Cerca nel blog

giovedì 30 gennaio 2020

e restare in se stesso nulla vuole

Campi dei non beati


fotografia di Ansel Adams


Sazio son io della mia sete d'isole
del morto verde, dei muti greggi;
divenire voglio una riva, un piccolo golfo,
un porto di belle navi.

Da uomini vivi con caldi piedi
percorsa vuol sentirsi la mia spiaggia;
in bramosia d'offerta la sorgente
mormora e a gole vuol dar refrigerio

E tutto in sangue estraneo vuol levarsi
e in un diverso fiammeggiar di vita
annegare il suo anelito
e restare in se stesso nulla vuole.


di Gottfried Benn, da "Morgue" (Einaudi, traduzione di Ferruccio Masini)


Quando nel 1912 Gottfried Benn pubblica la raccolta "Morgue" ha ventisei anni, è un medico militare che esercita la sua professione a Prenzlau e a Berlino. Ferruccio Masini ha descritto l'atmosfera di quegli anni come un "periodo segnato dal sovvertimento dei vecchi schemi umanistico- liberali ad opera di una informe tempesta d'energie - l'espressione è di Musil. 

La Morgue, il tavolo operatorio, i corpi dissezionati,  le vite che questi resti impalliditi raccontano, sono lo strumento di una esigenza di svelamento della realtà che non procede solo nel segno della demolizione del linguaggio lirico e dei suoi clichés, dei valori del passato e delle sue liturgie. Tali immagini in Benn diventano, secondo Masini "i geroglifici di una negazione per la quale non occorre il grido, ma basta il gesto, e che non cerca figura né anima. "

“Imperdonabile Benn, - scrive Cristina Campo - e non certo nel suo sacco cinerognolo di peccatore politico [… ], bensì nella sua stola purpurea di confessore della forma: l’autore di alcune poesie solo possibili al magistero del più alto maestro in molti anni di lingua tedesca, poiché di questo si tratta, alla fine. Imperdonabile Benn, che afferma non dover essere il poeta lo storico del proprio tempo, anzi il precursore al punto da ritrovarsi di millenni alle spalle di quel tempo, l’antecessore al punto da poter profetare dei più lontani cicli avvenire. Testimone soltanto di ciò che immobilmente perdura: un guerriero, una stella, una morte, un cespuglio di sorbo".

La poesia Campi dei non beati è posta ad apertura dell'edizione Einaudi di Morgue, che raccoglie - ad opera del grande germanista Ferruccio Masini - i componimenti più significativi del periodo 'espressionistico' di Gottfried Benn, periodo al quale appartengono le cinque poesie che precisamente costituiscono il ciclo di Morgue. In questa poesia già dal titolo possiamo cogliere all'opera lo scrupoloso rovesciamento della prospettiva avviato dal poeta tedesco: non le "isole dei beati" dei poeti classici, non i campi Elisi di Virgilio sono qui la fonte d'ispirazione e l'oggetto del desiderio: Sazio son io della mia sete d'isole dice piuttosto il poeta. I luoghi verdeggianti e la mitezza delle greggi appaiono come un colore di morte e assenza di voce.

divenire voglio una riva, un piccolo golfo...un porto di belle navi. A tale immagine si sovrappone quella della spiaggia percorsa da uomini vivi, poi quella  della sorgente desiderosa di offrire refrigerio. 

Non si dovrebbe tuttavia scorgere in questi versi un accenno ad una visione solidaristica della vita o la fiducia in una forza immanente nella natura che inclina ogni aspetto di essa verso il suo scopo. Nel mondo di Benn - come nota il curatore dell'edizione italiana di Morgue - "sembrano salvarsi, sull'esile filo di una pietà non destinata all'uomo, solo le cose umili e dolci", mentre il tutto brama di annegare il suo anelito e non c'è nulla che voglia restare in se stesso. Ciò che è vivo vuole spegnere ogni desiderio di altra vita, se non quella 'assolutamente 'altra' che arde in un diverso fiammeggiar e nessuna cosa che contribuisce a formare tale tutto pare paga della condizione in cui si trova, del destino che gli spetterebbe.






sabato 25 gennaio 2020


Al risveglio



First sunrise on Annapurna Dakshin, di Tristan Brittaine


Al risveglio ho trovato
con la luce una lettera.
Ma non posso sapere
che dice: non so leggere.

E non voglio distrarre
un sapiente dai libri:
ciò che c’è scritto forse
non lo saprebbe leggere.

La terrò sulla fronte,
la terrò stretta al cuore.
Quando scende la notte
ed escono le stelle,
la porterò sul grembo
e resterò in silenzio.
E me la leggeranno
le foglie che stormiscono,
e ne farà il ruscello
col suo scorrere un canto
che a me ripeterà
anche l’Orsa dal cielo.

Io non lo so trovare
quel che cerco, o capire
cosa dovrei imparare,
ma so che questa lettera
che non ho letto, ha reso
più lieve il mio fardello,
e tutti i miei pensieri
ha mutato in canzoni.

             di Rabindranath Tagore


Capita a volte di trovarsi a camminare in questa nostra wasteland come nel labirinto della poesia di Wisława Szymborska, una via dopo l'altra,/ma senza ritorno. I corridoi, le svolte, le scorciatoie intricate,si aprono e si chiudono; ci addentriamo dove c'è buio ed incertezza
ma insieme chiarore. Alcuni sentieri interrotti ci costringono indietro e di nuovo avanti e a volte, riprendiamo a immetterci sempre nello stesso cammino, un errare che sembra non finire. Il labirinto  ha cessato di essere immagine del percorso che ogni uomo deve fare per raggiungere la parte più vera e nascosta di sé. "La prova del labirinto", come la chiamava Mircea Eliade, uno dei massimi esperti di religioni e tradizioni, che è innanzitutto ricerca del centro, del proprio centro interiore. 

E' piuttosto il nostro un girovagare, un perdersi di qui o di qua/magari per di lì ...
che spesso rende l'animo pesante e il cuore gelido. Non è Teseo l'eroe che si addentra nel labirinto, ma il Dedalus dei romanzi di Joyce, il giovane artista desideroso di affrancarsi da ogni legame con le tradizioni della sua terra per esprimere integralmente se stesso. Come il solitario Dedalus i moderni girovaghi della wasteland cercano sopratutto di sfuggire alle insidie del labirinto, ai suoi inganni, alle sue tortuosità. Finiscono in tal modo per dimenticare che solo cercandone il centro e affrontando colui che vi abita potranno uscire fuori.

Viviamo in un labirinto, tutti noi, che lo sappiamo oppure no. Non fa differenza. E dai suoi meandri spesso vorremmo far sentire la nostra voce, parlare, scrivere, mandare un messaggio qualsiasi. Perché nel labirinto, come nel palazzo di Atlante creato dalla fantasia di Ariosto, alla fine siamo soli, inseguendo ciò che ci sfugge e che è destinato a deluderci. Come è naturale che accada quando cerchiamo fuori di noi ciò che dovrebbe dare senso alla vita.

Le parole tuttavia non sembrano funzionare così bene: piccole contorte parole, scarabocchiate su tutto il foglio le definisce Amy Lowell nella poesia che abbiamo pubblicato pochi giorni fa. Per quanto ci sforziamo di usarle bene, esse non sono che sciocche astuzie ed intrighi, incapaci di esprimere la florescenza del biancospino; la parola come la carta su cui viene scritta è fragile, muta, liscia, vergine di dolcezza.

Nel labirinto sperduti e senza più fiducia nella forza della parola. Tale mi appare la condizione dell'uomo moderno.

Il poeta indiano Rabindranath Tagore ci indica nella poesia Al risveglio una pista poco battuta, percorsa ormai di raro, una pista lontana dalle stazioni di cambio e dalle mura dei villaggi. Pochi segnavia indicano la strada, solo - a volte - una stella tenue.






martedì 21 gennaio 2020

E questa carta è fragile, muta, liscia, vergine di dolcezza

James McBey, Girl writing a letter, 1923


Lettera

Piccole contorte parole, scarabocchiate su tutto il foglio
Come zampe di mosche infangate,

Che cosa potete dire della fiammante luna
Trapuntata dalle foglie della quercia?
O della mia finestra senza tende,
E del nudo pavimento al chiaro di luna?
Le vostre sciocche astuzie e i vostri intrighi
Non hanno nulla della florescenza del biancospino.
E questa carta è fragile, muta, liscia, vergine di dolcezza
Sotto la mia mano.
Sono stanca, amore mio, di riscaldare il mio cuore
Contro il tuo volere;
Di spremerlo in macchioline d’inchiostro,
E di spedirlo per posta.
Ed io qui sola, brucio, sotto il fuoco
Della grande luna.

di Amy Lowell

domenica 19 gennaio 2020

ama e non si rende conto d'amare


Guido Reni Atalanta ed Ippomene

Il mito di Atalanta è molto antico, compare già in un frammento di Esiodo, Omero poi conosceva il racconto della caccia di Calidonia e della triste fine di Meleagro, in cui la bella cacciatrice - ma questo Omero preferisce tacerlo - ebbe un ruolo fondamentale. La storia di Atalanta, è ripresa infine da Ovidio nel decimo libro delle Metamorfosi; per bocca della stessa Venere veniamo a sapere del modo in cui finalmente la giovane figlia di Scheneo giunse alle nozze e all'amore. 

Atalanta rifiuta il matrimonio, le sta stretto il ruolo di moglie, piuttosto che allevare figli preferisce vagare per monti e selve armata di arco e frecce. La sua bellezza però attirava pretendenti da tutta la Grecia. Ad essi imponeva una dura condizione: una corsa avrebbe deciso il loro destino, le nozze per chi l'avesse vinta, la morte per chi risultasse sconfitto. Al luogo della gara era giunto anche il giovane e bellissimo Ippomene, che vinto dal desiderio per la bella cacciatrice decide di accettare la sfida. Atalanta sa che il giovane non ha alcuna speranza e per la prima volta prova un sentimento a cui non sa dare nome ...

Ippomene tuttavia riuscirà vittorioso, grazie ad alcune mele d'oro, avute in dono da Afrodite, dalle quali emanava un fascino irresistibile e che decideranno la gara. E' proprio questa la scena raffigurata da Guido Reni nel quadro esposto al Museo Nazionale di Capodimonte.

Lasciamo la parola ora ad Ovidio

Mentre parla, la figlia di Scheneo lo guarda illanguidita
e più non sa cosa preferire, se vincere o essere vinta.
E pensa: 'Quale dio, nemico della bellezza, vuol perdere
 costui, spingendolo a chiedere la mia mano, a rischio
della sua vita preziosa? Non penso di valere tanto!
E non è la sua bellezza a toccarmi (anche se toccarmi potrebbe),
ma il fatto che è ancora un ragazzo. Non mi turba lui, ma l'età sua.
Ma poi, è tanto prode da non tremare al pensiero della morte?
è veramente il quarto nella discendenza dal nume del mare?
e ancora, mi ama e brama di sposarmi sino al punto
di morire, se una sorte crudele dovesse negarmi a lui?
Vattene, straniero, finché puoi; rinuncia a queste nozze di sangue.
Matrimonio crudele è il mio. Nessuna rifiuterà di sposarti,
troverai sicuramente una fanciulla saggia che ti desideri.
Ma perché per te mi angoscio, dopo averne mandati a morte tanti?
Vedrà lui! Che muoia dunque, se la strage di tanti pretendenti
non gli è servita di lezione e in tale disgusto tiene la vita.
Ma allora morirà, perché con me voleva vivere,
e sconterà con una morte ingiusta la colpa d'avermi amato?
La mia vittoria non sarà certo tale da suscitare invidia.
Ma non è colpa mia. Avessi tu almeno il senno di rinunciare!
o, visto che non ragioni più, fossi almeno più veloce!
Oh, che sguardo virgineo in quel suo viso di fanciullo!
Povero Ippòmene, come vorrei che tu non m'avessi mai visto!
Meritavi di vivere; e se più fortunata io fossi,
se un destino inesorabile non m'impedisse le nozze,
tu eri l'unico, che avrei voluto avere accanto nel mio letto'.
Così ragiona, e inesperta com'è, toccata dal suo primo amore,
non sapendo che cosa sia, ama e non si rende conto d'amare.

I versi di Ovidio ci mostrano i momenti precedenti l'inizio della gara e si concentrano sull'interiorità della bionda cacciatrice. Il suo animo è per la prima volta incerto, non sa cosa sia meglio, non sa cosa lei vuole davvero. Vincere o essere vinta ed amare? Sembra quasi che smarrisca il senso stesso della sua identità quando si chiede se davvero vale così tanto. Tutto il discorso di Atalanta è scandito da un incessante sequenza di ma e di antitesi, da un alternarsi di decisioni e di ripensamenti, di speranze - rinuncia a queste nozze di sangue - e rassegnazione - Povero Ippòmene [...] Meritavi di vivere. Nel turbamento dell'animo risuonano i congiuntivi dell'impossibilità: Avessi tu almeno il senno di rinunciare! o ancora, fossi almeno più veloce! Fino al verso più bello, perché in fondo sappiamo tutti che non è vero quel che la mente della bella Atalanta va ripetendosi: vorrei che tu non m'avessi mai visto! 

Nel racconto di Ovidio l'amore è prima di tutto un mutamento del senso della vista. Quello che abbiamo sempre veduto in un certo modo ora diviene altro: il contendente da sconfiggere ora diventa un giovane che merita di vivere, il ruolo che si crede di aver scelto una sorte crudele, un destino inesorabile. Tale visione ha come effetto quello di mutare non di meno il soggetto che osserva il mondo attorno a sé. Egli non sa più con certezza chi è, Ma perché per te mi angoscio, dopo averne mandati a morte tanti? La bionda guerriera, "un'Artemide alla sedicesima" - come alcuni l'hanno definita - non può smettere di porsi domande alle quali non aveva mai pensato prima. Non è più la stessa, quasi contro la sua volontà e prima ancora di cogliere le mele d'oro che l'astuto Ippomene getterà sul suo cammino, non sapendo che cosa sia, ama e non si rende conto d'amare.


Il poeta persiano Jalal ad-din Rumi, detto il Moulana (il Maestro) nato nel 1207, mi sembra esprimere al meglio tale forza dell'amore in questi versi tratti dal suo canzoniere, il Divan:

Tu mi domandi, "A chi appartieni?" "Che cosa ne so, io?"
Mi chiedi: "Perché sei così pazzo?" "Che cosa ne so, io?"
Mi domandi:"Come puoi, così vecchio e malfermo,
aspirare al mio amore?" "Che cosa ne so, io?"
Sono sbattuto tra le onde dell'oceano del tuo amore.
Mi domandi:"Dove sei?" "Che cosa ne so, io?"
Mi domandi:" Ma perché sei in questa gabbia,
se sei un uccello dell'aria? " Che cosa ne so, io?
Camminavo sulla buona via, ma mi smarrii
a causa di quel Turco del Katai . Che cosa ne so, io?
E ora non distinguo sventura da piacere.
Tu sei il culmine nella gioiosa avversità. Che cosa ne so, io?


L'esperienza dell'amore non è solo lo sconvolgimento di cui i poeti hanno cantato, ma uno sguardo che non osserva più il mondo nello stesso modo, una temperatura della luce che sfida le leggi della fisica e del tempo ... il congiuntivo dell'impossibilità che custodisce da sempre il respiro degli amanti.

domenica 12 gennaio 2020

da ovunque verso ovunque

Convesso e concavo, di M.C. Escher


Labirinto


E ora qualche passo
da parete a parete,
su per questi gradini
o giù per quelli,
e poi un po' a sinistra,
se non a destra,
dal muro in fondo al muro
fino alla settima soglia,
da ovunque, verso ovunque
fino al crocevia,
dove convergono,
per poi disperdersi
le tue speranze, errori, dolori,
sforzi, propositi e nuove speranze.

Una via dopo l'altra,
ma senza ritorno.
Accessibile soltanto
ciò che sta davanti a te,
e laggiù, a mo' di conforto,
curva dopo curva,
e stupore su stupore,
e veduta su veduta.
Puoi decidere
dove essere o non essere,
saltare, svoltare
pur di non farti sfuggire.
Quindi di qui o di qua
magari per di lì,
per istinto, intuizione,
per ragione, di sbieco,
alla cieca,
per scorciatoie intricate.
Attraverso infilate di file
di corridoi, di portoni,
in fretta, perché nel tempo
hai poco tempo,
da luogo a luogo,
fino a molti ancora aperti,
dove c'è buio ed incertezza
ma insieme chiarore, incanto
dove c'è gioia, benché il dolore
sia pressoché lì accanto
e altrove, qua e là,
in un altro luogo e ovunque
felicità nell'infelicità
come parentesi dentro parentesi,
e così sia
e d'improvviso un dirupo,
un dirupo, ma un ponticello,
un ponticello, ma traballante,
traballante, ma solo quello,
perché un altro non c'è.


 Deve pur esserci un'uscita,
è più che certo.
Ma non tu la cerchi,
è lei che ti cerca,
e lei fin dall'inizio
che ti insegue,
e il labirinto
altro non è
se non la tua, finché è possibile,
la tua, finché è tua
fuga, fuga.

di Wislawa Szymborska, dalla raccolta Due punti  (Adelphi). Traduzione di Pietro Marchesani

venerdì 10 gennaio 2020

la gelida onda dell'eternità

For the glory of Kaiser, di Cyril Barraud

LAMENTO


Sonno e morte, le cupe aquile
sussurrano la notte, intorno al mio capo:
che dell’uomo l’aurea immagine
sommerga la gelida onda
dell’eternità? Ai paurosi scogli
schiantasi il coro purpureo.
E lamenta la cupa voce
sopra il mare.
Sorella di tempestosa tristezza
guarda: un impaurito battello affonda
dinnanzi a stelle,
al muto volto della notte.

di Georg Trakl

Traduzione di V. degli Alberti ed E. Innerkofler



"La poesia di Trakl - ha scritto Claudio Magris nella prefazione all'edizione Garzanti delle sue poesie - è una fondazione del mondo; egli è uno di quei poeti che, come Hölderlin, sono chiamati a fondare una verità o a svelarne l'assenza, a rendere abitabile la terra o a mostrarne l'inabitabilità. Leggere Trakl significa interrogarsi sulle cose ultime, sulla possibilità stessa della poesia, sul senso estremo della vita. Le interpretazioni di Trakl sono dei confronti con l'essenza del nostro destino".

Georg Trakl allo scoppio della prima guerra mondiale fu inviato al fronte come ufficiale di sanità; qui ebbe le prime devastanti esperienze assistendo, senza aiuto o medicinali, centinaia di feriti e moribondi. In questa poesia, scritta poco prima di morire il poeta espressionista  dà vita ad una serie di immagini di straordinaria forza evocativa che scaturiscono dallo sconvolgimento di quei mesi terribili del 1914.





lunedì 6 gennaio 2020

Ci fu una Nascita, certo

Adorazione dei Magi (incompiuto) di Leonardo da Vinci, Uffizi


Viaggio dei Magi

“Freddo è stato il nostro cammino,
Giusto il periodo peggiore dell’anno
Per un viaggio, e un viaggio così lungo:
Le strade infossate e il freddo pungente,
Davvero la stagione morta dell’inverno.”
E i cammelli piagati, ostinati, con le zampe gonfie,
Che si stendevano nella neve molle.
A volte rimpiangevamo
I nostri palazzi d’estate sulle colline, con le terrazze,
Le giovani avvolte di seta che portavano sorbetti.
Poi i cammellieri che bestemmiavano e complottavano,
Se ne andavano, o chiedevano vino e donne,
E i fuochi dei bivacchi che si spegnevano, i pochi alloggi,
Le città ostili e i paesi inospitali
E i villaggi sporchi che alzavano i prezzi:
Un cammino duro è stato.
Alla fine preferimmo viaggiare di notte,
Sonnecchiando a tratti,
Con voci che cantavano alla nostre orecchie,
Che questa era tutta follia.

Poi all’alba siamo scesi in una valle temperata,
Stillante, sotto la linea della neve, profumata di vegetazione,
Con un corso d’acqua e un mulino che batteva nel buio,
E tre alberi sullo sfondo di un cielo basso.
E un vecchio cavallo bianco partì al galoppo sul piano.
Quindi arrivammo a una taverna con una vite sulla soglia,
Sei mani alla porta aperta che giocavano a dadi per monete d’argento,
E piedi che scalciavano otri vuoti.
Ma non c’erano notizie, così proseguimmo
E arrivammo di sera, non un momento troppo presto,
E trovammo il posto: era (si può dire) soddisfacente.

Tutto questo fu molto tempo fa, ricordo,
E lo rifarei anche, ma scrivi
Questo scrivi
Questo: abbiamo fatto tanta strada per vedere
Una Nascita o una Morte? Ci fu una Nascita, certo,
Ne abbiamo avuto le prove oltre ogni dubbio.
Avevo visto nascita e morte,
Ma pensavo fossero diverse: questa Nascita era
Per noi un’agonia dura e amara, come una Morte, la nostra morte.
Ritornammo ai nostri luoghi, a questi Regni,
Ma non eravamo più a nostro agio qui, nelle antiche disposizioni,
Con un popolo estraneo aggrappato ai suoi dei.
Sarei contento di un’altra morte.

di T.S. Eliot da "The Ariel poems", traduzione di Massimo Bagicalupo


Dove comincia la storia che ha ispirato la poesia di Eliot ? Forse comincia in quelle terre prossime ai Due Fiumi, dal desiderio di un uomo di nome 'Aḇrāhām (che tra l'altro vuol dire Padre di molti): una discendenza. Esci dalla tua terra, dalla casa di tuo padre e va' nel paese che ti indicherò. 
Come 'Aḇrāhām anche i nostri Magi se ne vanno dalla loro terra: non più i  palazzi d’estate sulle colline, con le terrazze,/ Le giovani avvolte di seta ... via, lungo una strada di strade infossate e freddo pungente, nelle orecchie le risa beffarde degli uomini concreti, voci che cantavano alla nostre orecchie,/Che questa era tutta follia... 

Eliot - lo avrete notato - in questa poesia dà voce ad uno dei Magi della tradizione inaugurata dal vangelo di Matteo (se volete informazioni maggiori sugli aspetti storici e sapienziali della storia in questo link trovate un articolo sintetico ma completo di Franco Cardini Giù le mani dai Re magi! di Franco Cardini); quello che rende la poesia di Eliot così suggestiva e potente è il fatto che la scena si svolge dopo che questo sapiente è tornato al suo paese. In tal modo il viaggio diviene, nel suo ricordo, un iter tanto fisico quanto spirituale e le riflessioni che ne scaturiscono, le domande che presuppongono, le verità a cui alludono vanno al cuore dell'esperienza di quella notte in cui trovarono il posto che cercavano:

abbiamo fatto tanta strada per vedere
Una Nascita o una Morte? 

Certo è una Nascita quella che li attendeva, Ne abbiamo avuto le prove oltre ogni dubbio. Ma questa Nascita è diversa, è come un’agonia dura e amara, come una Morte, la nostra morte. Questa morte è  allegoria di ciò che l'uomo è chiamato ad abbandonare, dopo essersi imbattuto nel Mistero ed aver sperimentato quella che C. S. Lewis  chiama "trafittura della gioia". 

Il ritorno alla vita precedente diventa impossibile, non ci si riconosce più nelle antiche disposizioni, qualcosa è cambiato e nulla sarà più lo stesso. Al cospetto della Nascita qualcosa "deve" morire perché si possa vivere davvero. 
Una Nascita o una Morte? 

La domanda contiene probabilmente un'allusione alla passione di Cristo. Lo confermerebbe anche il riferimento ai tre alberi sullo sfondo di un cielo basso, che secondo la critica è un'allusione alle tre croci del Calvario. Del resto già nel racconto di Matteo l'esegesi ha scorto riferimenti alla passione nel dono della mirra, utilizzata nei riti di sepoltura. Anche la tradizione iconografica, specie in Oriente ha da sempre collegato simbolicamente il momento della nascita di Cristo e quello della sua  passione. 
Nella celebre icona della Natività di Rublev il bambino è collocato in un antro scuro, come quello del sepolcro ed il suo corpo è fasciato in un modo che ricorda quello di un defunto.




Anche l' Adorazione dei Magi di Leonardo da Vinci sembra riprendere tale allegoria. Nel quadro, a cui era legato moltissimo il regista russo Andrej Tarkovskij (sui rapporti tra Tarkovskij e la pittura di Leonardo: leonardo-da-vinci-nei-film-di-tarkovskij), l'albero occupa il centro spaziale e costituisce l'asse attorno al quale tutti i personaggi - e il senso stesso della rappresentazione - si dispongono. L'albero, che è uno dei pochi elementi completati nel disegno e nel colore di tutta l'opera, è secondo una tradizione molto antica risalente ai Padri della Chiesa immagine della Croce: il nuovo albero della Vita, destinato a prendere il posto di quello del giardino edenico. Non solo strumento di morte e umiliazione dell'innocente ma sorgente di una vita nuova. 

L'accostamento tra albero della Vita e Santa Croce ad esempio è al centro di un componimento in esametri, per lo più sconosciuto, risalente ad un periodo tra III e IV secolo, il De Ligno Crucis, noto anche come De ligno vitae.  Protagonista del componimento è un albero che sorge al centro della Terra, raggiunge con la sua chioma il cielo e diffonde i suoi rami in tutto il mondo. 
È l’Albero della Vita, un simbolo che, sicuramente, non nasce con il cristianesimo ma venne riadattato dagli autori cristiani accostandolo all’immagine della Croce. Non si dimentichi che in epoca medievale la simbologia dell’Albero della Vita e del Legno della Croce sarà davvero molto diffusa, come si vede nel mosaico absidale di San Clemente, risalente al secolo XII, in cui questa valenza del simbolo cristiano per eccellenza appare in modo evidente. La croce fiorisce su un verde e lussureggiante cespo di acanto, dal quale si dipartono numerosissimi girali che si estendono in tutte le direzioni, con i loro fiori e i loro frutti.


Una Nascita o una Morte? 

Il viaggio dei Magi, nella poesia di Eliot, è un viaggio soprattutto interiore, il suo punto di arrivo è un'esperienza su cui l'io lirico è - per così dire - reticente o elusivo: E trovammo il posto: era (si può dire) soddisfacente. Tuttavia l'inaspettato mette in discussione certezze e abitudini, costringe a farsi domande. Al cospetto di quella Nascita in terra straniera c'è qualcosa che va abbandonato, qualcosa che deve morire per poter nascere di nuovo e vivere pienamente.

giovedì 2 gennaio 2020

dove nessuno ci possa trovare




Stiamocene un po’ in cucina assieme,
l’aria è dolce di bianco cherosene;

un coltello tagliente e una pagnotta…
Se vuoi, prepara ben bene il fornello;

altrimenti raduna e intreccia corde;
prima dell’alba fa’ una grande sporta:

fuggiamo a una stazione, ad un binario
dove nessuno ci possa trovare.



di Osip Mandel’štam

Ottanta poesie (Einaudi, 2009), trad. it. R. Faccani

Una poesia breve per riprendere il nostro viaggio "verso una stella tenue". Una poesia semplice: un uomo, una donna, una cucina domestica, che odora di bianco cherosene e ha il sapore della dolcezza.
Stiamocene un po' insieme, qui in questo piccolo spazio, per il poco tempo che la sorte o il destino ci concederà. Non molto altro possiamo chiedere alla vita, forse. un coltello tagliente e una pagnotta, un fornello preparato ben bene...

Ma forse il tempo non c'è, in questa notte che declina all'alba che viene. Meglio allora intrecciare corde per fare una sporta, qualcosa lungo la strada si troverà.

Fuggiamo, dice il poeta. Una stazione, un binario, una destinazione qualsiasi, perché stare insieme è l'unica cosa che conta, non farsi trovare il solo modo di ingannare - almeno per un po' - il tempo invidioso e conservare il sapore dell'aria dolce di una piccola cucina.

Fuggire, dove nessuno ci possa trovare.