontana
rimuove il velo del capelvenere
dalla sua orecchia stillante
per ispiare il romore remoto
della cascata tiburtina;
e palpare la grazia della sera
con il chiaro verde sensibile
che orla il fogliame funerario.

Essere nel Fòro
lo spirito di una cieca erba
e penare paziente
per iscoprire la fenditura della pietra
veneranda
su cui scalpitarono i Trionfi;
e alfine trovarla,
e far forza con l’esile capo,
e spuntare, e inverdire, e gioire del sole
che mai vide alcuna cosa più grande di Roma.

di Gabriele D'Annunzio da Notturno


domenica 23 febbraio 2020

Padre, se anche tu non fossi il mio



Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
per te stesso egualmente t’amerei.
Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno
che la prima viola sull’opposto
muro scopristi dalla tua finestra
e ce ne desti la novella allegro.
Poi la scala di legno tolta in spalla
di casa uscisti e l’appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.

E di quell’altra volta mi ricordo
che la sorella mia piccola ancora
per la casa inseguivi minacciando
(la caparbia avea fatto non so che).
Ma raggiuntala che strillava forte
dalla paura ti mancava il cuore:
ché avevi visto te inseguir la tua
piccola figlia, e tutta spaventata
tu vacillante l’attiravi al petto,
e con carezze dentro le tue braccia
l’avviluppavi come per difenderla
da quel cattivo ch’era il tu di prima.

Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t’amerei.



Portami ancora per mano – Poesie per il padre (Crocetti, 2001)

A volte lungo la strada verso una stella tenue ci imbattiamo nel dolore di un altro viaggiatore. A questo mio compagno di viaggio dedico questa bella poesia di Camillo Sbarbaro.


mercoledì 19 febbraio 2020

Davanti alla canzone dei deboli, accesi la mia voce di tramonti



QUASI GIUDIZIO FINALE


Il mio girovago far niente vive e si scatena  nella varietà della notte
La notte è una festa lunga e sola.
Nel mio segreto cuore io mi giustifico ed esalto:
ho testimoniato il mondo; ho confessato la rarità del mondo.
Ho cantato l'eterno: la chiara luna ritornante e le guance che invogliano l'amore.
Ho commemorato con versi la città che mi cinge e i sobborghi che si straziano.
Ho detto stupore dove altri dicono soltanto abitudine.
Davanti alla canzone dei deboli, accesi la mia voce di tramonti.
Gli antenati del mio sangue e gli antenati dei miei sogni ho esaltato e cantato.
Sono stato e sono.
Ho legato con salde parole il mio sentimento che poté essersi dissipato in tenerezza.
Il ritorno di una antica viltà ritorna al mio cuore.
Come il cavallo morto che la marea infligge alla spiaggia, ritorna al mio cuore.
Stanno ancora accanto a me, comunque, le strade e la luna.
L'acqua continua ad essere dolce nella mia bocca e le strofe non mi negano la loro grazia.
Sento lo sgomento della bellezza: chi oserà condannarmi se questa grande luna della mia solitudine                                                                                                                  [ mi perdona?

di Jorge Luis Borges

martedì 11 febbraio 2020





ELICONA PERSONALE
a Michael Longley


Da bambino non potevano tenermi lontano da pozzi
e vecchie pompe con argano e secchio.
Adoravo la discesa nel buio, il cielo intrappolato, gli olezzi
d’erbaccia acquatica, funghi e umido muschio.

Uno, in una mattonaia, aveva un’asse marcia sul colmo.
Gustavo l’intenso impatto quando un secchio
vi cadeva alla fine di una corda a piombo.
Così profondo che non vi si vedeva specchio.

Uno, sotto un muretto a secco, poco profondo,
fruttificava come un acquario. E se tiravi
lunghe radici dal pacciame sul fondo
un viso bianco vi aleggiava.

Altri avevano echi, restituivano i richiami
con una nuova nitida musica. E un altro
metteva paura perché laggiù, tra felci e digitali,
attraverso il mio riflesso schizzò un ratto.

Adesso, curiosare tra radici, tastare il limo,
contemplare, Narciso dai grandi occhi, qualche sorgente
va oltre ogni dignità di adulto. Rimo,
per potermi vedere, per rendere il buio echeggiante.


di Seamus Heaney

da Death of a Naturalist, 1966, traduzione di Marco Sonzogni

Il poeta irlandese Seamus Heaney (Mossbawn, Castledawson, Irlanda del Nord, 13 aprile 1939; Dublino, Repubblica d’Irlanda, 30 agosto 2013) ha rappresentato una delle voci più significative ed intense della letteratura mondiale, ha ottenuto nel 1995 il premio Nobel. Nel 2016 è uscito il Meridiano a lui dedicato a cura di Marco Sonzogni.

Il monte Elicona al quale si fa riferimento nella poesia si trova in Grecia, tra le sue balze vi era la sorgente Ippocrene, cara alle Muse. Chi si abbeverava alle acque che da essa scaturivano riceveva dalle dee l'ispirazione poetica. Il primo ad ottenere tale dono fu Esiodo che le aveva incontrate mentre pascolava le sue greggi sulle pendici del monte. Furono loro a ispirargli la Teogonia.

La sua Elicona personale Heaney la trovava tra vecchi pozzi, con argani e secchi, nel cielo intrappolato, fra gli odori d’erbaccia acquatica, funghi e umido muschio. Un ragazzo gioca tra un asse marcio e il rumore del secchio che cade a piombo su uno specchio di cui non si vede il riflesso. Il richiamo di una musica o di un'eco, un muretto a secco, la paura per un ratto che all'improvviso si palesa formano un insieme di suoni ed immagini da cui scaturisce la sua vocazione poetica. Sono come la fonte di Ippocrene. E' lì che Heaney ha incontrato le sue Muse: una terra viva di odori, tradizioni e colori, straziata da oppressione e tirannia . Il suo paesaggio, il suo orizzonte, le sue radici.

Nell'ultima stanza la voce del poeta ci confessa, con un tono in qualche modo amaro, che quei giochi non si addicono alla dignità di un adulto. Solo la poesia rimane, l'arte del rapsodo

... Rimo,
per potermi vedere, per rendere il buio echeggiante.

sabato 8 febbraio 2020

Sono abitata da un grido

"Albero di Olmo", fotografia di Kim Murphy


OLMO

Conosco il fondo, dice. Lo conosco con la mia grossa radice:
è quello di cui tu hai paura.
Io non ne ho paura: ci sono stata.

È il mare che senti in me,
le sue insoddisfazioni?
O la voce del nulla, che era la tua pazzia?

L’amore è un’ombra.
Come lo insegui con menzogne e pianti.
Ascolta: ecco i suoi zoccoli: è corso via, come un cavallo.

Per tutta la notte galopperò così, impetuosamente,
finché la tua testa non sarà una pietra, il tuo cuscino una zolla,
rimandando echi ed echi.

O vuoi che ti porti il suono dei veleni?
Ecco, questa è la pioggia ora, questo grande azzittirsi.
E questo è il suo frutto: bianco-stagno, come arsenico.

Ho patito l’atrocità dei tramonti.
Bruciati fino alla radice
i miei filamenti rossi ardono ritti, una mano di fili di ferro.

Ora mi rompo in pezzi che volano intorno come clave.
Un vento di tale violenza
non tollera neutralità: devo urlare.

Anche la luna è spietata: vuole trascinarmi
crudelmente, lei che è sterile
Il suo splendore mi folgora. O forse l’ho catturata.

La lascio andare. La lascio andare
diminuita e piatta, come dopo un intervento radicale.
Come mi possiedono e mi colmano i tuoi brutti sogni.

Sono abitata da un grido.
Di notte esce svolazzando
in cerca, con i suoi uncini, di qualcosa da amare.

Mi terrorizza questa cosa scura
che dorme in me;
tutto il giorno ne sento il tacito rivoltarsi piumato, la malignità.

Le nuvole passano e si disperdono.
Sono quelli i volti dell’amore, quelle pallide irrecuperabilità?
È per questo che agito il mio cuore?

Sono incapace di maggiore conoscenza.
Che cos’è questo, questa faccia
così assassina nel suo strangolio di rami? –

Sibilano i suoi acidi serpentini.
Pietrificano la volontà. Queste sono le colpe isolate e lente
che uccidono e uccidono e uccidono.



di Sylvia Plath, traduzione di Giovanni Giudici


Mi chiedi da un po' di commentare questa poesia per te. La porti dentro, lo capisco e mi colpisce quanto ti rispecchi in quel verso incandescente Sono abitata da un grido. Eccoci allora, fermiamoci per qualche tempo, come sul ciglio di una strada faticosa.

E' il 19 aprile 1962 quando Sylvia Plath scrive Olmo, poco meno di un anno ci vorrà a quel giorno di febbraio in cui metterà fine alla sua dolorosa vita. La poesia è scritta su un confine, su un limite non ancora precisato e chiaro, alle soglie di ciò che fa ancora gridare, prima, forse solo un attimo prima che non si abbia più nemmeno voglia o necessità di gridare.

Su questa terra di confine dunque prende avvio il dialogo con un albero, forse uno di quelli che la poetessa poteva osservare dalla sua casa, è l'Olmo che dà il titolo alla poesia. Parla e una voce risponde, ma non è sempre facile capire chi sta parlando (anche per il fatto che l'Olmo nell'originale inglese è di genere femminile), fino a che le due voci, le due esperienze del dolore del mondo sembrano confondersi, diventare una sola nota dolente. 

Il primo verso conferisce quel tono oscuro che domina l'intero componimento. Conosco il fondo, dice l'Olmo nella prima stanza.  Le sue radici lo hanno esplorato, si sono fatte largo tra pietre ed oscurità; poi aggiunge: è quello di cui tu hai paura, ma l'altra voce, senza alcun compiacimento, conclude che non può avere timore, Io non ne ho paura: ci sono stata. Qui mi sembra marcata la differenza tra i due, mentre l'albero "conosce", trae vigore e forza dal fondo che giace sotto di lui, l'io lirico no. Il massimo che possiamo dire è che ne ha un'esperienza così profonda da non doverlo temere più, come forse dovrebbe. 

Il dialogo continua nelle stanze successive, l'Olmo parla della sua vita, delle sue sofferenze ed esperienze, mentre la donna a cui l'albero si rivolge va scoprendo una comune identità interiore e fisica. La voce del mare che reca con sé l'insoddisfazione del nulla o la pazzia; la pioggia che lascia pozze di bianco veleno, il calore del sole con i rami bruciati fino alla radice ... i miei filamenti rossi ardono ritti, una mano di fili di ferro, il verso in cui qualcuno ha proposto di scorgere l'allusione alla pratica dell'elettroshock subita dall'autrice. Le sensazioni passano dall'Olmo alla donna e da questa all'albero fino alle stanze 10 e 11, che segnano un punto di svolta dopo il quale le voci della donna e dell'albero diventano indistinguibili.

La stretta della sventura si chiude su entrambi: ecco il verso che ha giustamente attirato la tua attenzione: Sono abitata da un grido che è dell'albero quanto della donna, ma ecco anche le nuvole effimere che passano e si disperdono, le pallide irrecuperabilità che segnano e scavano la corteccia ed il cuore, allo stesso modo, con la stessa indifferenza. 

La stanza che si apre con il verso Sono incapace di maggiore conoscenza riprende l'inizio della poesia, quando l'Olmo aveva detto di conoscere il fondo. Per quanto le grosse radici abbiano scavato nella terra, per quanto la donna abbia sofferto, non sembra esserci limite alla desolazione. Le voci si fondono davvero in un congedo che va spegnendosi nella ripetizione:

... che uccidono e uccidono e uccidono