Cerca nel blog

sabato 25 gennaio 2020


Al risveglio



First sunrise on Annapurna Dakshin, di Tristan Brittaine


Al risveglio ho trovato
con la luce una lettera.
Ma non posso sapere
che dice: non so leggere.

E non voglio distrarre
un sapiente dai libri:
ciò che c’è scritto forse
non lo saprebbe leggere.

La terrò sulla fronte,
la terrò stretta al cuore.
Quando scende la notte
ed escono le stelle,
la porterò sul grembo
e resterò in silenzio.
E me la leggeranno
le foglie che stormiscono,
e ne farà il ruscello
col suo scorrere un canto
che a me ripeterà
anche l’Orsa dal cielo.

Io non lo so trovare
quel che cerco, o capire
cosa dovrei imparare,
ma so che questa lettera
che non ho letto, ha reso
più lieve il mio fardello,
e tutti i miei pensieri
ha mutato in canzoni.

             di Rabindranath Tagore


Capita a volte di trovarsi a camminare in questa nostra wasteland come nel labirinto della poesia di Wisława Szymborska, una via dopo l'altra,/ma senza ritorno. I corridoi, le svolte, le scorciatoie intricate,si aprono e si chiudono; ci addentriamo dove c'è buio ed incertezza
ma insieme chiarore. Alcuni sentieri interrotti ci costringono indietro e di nuovo avanti e a volte, riprendiamo a immetterci sempre nello stesso cammino, un errare che sembra non finire. Il labirinto  ha cessato di essere immagine del percorso che ogni uomo deve fare per raggiungere la parte più vera e nascosta di sé. "La prova del labirinto", come la chiamava Mircea Eliade, uno dei massimi esperti di religioni e tradizioni, che è innanzitutto ricerca del centro, del proprio centro interiore. 

E' piuttosto il nostro un girovagare, un perdersi di qui o di qua/magari per di lì ...
che spesso rende l'animo pesante e il cuore gelido. Non è Teseo l'eroe che si addentra nel labirinto, ma il Dedalus dei romanzi di Joyce, il giovane artista desideroso di affrancarsi da ogni legame con le tradizioni della sua terra per esprimere integralmente se stesso. Come il solitario Dedalus i moderni girovaghi della wasteland cercano sopratutto di sfuggire alle insidie del labirinto, ai suoi inganni, alle sue tortuosità. Finiscono in tal modo per dimenticare che solo cercandone il centro e affrontando colui che vi abita potranno uscire fuori.

Viviamo in un labirinto, tutti noi, che lo sappiamo oppure no. Non fa differenza. E dai suoi meandri spesso vorremmo far sentire la nostra voce, parlare, scrivere, mandare un messaggio qualsiasi. Perché nel labirinto, come nel palazzo di Atlante creato dalla fantasia di Ariosto, alla fine siamo soli, inseguendo ciò che ci sfugge e che è destinato a deluderci. Come è naturale che accada quando cerchiamo fuori di noi ciò che dovrebbe dare senso alla vita.

Le parole tuttavia non sembrano funzionare così bene: piccole contorte parole, scarabocchiate su tutto il foglio le definisce Amy Lowell nella poesia che abbiamo pubblicato pochi giorni fa. Per quanto ci sforziamo di usarle bene, esse non sono che sciocche astuzie ed intrighi, incapaci di esprimere la florescenza del biancospino; la parola come la carta su cui viene scritta è fragile, muta, liscia, vergine di dolcezza.

Nel labirinto sperduti e senza più fiducia nella forza della parola. Tale mi appare la condizione dell'uomo moderno.

Il poeta indiano Rabindranath Tagore ci indica nella poesia Al risveglio una pista poco battuta, percorsa ormai di raro, una pista lontana dalle stazioni di cambio e dalle mura dei villaggi. Pochi segnavia indicano la strada, solo - a volte - una stella tenue.






Nessun commento:

Posta un commento