Cerca nel blog

sabato 8 febbraio 2020

Sono abitata da un grido

"Albero di Olmo", fotografia di Kim Murphy


OLMO

Conosco il fondo, dice. Lo conosco con la mia grossa radice:
è quello di cui tu hai paura.
Io non ne ho paura: ci sono stata.

È il mare che senti in me,
le sue insoddisfazioni?
O la voce del nulla, che era la tua pazzia?

L’amore è un’ombra.
Come lo insegui con menzogne e pianti.
Ascolta: ecco i suoi zoccoli: è corso via, come un cavallo.

Per tutta la notte galopperò così, impetuosamente,
finché la tua testa non sarà una pietra, il tuo cuscino una zolla,
rimandando echi ed echi.

O vuoi che ti porti il suono dei veleni?
Ecco, questa è la pioggia ora, questo grande azzittirsi.
E questo è il suo frutto: bianco-stagno, come arsenico.

Ho patito l’atrocità dei tramonti.
Bruciati fino alla radice
i miei filamenti rossi ardono ritti, una mano di fili di ferro.

Ora mi rompo in pezzi che volano intorno come clave.
Un vento di tale violenza
non tollera neutralità: devo urlare.

Anche la luna è spietata: vuole trascinarmi
crudelmente, lei che è sterile
Il suo splendore mi folgora. O forse l’ho catturata.

La lascio andare. La lascio andare
diminuita e piatta, come dopo un intervento radicale.
Come mi possiedono e mi colmano i tuoi brutti sogni.

Sono abitata da un grido.
Di notte esce svolazzando
in cerca, con i suoi uncini, di qualcosa da amare.

Mi terrorizza questa cosa scura
che dorme in me;
tutto il giorno ne sento il tacito rivoltarsi piumato, la malignità.

Le nuvole passano e si disperdono.
Sono quelli i volti dell’amore, quelle pallide irrecuperabilità?
È per questo che agito il mio cuore?

Sono incapace di maggiore conoscenza.
Che cos’è questo, questa faccia
così assassina nel suo strangolio di rami? –

Sibilano i suoi acidi serpentini.
Pietrificano la volontà. Queste sono le colpe isolate e lente
che uccidono e uccidono e uccidono.



di Sylvia Plath, traduzione di Giovanni Giudici


Mi chiedi da un po' di commentare questa poesia per te. La porti dentro, lo capisco e mi colpisce quanto ti rispecchi in quel verso incandescente Sono abitata da un grido. Eccoci allora, fermiamoci per qualche tempo, come sul ciglio di una strada faticosa.

E' il 19 aprile 1962 quando Sylvia Plath scrive Olmo, poco meno di un anno ci vorrà a quel giorno di febbraio in cui metterà fine alla sua dolorosa vita. La poesia è scritta su un confine, su un limite non ancora precisato e chiaro, alle soglie di ciò che fa ancora gridare, prima, forse solo un attimo prima che non si abbia più nemmeno voglia o necessità di gridare.

Su questa terra di confine dunque prende avvio il dialogo con un albero, forse uno di quelli che la poetessa poteva osservare dalla sua casa, è l'Olmo che dà il titolo alla poesia. Parla e una voce risponde, ma non è sempre facile capire chi sta parlando (anche per il fatto che l'Olmo nell'originale inglese è di genere femminile), fino a che le due voci, le due esperienze del dolore del mondo sembrano confondersi, diventare una sola nota dolente. 

Il primo verso conferisce quel tono oscuro che domina l'intero componimento. Conosco il fondo, dice l'Olmo nella prima stanza.  Le sue radici lo hanno esplorato, si sono fatte largo tra pietre ed oscurità; poi aggiunge: è quello di cui tu hai paura, ma l'altra voce, senza alcun compiacimento, conclude che non può avere timore, Io non ne ho paura: ci sono stata. Qui mi sembra marcata la differenza tra i due, mentre l'albero "conosce", trae vigore e forza dal fondo che giace sotto di lui, l'io lirico no. Il massimo che possiamo dire è che ne ha un'esperienza così profonda da non doverlo temere più, come forse dovrebbe. 

Il dialogo continua nelle stanze successive, l'Olmo parla della sua vita, delle sue sofferenze ed esperienze, mentre la donna a cui l'albero si rivolge va scoprendo una comune identità interiore e fisica. La voce del mare che reca con sé l'insoddisfazione del nulla o la pazzia; la pioggia che lascia pozze di bianco veleno, il calore del sole con i rami bruciati fino alla radice ... i miei filamenti rossi ardono ritti, una mano di fili di ferro, il verso in cui qualcuno ha proposto di scorgere l'allusione alla pratica dell'elettroshock subita dall'autrice. Le sensazioni passano dall'Olmo alla donna e da questa all'albero fino alle stanze 10 e 11, che segnano un punto di svolta dopo il quale le voci della donna e dell'albero diventano indistinguibili.

La stretta della sventura si chiude su entrambi: ecco il verso che ha giustamente attirato la tua attenzione: Sono abitata da un grido che è dell'albero quanto della donna, ma ecco anche le nuvole effimere che passano e si disperdono, le pallide irrecuperabilità che segnano e scavano la corteccia ed il cuore, allo stesso modo, con la stessa indifferenza. 

La stanza che si apre con il verso Sono incapace di maggiore conoscenza riprende l'inizio della poesia, quando l'Olmo aveva detto di conoscere il fondo. Per quanto le grosse radici abbiano scavato nella terra, per quanto la donna abbia sofferto, non sembra esserci limite alla desolazione. Le voci si fondono davvero in un congedo che va spegnendosi nella ripetizione:

... che uccidono e uccidono e uccidono



1 commento:

  1. questa poetessa mi turba perché la sua vita e la sua poesia sembra da subito segnata da un ineluttabile fosco destino. Nonostante conoscerà il successo e l'amore, la sua anima e la sua persona sono abitate da un grido costante, da ombre. La natura non dona conforto, la donna si identifica con essa, ma sembra coglierne solo l'atrocità e la spietatezza dei suoi elementi. E' incapace di maggiore conoscenza.

    RispondiElimina