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sabato 28 marzo 2020

destarsi fremendo al richiamo di Orfeo





II, 26

Come ci prende il grido degli uccelli...
Qualsiasi grido al suo crearsi primo.
Ma i bimbi già, all'aperto giocando,
alzano gridi accanto al grido vero.

 Gridano il caso. Dentro le fessure
dello spazio (ove penetra d'uccelli
puro il grido, come uomini nei sogni)
spingono i cunei dello strillo acuto.

 Ah, dove siamo noi? Sempre più liberi
come aquiloni a sbando, ci si butta
a mezzaria, con margini di risa,

laceri al vento. Ordina tu chi grida.
Iddio del canto - e fremendo si destino
in flutti, il capo recando e la lira.

Rainer Maria Rilke, dai "Sonetti a Orfeo", traduzione di Rina Sara Virgillito (Garzanti 2000)


Scrive Emile Cioran in uno dei Sillogismi dell'amarezza che "Anche quando siamo a mille miglia dalla poesia, partecipiamo ancora ad essa per questo bisogno improvviso di urlare - stadio ultimo del lirismo". Il dire poetico dunque è prossimo ad un bisogno improvviso di urlare, scaturisce dal profondo, emerge prepotente, come un urlo che non si può trattenere.

In modo per certi versi simile, nella poesia di Rilke sono associati insieme il grido e il poetare: qualsiasi grido fin dal suo primo crearsi, ma anche il grido di bambini che giocano all'aperto e infine quello che si ode quando nelle fessure dello spazio conficcano i cunei dello strillo acuto. Non più solo un grido, ma già uno strillogridano il caso. Di fronte a queste varie grida stanno gli uomini, evocati nel noi a cui è rivolta la domanda fondamentale, quella che non dovremmo dimenticare di farci: Ah, dove siamo noi? Siamo come aquiloni a sbando, che s'affrettano, buttati a mezz'aria, con margini di risa. Ora salgono, ora discendono veloci, laceri al vento. 

Come è noto, occasione reale - e non letteraria - dei "Sonetti a Orfeo" è la volontà di erigere un "monumento funebre" per la giovane Wera Ouckama Knoop, un'amica di famiglia morta precocemente di leucemia. Wera era una giovane artista, una talentuosa ballerina che era stata ammessa come membro permanente al corpo di ballo dell'Opera di Berlino. Rilke vide nella morte e nelle sofferenze di questa giovane votata all'arte, piena di speranze la lacerazione profonda che quelle speranze scuote e spezza, come i fili degli aquiloni strappatiNell'immagine che apre la poesia si salda forse, al dolore per la morte della giovane, anche la memoria delle gioie proprie della fanciullezza che al poeta furono negate. In ogni caso tutto, in questa prima parte della poesia, è nel segno del contrasto: c'è il grido alzato dai bambini accanto al grido vero, in un movimento errabondo, vago, senza un fine preciso, forse senza nemmeno una direzione. La vita è, di tanto in tanto, gioco felice, ma anche margini di risa, un aquilone senza filo trascinato dalla furia di un vento che diviene tempesta.

E' nella terzina finale che la poesia prende una svolta improvvisa, segnalata dallo scarto dell'avversativa e dal tu, con cui l'io lirico si rivolge al dio del canto, Orfeo. Il riferimento è ovviamente al dio, che già Pindaro chiamava "padre dei canti". Nella tradizione del mito Orfeo, inventa, suona la lira e canta, cioè è poeta, intesse storie di déi che mascherano la sapienza. L'arte del dio non deve essere interpretata come illusione consolatrice di fronte all'angoscia della vita o come pure illusorietà  - ce lo ha insegnato Giorgio Colli ne "La sapienza greca". E ben di più si chiede ad Orfeo nella poesia di Rilke: ordina tu chi grida!  Trasformare il grido in canto, il suono in armonia e musica, la lacerazione dell'angoscia in sapere esistenziale, è questa l'arte di Orfeo, un’arte che come nessun’altra riesce a chinarsi sulla musica dell’intangibile e dell’invisibile, i gridi nelle loro varie tonalità e intenzioni della nostra poesia - ma anche, altrove nei Sonetti, sulla foglia, sulla radice, sul letame, sulla pietra - per dire come la poesia, “fatta di pietre le più periture,/ edifica nello spazio inusabile la propria divina dimora” (2: X: 13–14).

domenica 22 marzo 2020

ricordate il vento del mattino e la steppa in argento?





Cari compagni di strada che con noi divideste l'asilo notturno!
Verste, e verste, e verste, e pane raffermo...
Rimbombo dei carri zigani,
di fiumi che fuggono a ritroso -
rimbombo...

Ah, nella precoce, paradisiaca, zigana aurora,
ricordate il vento del mattino e la steppa in argento?
La fumata turchina sulla montagna
e del re zigano -
la canzone ? ...

Nella nera mezzanotte, sotto la cortina dei rami antichi,

noi vi regalammo stupendi - come la notte - figli,
miseri - come la notte - figli, 
e rimbombava l'usignolo -
di gloria.

Non vi trattennero, compagni di strada di un'età portentosa,

le nostre povere voluttà e i poveri nostri conviti.

Ardenti fiammeggiavano i falò,

ci cadevano addosso sui tappeti -
gli astri ...


29 gennaio 1917

       di Marina Cvetaeva

Ci sono poesie che sono come un portale magico, o come una cabina di teletrasporto in un'astronave. Insomma, in un attimo sei lì, dove i versi ti precipitano, in un paesaggio di "interminati spazi", verste, e verste, e verste di cammino, condividendo pane raffermo, tra il rimbombo dei carri zigani e quello dei fiumi che fuggono a ritroso. Siamo in Russia lungo una strada che sembra non finire mai, ci accompagnano alcuni cari compagni di strada, con i quali a sera ci fermiamo per dividere l'asilo notturno. Una strofa appena e non ci sono più le mura di casa attorno, i corridoi che in queste giornate di quarantena percorriamo, gli oggetti quotidiani della nostra secessione dalla vita sociale.

Tutto è nel segno di un'esistenza girovaga, persino l'aurora si sveglia fuggendo ai suoi obblighi e reclama il diritto ad essere zigana; anche lei, di solito così puntuale. E l'immaginazione si lascia portare dal vento del mattino, percorre con lui la steppa vestita in argento, tende l'orecchio alla canzone del re zigano.

In ogni poesia, per quanto sia bella c'è sempre un verso in cui sembra che il poeta sia riuscito a concentrare una forza espressiva non comune, che urge e afferra e non lascia scampo. Per me Marina Cvetaeva ha fatto una specie di magia nell'ultima strofa: 

Ardenti fiammeggiavano i falò,
ci cadevano addosso sui tappeti -
gli astri ...





martedì 17 marzo 2020

Io vengo da mari lontani




J.M. William Turner, Stormy Sea with Blazing Wreck, Tate Gallery


Il porto

Io vengo da mari lontani –
io sono una nave sferzata
dai flutti
dai venti –
corrosa dal sole –
macerata
dagli uragani –

io vengo da mari lontani
e carica d'innumeri cose
disfatte
di frutti strani
corrotti
di sete vermiglie
spaccate –
stremate
le braccia lucenti dei mozzi
e sradicate le antenne
spente le vele
ammollite le corde
fracidi
gli assi dei ponti –

io sono una nave
una nave che porta
in sé l'orma di tutti i tramonti
solcati sofferti –
io sono una nave che cerca
per tutte le rive
un approdo.
Risogna la nave ferita
il primissimo porto –
che vale
se sopra la scia
del suo viaggio
ricade
l'ondata sfinita?

Oh, il cuore ben sa
la sua scia
ritrovare
dentro tutte le onde!
Oh, il cuore ben sa
ritornare
al suo lido! 

O tu, lido eterno –
tu, nido
ultimo della mia anima migrante –
o tu, terra –
tu, patria –
tu, radice profonda
del mio cammino sulle acque –
o tu, quiete
della mia errabonda
pena –
oh, accoglimi tu
fra i tuoi moli –
tu, porto –
e in te sia il cadere
d'ogni carico morto –
nel tuo grembo il calare
lento dell'ancora –
nel tuo cuore il sognare
di una sera velata –
quando per troppa vecchiezza
per troppa stanchezza
naufragherà
nelle tue mute
acque
la greve nave
sfasciata –

20 febbraio 1933

da "Parole" di Antonia Pozzi

Accade, camminando per sentieri poco battuti, di imbattersi in luoghi dove altri viaggiatori ci hanno preceduto: a volte sono orme di passi a indicare che la via non è persa, a volte segni appena visibili, lasciati di proposito. E ci sono luoghi dove le strade dei viaggiatori si incontrano, una rifugio in alta quota o un bivacco, un nascosto approdo, un piccolo porto. Si raccontano qui i viandanti delle strade che hanno percorso, delle rotte che hanno in cuore di intraprendere o scoprire.

La poesia di Antonia Pozzi "Il porto" l'ho conosciuta così, nasce da un'amicizia maturata  tra le colline della Galizia, alla luce di albe sorte fra boschi e torrenti. Non conoscevo la dolorosa storia di questa poetessa, il cui nome non compare quasi mai nelle raccolte antologiche della poesia del '900. Anche se un posto lo meriterebbe. Di lei vorrei ricordare qui solo il suo grande amore per le montagne e ciò che Eugenio Montale di Antonia Pozzi ebbe a dire:
 «Anima di eccezionale purezza e sensibilità, che non poté reggere al peso della vita, Antonia Pozzi richiede una lettura che faccia vivere in noi gli sviluppi ch’essa conteneva e non espresse che in parte; […] voce leggera, pochissimo bisognosa di appoggi, essa tende a bruciare le sillabe nello spazio bianco della pagina» (dalla Prefazione all’edizione delle poesie di Antonia Pozzi intitolata Parole, Milano, Mondadori, 1948).









mercoledì 11 marzo 2020




Bisanzio VII

Qualcuno, forse, nella sapiente compagnia delle anime nostre
passeggerà sopra il filo di queste mura dove abbiamo
guardato il sole pieno di rame chino sulla misura della notte;
secernerà il mare argento e ondate sulla ghiaia
abbracciata da futura tenerezza; l’aria sarà turchina
del fumo dei nostri nomi;
ma chi ci capirà?
perché sarà spostato il centro, le immagini diverse,
– unite forse con lo stelo: forse il fiore -
e le azioni d’amore unite nel discorso, nella lingua;
ma chi allora vorrà comporre il racconto
da queste sillabe sparse, dai gridi
ritratti a caso in un vetusto specchio,
nel muoversi dell’onda? E perché?
E c’è domani posto per questa rottura
nel tranquillo ricordo degli angeli, nel liscio
ricordo di acqua giovane? Nel ricordo dell’amante?
E ci vorranno forse i quadri traditi
del nostro amore, e guardie del deserto 
con sabbia nei polmoni, questa lingua scarsa di sventura,
rapida pena alla maturità, sconfitta decretata?
O sarà senza noi più preciso l’equilibrio,
e più bella senza nostre voci la lingua degli amanti
miste con la morte come il vento con la fiamma,
come la sorgente con la foce?

di Ivan V. Lalić, traduzione di Eros Sequi


E' sulla sommità delle mura di Bisanzio - la città che visse tre volte - che le parole di Ivan Lalić ci portano: qualcuno vi passeggerà, accompagnato dalla sapiente compagnia delle nostre anime. Un pronome indefinito, un uomo sconosciuto di un futuro incerto e un noi, le anime nostre, che qui venivano a guardare il sole chino sulla misura della notte. La visione del sole e del mare d'argento non ha cessato di diffondere il suo incanto,  l’aria sarà turchina del fumo dei nostri nomi.  Un verso spettacolare. La voce indistinta che sale da quel noi preannuncia il colore azzurro di cui l'aria si tingerà a causa del fumo dei nomi di quelli che non ci sono più. Ma come può nascere l'azzurro dal grigio del fumo? l'allegrezza di quel cielo dalla mestizia di quella memoria che svanisce? Come è possibile che quella pienezza del vivere sotto il sole del Corno d'Oro abbia a che fare con l'evanescenza di un ricordo in sui si sperdono i nomi del passato?

Un arcano, un misterioso legame deve pur esserci, se no il poeta serbo non farebbe dire a quel noi

ma chi ci capirà?

Il ma infatti è di grande importanza, collega le due preposizioni mostrandoci il legame avversativo che le tiene insieme, il contrasto che le lega. Chi ci capirà del resto implica che il noi della poesia stia parlando o abbia provato a farlo in uno sforzo tenace/di vestire di carne l’astrazione, come Lalić scrive in una delle sue liriche più conosciute, Nota sulla poetica. Credo che il poeta abbia voluto rappresentare con queste voci di fumo, che parlano dal passato, il significato stesso del poetare. Mi sembra che lo confermino i versi seguenti, dove vediamo addensarsi le espressioni che richiamano l'arte poetica: le immagini sono unite con lo stelo o con un fiore (una metafora?), le azioni d’amore sono unite nel discorso, nella lingua; chi allora - si chiede la voce del noi - vorrà comporre il racconto / da queste sillabe sparse, dai gridi / ritratti a caso in un vetusto specchio ?  Non è certo un caso che questa straordinaria e preziosa immagine dello specchio compaia anche nel componimento che abbiamo già avuto modo di citare, Nota sulla poetica, nel quale Lalić paragona l'arte poetica a uno stare innanzi allo specchio, privo di timore / dell’immagine riflessa ...

Le domande, gli interrogativi si fanno serrati, incalzanti; le parole, le immagini hanno una forza evocativa che scaturisce da accostamenti inconsueti di parole spesso comuni: serviranno ancora i quadri traditi / del nostro amore, la lingua scarsa di sventura

Non vuole distribuire facili certezze, il poeta serbo e sa che il futuro, quello in cui qualcuno passeggerà sulle antiche mura della città, potrebbe anche essere un futuro senza quelle voci, senza i racconti che da sempre hanno reso bella la lingua degli amanti. Parole depositate dai miti e dalle leggende che hanno attraversato confini e secoli, che sono miste con la morte come il vento con la fiamma, / come la sorgente con la foce. 




domenica 8 marzo 2020

Ogni vita converge a qualche centro


Fotografia di Andrew Bergh


Ogni vita converge a qualche centro,
Dichiarato o taciuto.
Esiste in ogni cuore umano
Una mèta

Ch'esso forse osa appena riconoscere,
Troppo bella
Per rischiare l'audacia
Di credervi.

Cautamente adorata come un fragile cielo,
Raggiungerla
Sarebbe impresa disperata come
Toccar la veste dell'arcobaleno.

Ma più sicura quanto più distante
Per chi persevera:
E come alto alla lenta pazienza
Dei santi è il cielo!

Non l'otterrà forse la breve prova
Della vita, ma poi
L'eternità rende ancora possibile
L'ardente slancio.

di Emily Dickinson, traduzione di Margherita Guidacci

Disorientamento è forse uno dei termini più efficaci per esprimere lo stato presente della nostra era di passioni tristi; tracciare la rotta è difficile quando incerta è la mèta, la fine del viaggio un enigma incomprensibile, se non una beffa crudele. Come un faro che si accende in una notte priva di stelle la poesia di Emily Dickinson rischiara la vista. Il primo verso richiama per contrasto il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia di Giacomo Leopardi: un nomade del deserto, Vecchierel bianco, infermo,/Mezzo vestito e scalzo, domanda alla silenziosa Luna: "ove tende/Questo vagar mio breve" ? Alla fine della strofa seguente la risposta chiarisce 

dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei precipitando, il tutto obblia

Davvero ineguagliati e struggenti i versi di questa seconda strofa, in cui tutta la vita di ogni cuore umano è rappresentata e - ancor più importante - amata. Ecco, il pastore dell'Asia che

Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro, ...

... ed ecco gli uomini e le donne di questi nostri ultimi giorni, che corrono e si affrettano verso un treno che li porti lontano dalla paura, dal pericolo, sì anche da ciò che è giusto. Ecco il soldato, nella canzone di Roberto Vecchioni, corre verso Samarcanda su un cavallo veloce, figlio del lampo, degno di un re, per scappare dalla morte che ovviamente lo attende alle porte della città.
Spesso il nostro viaggio è così: un vagare senza scopo o un fuggire verso ciò che ci attende: perdersi tra le valli di un deserto o precipitarsi verso l'unico luogo che vorremmo evitare. 

 La lirica di Emily Dickinson  si apre con un verso che ha una intensità emotiva enorme: 

Ogni vita converge a qualche centro

Ogni vita umana ha un senso, una direzione, una méta. Forse l'animo appena la riconosce, tanto è bella che non sembra possibile rischiare tutto per raggiungerla.

Raggiungerla
Sarebbe impresa disperata come
Toccar la veste dell'arcobaleno

disperata, ma ancora possibile ... ancora

martedì 3 marzo 2020

Allora mettili tra i capelli come fiori lievi

    

       Sogni


Il sogno di Henri Rosseau, Museum of Modern Art of N ew York



Devi fidarti in pieno dei tuoi sogni
E apprendere la loro essenza più segreta,
Com’essi alti nelle azzurre straripanti
Lontananze si perdono quali stelle pulsanti.
E quando brillano fin nelle tue notti
E voglia e volontà, regalo e rischio
Sorridendo intrecciano in ghirlande fugaci,
Allora mettili tra i capelli come fiori lievi.
E donati interamente al loro gioco radioso:
In essi è verità della parvenza eterna,
Ombre belle di tutti i tuoi obiettivi
Al tempo confluiranno con le azioni in una cosa sola.


         di Stefan Zweig (traduzione di Anna Maria Curci)


Stefan Zweig è stato uno scrittore austriaco, nato a Vienna nel 1881 in un'agiata famiglia ebrea, emigrò in Inghilterra nel 1924, poi nel 1940 in Brasile, dove morì suicida nel 1942. Il mondo nel quale si era formato, la Vienna dei caffè, la città di Gustav Mahler, la Felix Austria colta e liberale di fine Ottocento e dei primi anni del Novecento, costituisce il suo nutrimento culturale: "Era dolce vivere in quell'atmosfera di tolleranza, dove ogni cittadino senza averne coscienza veniva educato a essere supernazionale e cosmopolita". Zweig, che è il rappresentante perfetto di quella società raffinata e aperta, sa conversare in tedesco, francese, inglese e italiano. Dopo un primo volume di liriche (Silberne Saiten, 1901), pubblicò novelle, traduzioni (in genere dal francese) e saggi critici . L'origine viennese, il suo ebraismo, la raffinata educazione, contribuirono molto a creare quell'atmosfera d'intellettualità cosmopolita, spregiudicata e aperta a ogni influsso, in cui si muovono sia le sue notissime biografie romanzate, sia le sue seducenti opere narrative, o quelle di rievocazione storico-autobiografica tra cui quello che è considerato il suo capolavoro "Il mondo di ieri" (Die Welt von Gestern, 1941).

Nella poesia Sogni, tradotta da Anna Maria Curci sul sito poetarum silva, Stefan Zweig ci invita a guardare ai nostri sogni con altri occhi, ad ascoltarli con un diverso orecchio. Se il pensiero comune del borghese sottolinea soprattutto l'inaffidabilità dei sogni, vaghe immagini incerte e ingannevoli, l'animo sognatore finisce per chiudersi nell'aspirazione a vivere nei sogni come in un rifugio sicuro, svalutando ogni forza conoscitiva che in essi risiede. 
Devi fidarti in pieno dei tuoi sogni, in loro vi è una nascosta e segreta essenza che può essere raggiunta, che deve essere appresa. Voglia, volontà, regalo e rischio i sogni intrecciano in ghirlande fugaci ... che meraviglia in queste parole, in questo verso che ci desta dal sonno, ci scuote e ci spinge.
Desiderio e determinazione, dono e amore dell'ignoto non sono forse il nutrimento più profondo della vita? ciò di cui abbiamo veramente bisogno? ciò di cui non possiamo fare a meno?

E voglia e volontà, regalo e rischio

Non sepolti nel cinismo calcolatore, nell'ansia del successo e del giudizio degli altri, non resi despoti crudeli del proprio irraggiungibile rifugio interiore. Con i sogni invece - esorta il poeta viennese - adorna i tuoi capelli, che la loro bellezza ricordi a tutti cosa salverà il mondo.

Allora mettili tra i capelli come fiori lievi.