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giovedì 29 dicembre 2022

Canta, mio cuore, i giardini che non sai



Canta, mio cuore, i giardini che non sai; giardini
come fusi fossero nel vetro, chiari, irraggiungibili.
Acqua e rose di Ispahan o di Shiraz,
cantali beato, loda loro, ineguagliabili.

Mostra, mio cuore, come essi siano a te irrinunciabili.
Che a te pensano, i loro fichi che maturano.
Che tu con loro, come brezze divenute volto
tra i fiorenti rami, in rapporto ti trattieni.

Fuggi quell'errore che porta alla rinuncia
dell'avvenuta decisione, questa: d'essere!
Filo di seta t'intrecciasti nell'ordito.

A qualunque immagine tu ti sia intimamente unito
(fosse pure un momento da pena di vita generato)
senti che tutto il tappeto di lode vi è generato.


da "I sonetti a Orfeo" di Rainer Maria Rilke


Aggiungo poche righe, scritte in circostanze più complicate del solito, a commento di questa poesia, tratta dalla seconda parte de "I sonetti a Orfeo", la raccolta di liriche nella quale il poeta praghese sembra seguire con maggiore consapevolezza la via inaugurata nelle " Elegie di Duino". E' stato scritto che Rilke aveva trovato nelle Elegie il compito per la sua arte: "rappresentare le cose, le semplici cose, in modo tale che in questa rappresentazione fosse possibile scorgere l'amore che era nello sguardo di chi le aveva guardate e rese nella forma incancellabili per la nostra esperienza."  Tuttavia a questo disegno si opponeva sin da subito la sensazione della caducità connaturata alla vita stessa, e delle cose e di chi le osserva. Che senso può avere scrivere versi, anche i più straordinari, mentre il mondo muta ed è sottoposto alle ingiurie del tempo? Come dunque rispondere alla coscienza del carattere transitorio ed effimero dell'esistenza?

Rilke nelle sue lettere, a questo riguardo, descriverà la propria svolta come opera di un turbine creativo, il cui centro di propagazione è il mito di Orfeo, il dio-cantore che con la sua lira (immagine dell'arte poetica) disegna figure nella volta del cielo, simili a costellazioni celesti: segno delle cose caduche che supera la caducità. 

Nella lirica Canta mio cuore, i giardini che non sai possiamo riconoscere alcune di queste figure: la prima occupa le due quartine, nelle quali è evocato lo splendore dei giardini persiani di Shiraz e Ispahan. Tutto è bellezza ed armonia qui, ma anche lontananza: i giardini sono infatti magnifici, come fusi fossero nel vetro, e al tempo stesso irraggiungibili, ineguagliabili e infine irrinunciabili. Il protagonista lirico non li conosce tramite i sensi, ma in una dimensione più profonda ed intima: i fichi maturando pensano a lui e le brezze con lui si trattengono volentieri. 

La seconda figura giunge dopo l' esortazione a fuggire l'errore, di fronte alla bellezza dei giardini - pur nella loro drammatica irraggiungibilità - non si deve rinunciare a ciò che si è deciso: l'inaudito sì alla vita, l'amore per ciò che è più vivo, l'accettazione del trascorrere delle cose.  

Veniamo infine alla seconda figura orfica della lirica. La prima terzina si chiude con l'immagine di un filo che si è intrecciato con l'ordito di un tappeto; si tratta di una metafora di valore esistenziale, essa riguarda il poeta, il dio-cantore, noi lettori infine. Così come il filo di un tappeto si lega e si annoda secondo modi e disegni non sempre chiari, persino quando intreccia disegni segnati da pena e affanno, quel singolo filo canta la bellezza di tutto il tappeto, ne significa tutta la bellezza.




martedì 20 dicembre 2022

Che tutto desidera accoglierla





No, non lasciate chiuse

le porte della notte,

del fulmine, del vento,

di ciò che mai si è visto.

Restino aperte sempre

esse, le ben note.

E tutte, quelle ignote,

che si aprono

sui lunghi percorsi

da tracciare, nell’aria,

sulle rotte che stanno

cercandosi un varco

con volontà oscura

e ancora non l’hanno trovato

in punti cardinali.

Mettete alti segnali,

astri, meraviglie;

che si veda chiaramente

che è qui, che tutto

desidera accoglierla.

Perchè può venire.

Oggi o domani, o fra mille

anni, o il giorno

penultimo del mondo.

E tutto

dev’essere così piano

come la lunga attesa.


Eppure so che è inutile.

Che è un gioco mio, tutto,

aspettarla così

come folata o brezza,

temendo che inciampi.

Perchè quando lei verrà

sfrenata, implacabile,

a raggiungere me,

muraglie, nomi, tempi,

si frangeranno tutti,

travolti, penetrati

irresistibilmente

dall’immensa tempesta del suo amore,

ormai presenza.

    

              di Pedro Salinas

giovedì 24 novembre 2022

alle riviere di Smirne

Il Neckar 



François Antoine Bossuet, A view of Heidelberg and the river Neckar


Nelle sue valli si destò il mio cuore

alla vita: giocavano le onde

intorno: dei dolci colli che salutano

il viandante, nessuno mi è straniero.


Più volte quelle cime mi affrancarono

dal dolore che asservisce. A valle

era una coppa fervida di vita

l'argento cilestrino delle acque.


Le fonti ti cercavano dal monte

come il mio cuore. Tu ci rapivi

giù verso il grave Reno con le sue

città e le sue isole ridenti;


e mi pareva bello il mondo. Gli

occhi fuggivano ai richiami della terra,

all'oro del Pattòlo, alle riviere

di Smirne, al bosco d'Ilio. Molte volte


vorrei sbarcare al Sunio per cercare

sul tacito sentiero le colonne

dell'Olimpieo, prima che la bufera

e gli anni lo seppelliscano col tempio


di Pallade e le statue degli Dei;

da troppo tempo, orgoglio d'un mondo

che non è più, si leva solitario.

Isole della Ionia! L'alito del mare


ristora le rive ardenti e anima i lauri

e il sole scalda il ceppo della vite;

il lamento di un popolo di poveri

all'oro dell'autunno si fa canto,


matura il melograno, l'arancio

guarda nel verde della notte, il lentisco

stilla resina. Allora il tamburello

invita al labirinto della danza. 


E forse a voi o isole di Ionia

mi porterà uno spirito benigno.

Ma sempre avrò nel cuore te, mio Neckar,

tra i dolci prati e i salici sull'acqua.


 di Friedrich Hölderlin, traduzione di Enzo Madruzzato


Poesia meravigliosa e difficile quella di Hölderlin. Quel che accade in essa accade come per un arcano sortilegio, per una litania in una lingua dimenticata: la magia si compie lo stesso, anche quando non afferriamo tutto. Lo sfondo di questa lirica si delinea attorno ad un cuore che si desta alla vita, nella contemplazione della Natura. Tra valli, colli e fonti, là dove scorre il fiume Neckar, qualcosa si manifesta in modo sorprendente. Tutto qui appare segnato da una segreta armonia: i colli salutano il viandante, le acque trasparenti del fiume sono una coppa fervida di vita, le cime dei monti sanno liberare l'uomo dal dolore che asservisce. Ma ecco che l'animo si volge rapito, come da un richiamo irrinunciabile, ad un altro paesaggio, lontano nello spazio e nel tempo. La luce è diversa nei luoghi evocati dalla magia dei versi: il promontorio di Sunio dove sorgevano gli antichi templi di Atena e Poseidone, il fiume Pattòlo che scorreva nella Lidia trascinando con la sua corrente sabbia ed oro fino alle dimore di Creso, il bosco di Ilio, le riviere di Smirne... Colori e profumi sconosciuti afferrano i sensi, la musica di un tamburello chiama alla danza sui passi di Dioniso. Poi, all'improvviso la visione sfuma, si scolora ed il cuore del poeta torna alla propria terra, al rumore consueto delle acque del suo fiume.

Uno dei paradossi più affascinanti della lirica di Hölderlin - è stato detto - sta nel fatto che, parlando della sua patria, egli rappresenta sempre un paesaggio lontano e immaginario, come se questa patria non fosse altro che la nostalgia di un altrove. Per il poeta la Grecia costituisce in tutti i sensi un punto di fuga rispetto alla desolazione dell'età presente, ma a sua volta tale movimento di fuga può divenire il punto iniziale di un nuovo peregrinare, in un infinito movimento dialettico/mistico che rende estranea la patria e fa apparire patria ciò che è estraneo. Questo vagabondaggio dello spirito sembra muoversi, nella sua traiettoria circolare, da luoghi solitari e poco battuti (le fonti, le cime amiche, i boschi) verso luoghi altrettanto solitari, abbandonati e dimenticati (il tacito sentiero, le colonne di un tempio sul punto di essere seppellito dagli anni).  E' dunque nella Natura che si svolge la ricerca del poeta, di lei il poeta cerca la confidenza.

Non pare tuttavia che siano diffidenza o disprezzo dell'uomo a spingere Hölderlin lungo la sua strada solitaria, ma allora come interpretare questa ricerca? Secondo me si dovrebbe cercarne il senso in uno dei versi più commentati e citati del poeta tedesco: “Chi ha pensato le cose più profonde, ama ciò che è più vivo”. 

Secondo il critico (e poeta lui stesso) Antonio Prete, pensare il più profondo, amare il più vivo indica un ritmo che unisce conoscenza e amore. La poetica di Hölderlin si muove in una continua tensione volta a bruciare ogni opposizione tra il sapere e l’amore, tra la conoscenza e la bellezza. Il pensiero, nella sua essenza, è amore della bellezza. In questa prospettiva è possibile vedere nelle acque del Neckar, come nelle riviere di Smirne le fonti dalle quali il poeta ha appreso la lingua della propria arte. La poesia - nelle parole di Antonio Prete - è la lingua che accoglie questo incontro tra amore della sapienza e amore del vivente. Ciò si può vedere in modo quanto mai chiaro nell’Iperione, una delle opere più celebri di Holderlin; lì c'è un passaggio straordinario in cui troviamo queste parole: essere uno con il tutto, questo è il vivere degli dei; questo è il cielo per l’uomo. Essere uno con tutto ciò che vive e ritornare, in una felice dimenticanza di se stessi, al tutto della natura, questo è il punto più alto del pensiero e della gioia, è la sacra cima del monte, è il luogo dell’eterna calma, dove il meriggio perde la sua afa, il tuono la sua voce e il mare che freme e spumeggia assomiglia all’onde di un campo di grano.

una felice dimenticanza di se stessi 

E risuona subito d'intorno l'ammonimento di Zarathustra: "E' necessario imparare a distogliere lo sguardo da se stessi, per vedere molto.









venerdì 4 novembre 2022

Quando si leva l'alba dei guerrieri











Quando si leva l'alba dei guerrieri

su la città di cenere ove il passo

dei primi artieri

è come d'avanguardia scalpitare,

e tu ansi nel mare

dei sogni con un'ansia in cuor confusa,

e all'anima socchiusa

ecco t'appare

più vicina dei sogni

la trincea tetra, la penosa bolgia,

tra maceria e steccaia

il fango imputridito

le piaghe non fasciate

i morti non sepolti

gli smorti vólti

dei vivi senza sonno

fitti nel limo sino all'anguinaia,

e il cuor ti morde l'onta,

e balzi in piedi, e l'anima t'è pronta

ad ogni evento

ad ogni prova

ad ogni dono,

e tutto armato di dolor t'avanzi

ed imprendi, nel giorno che t'è innanzi,

il taciturno tuo combattimento:

            quivi è l'Iddio verace,

           e sia lodato.



Gabriele d'Annunzio, Laudi Libro quinto - Canti della guerra latina



in memoriam di quelli che sono caduti, 
in ricordo quelli che hanno combattuto e sofferto, 
in ricordo di quanti, armati di dolore, sono comunque avanzati,  
tra maceria e steccaia
l'anima pronta ... ad ogni dono.
Per i miei nonni, per i loro fratelli di sangue e di trincea, 
per coloro che furono coraggiosi, anche nel fango imputridito
per quelli che provarono il morso della paura e si nutrirono del coraggio dei loro compagni, 
per coloro che ebbero paura e nella paura rimasero imprigionati, 
per tutti coloro di cui nemmeno il nome è rimasto, 

IV novembre 2022.

domenica 23 ottobre 2022

... quando Amor mi spira







Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore 

trasse le nove rime, cominciando 

‘Donne ch’avete intelletto d’amore’».                            


E io a lui: «I’ mi son un che, quando 

Amor mi spira, noto, e a quel modo 

ch’e’ ditta dentro vo significando».                                


«O frate, issa vegg’io», diss’elli, «il nodo 

che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne 

di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!                               


Io veggio ben come le vostre penne 

di retro al dittator sen vanno strette, 

che de le nostre certo non avvenne;                             


e qual più a gradire oltre si mette, 

non vede più da l’uno a l’altro stilo»; 

e, quasi contentato, si tacette.    


Ma dimmi se io vedo qui colui che trasse fuori

la nuova poesia, cominciando (la canzone)

"Donne ch'avete intelletto d'amore".


Ed io a lui: "Io sono uno che quando             

Amor mi ispira, annoto, e tutto ciò che             

egli detta nel cuore, vado trascrivendo.


 Oh fratello, ora vedo - disse egli - il nodo che

 trattenne il Notaio (Jacopo de' Lentini), Guittone e me

  al di là dello stile nuovo e dolce che io ascolto !

 Io vedo bene come le vostre penne (la vostra poesia)

 si tengono strette dietro a colui che detta

 cosa che con le nostre penne non accadde.


e chi più si inoltra a comprendere questa differenza, 

non  può vedere differenza maggiore 

tra l'uno e l'altro modo di  fare poesia", e come appagato, tacque.



            Dante, Purgatorio XXIV canto


Il passo è molto noto: sulle scoscese vie del monte del Purgatorio si incontrano due poeti, Dante e l'anima di Bonagiunta da Lucca, un poeta della generazione precedente a quella degli stilnovisti, un poeta stimato ed apprezzato. Questi appare desideroso di interpellare il fiorentino con una domanda che dà l'avvio ad uno dei dialoghi più famosi della Commedia: sei proprio tu ? sei colui che ha aperto la strada a nove rime, ad una nuova poesia, quando hai composto la canzone ’Donne ch’avete intelletto d’amore’ ?  

Sia detto per inciso, il lettore moderno dovrebbe soffermarsi di più su questo prodigioso endecasillabo, in cui le donne smettono di essere lo specchio meraviglioso della creatività divina e si svincolano dal ruolo, pur nobilissimo del miracolo degno delle più grandi lodi, rivelando infine che proprio nella natura femminile risiede, in forma specialissima, la facoltà di intendere la virtù d'Amore. 

Ma torniamo alla domanda di Bonagiunta, nella quale scorgiamo il carattere di un'urgenza non solo intellettuale, dal momento che subito ci si fa chiaro che non si tratta di una mera curiosità: capire, sciogliere il garbuglio di dubbi non ancora lasciati alle spalle vuol dire infatti trovare il senso autentico dell'impegno di un'intera esistenza. Non di dotte ed astratte discussioni di letterati quindi si tratta, ma del bilancio del proprio faticoso cammino.  La risposta di Dante, come sanno coloro che su questi versi hanno affinato, in faticose veglie, la propria vocazione, ha sollecitato l'indagine di molti studiosi. Di questi troppo lungo sarebbe anche trascrivere l'elenco dei nomi, figuriamoci dare conto dei loro contributi. E tuttavia proviamo anche noi a comprendere cosa si celi nei versi  dell'exul inmeritus a proposito delle sue nove rime. 

Lo facciamo oggi attraverso le riflessioni di una scrittrice piuttosto nota, Elena Ferrante. L'autrice de L'Amore molesto si è soffermata sull'episodio della Commedia nel saggio che chiude "I margini e il  dettato", un suo recente libro, nel quale sono raccolte alcune lezioni attorno alla "smania di scrivere", ovvero alle difficoltà, alla necessità e all'impegno di scrivere. Il saggio si intitola significativamente La costola di Dante, in riferimento all'importante ruolo svolto da Beatrice nell'ordito strutturale del poema: a lei infatti non solo è affidato il compito di salvare Dante dalla selva oscura, ma soprattutto sono le sue parole vere, sulla cima del Purgatorio, a prendere il posto delle ornate parole di Virgilio come via di salvezza.

Secondo la scrittrice nell'episodio di Bonagiunta si deve vedere soprattutto la "messinscena di un fallimento": i versi del XXIV canto pongono in luce il fatto che l'esperienza umana dell'alfabeto è un'arte esposta alle delusioni più cocenti. La portata di tale insuccesso, inoltre, finisce per provocare nel lettore una speciale commozione per le parole pronunciate dal rimatore Bonagiunta. Nel dialogo tra i due poeti  si manifesta la dote più stupefacente del poeta fiorentino, l'immedesimazione; è vero che egli si pone come l'orgoglioso fondatore di un nuovo stile, ma è anche nel contempo il sorpassato Bonagiunta, ne veste le intime contraddizioni, fa sue le esitazioni dell'altro. Una descrizione nella Commedia - sottolinea Elena Ferrante - non è mai solo questo, ma sempre un "trapianto di sé, un salto rapidissimo del cuore dall'interno all'esterno"
Mi sembra che tale linea interpretativa getti una luce nuova e molto interessante sull'episodio della Commedia. Indizi della sua validità sono a mio avviso il fervore concitato della domanda, ma dimmi... e il vigore espressivo di quell'avverbio: issa, ora, che colloca la presa di coscienza in un sentimento che potremmo 'tradurre' nella formula solo adesso, un hic et nunc che giunge pur sempre oltre il tempo della vita mortale. Nello stesso modo forse è da considerare l'espressione quasi contento, nella quale il valore attenuativo di quasi sottolinea il carattere drammatico dell'esperienza del poeta lucchese, appagato nella sua richiesta di verità, eppure non del tutto quietato. Grato per la luce ricevuta ed insieme non ancora del tutto libero da un'ombra di pensoso rammarico.

La malinconica constatazione di incapacità confessata da Bonagiunta - nota Elena Ferrante - ci pone una domanda: "perché uno riesce e altri falliscono?" A leggere i versi del canto sembrerebbe soprattutto una questione di velocità: coloro che rimasero al di là del nodo, fallirono non per il fatto che mostrarono poca attenzione a ciò che Amore spira e detta, ma in quanto non riuscirono a stargli dietro, come un segretario al quale il suo signore detti le sue parole troppo velocemente. In effetti, il prestare orecchio allo spirare e al dittare dentro, perché la penna significhi e noti, è sì l'enunciazione di una poetica, ma soprattutto l'esplicitazione di una difficoltà. Necessari sono forse una pratica assidua, un esercizio estenuante, l'acribia dello studium, oppure la tensione che sempre comporta ogni ars? Sono queste cose che vanno apprese e coltivate? Insomma quale natura possiede il vincolo che impedì a Bonagiunta di tener dietro alla dettatura di Amore? 

Secondo la scrittrice per rispondere a questa domanda è necessario ritornare a quel XIX capitolo della Vita Nuova, in cui Dante racconta di come in lui si manifestò, per la prima volta, la volontade di scrivere in una forma nuova, nuove poesie, nove rime appunto. Quel momento è descritto come il sopraggiungere di un'intuizione in base alla quale - è il poeta della Commedia a parlare - " la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa". Questo dunque il nodo che trattenne i rimatori precedenti al di qua del dolce stile, il motivo del cruccio dell'anima di Bonagiunta, il fardello in cui è avvolto il suo camminare quasi contento verso la cima del monte, dove potrà finalmente deporlo per sempre. 

Lo voglio sottolineare di nuovo: i versi del canto non ci chiamano, sul ciglio impervio di quel sentiero, a fare da spettatori ad una disputa accademica, a lambiccamenti eruditi. Ben altro è in gioco: la poesia per Dante, in quel frangente in cui la lingua parlò quasi come per se stessa mossa, si è manifestata come strumento volto a salvare l'uomo, emancipandolo dalla condizione di miseria ed afflizione morale per condurlo alla pienezza di sé. Il coinvolgimento del lettore, la sua partecipazione esistenziale, a cui abbiamo prima accennato, è  di continuo ricercata, ma in quanto essenziale alla possibilità di una svolta nella conduzione della sua vita. Mario Luzi, a questo proposito, ha notato come la poesia per Dante è costantemente mossa da un principio essenziale di rigenerazione. Dalla lettura del poema si deve ricavare un modello attivo di comportamento, la decisione di una condotta futura, che guidi il lettore ad uno stato di grazia. Lo stesso Pietro, il figlio maggiore di Dante, nel suo commento ha lasciato scritto che l'ammaestramento tratto dalla Commedia è diretto "ad aprire gli occhi della mente per considerare dove ci troviamo, se sulla giusta via verso la patria celeste, oppure no". Né bisogna dimenticare che la coscienza del proprio ruolo, quello cioè di profeta (nel senso originario di colui che parla per un altro) investito da Dio di una missione vitale, è connessa con il dolore dell'esilio, anzi nasce dall'esperienza dell'ingiusto esilio. Come ha notato, con straordinaria sensibilità, Attilio Momigliano, Dante fa dell'esilio "il malinconico piedistallo del giudice solenne dell'umanità".

Se tuttavia la nuova poesia, ispirata da Beatrice, è quella che nasce quando la lingua prende a parlare quasi per se stessa mossa, quale rilievo possono avere allora le disciplina, lo studio, il tirocinio di chi è chiamato a significare ciò che l'Amore rivela? Come tenere insieme l'alto compito affidato alla missione del poeta-profeta e questo carattere spontaneo del suo parlare in poesia? Non c'è dubbio - ha ragione Elena Ferrante - che Dante è diverso dai poeti precedenti (e in ciò risiede parte del suo successo) perché aveva riconosciuto l'insufficienza della scrittura, ne comprendeva i limiti, i rischi, consapevole com'era che tale insufficienza è parte della caducità dell'umano. 

Grati davvero ad Elena Ferrante per aver richiamato l'attenzione sul dialogo tra Dante e Bonagiunta, mi sembra che ci si possa spingere ancora un po' nella fatica di intellegere. Siamo lì, sulle balze del Purgatorio, indugiando ad ascoltare le parole appassionate dei due poeti ed ecco, ciò che possiamo portarci via è la presa di coscienza della penuria delle possibilità espressive della scrittura? A prima vista un misero bottino. Se non che abbiamo cominciato a sospettare che solo a partire dal riconoscimento di questa penuria, solo costruendo sugli effimeri pilastri su cui si regge, è possibile far vivere la poesia che ci salva dai quieti sobborghi dell'appagamento, l'espressione è di Emily Dickinson, che ha, a mio avviso colto perfettamente la natura della poesia nei versi che qui riporto.

Potesse un Labbro mortale intuire

Il Carico primordiale

Di una Sillaba pronunciata

Si sgretolerebbe sotto quel peso -


La Preda di Zone Sconosciute -

Il Saccheggio del Mare

I Tabernacoli della Mente

Che hanno detto a me la Verità -

Proprio di recente qualcosa del genere ce lo ha mostrato anche la poesia The secret Muse di Roy Campell, di cui ci siamo occupati da poco (potete leggerla insieme al mio commento nel blog): nei versi del poeta sudafricano appare chiaro lo scarto inevitabile tra ciò che la Musa vuole svelare e ciò che il pensiero può trattenere, così come avviene nella nuova poesia della Commedia, tra ciò che Amore ditta dentro (quanto è essenziale questo dentro!) e la penna dello scrivano che prova invano a stargli dietro.  Non ci si può accostare alla comprensione delle nove rime a mio avviso, se non a partire dalla comprensione che l'irruzione di tale poesia ha in sé qualcosa di inaccessibile, di abissale persino. 

La poetica del Paradiso, la sua drammaticità è in questa tensione tra l'irruzione dell'eterno ed i limiti dell'umano, tra il desiderio di raggiungere la luce e la constatazione che solo un'ombra è quella che si può ridire. Infine solo guardando negli occhi dell'amata Beatrice, solo nello sguardo di Uno che ci ama,  è possibile fissare gli occhi al sole oltre nostr'uso (potete scrivere uno con la minuscola e l'idea funziona lo stesso).

Nel momento in cui ci apprestiamo a concludere, lasciamo la parola a Dante che queste cose, enormi e sconvolgenti, le dice proprio all'inizio della cantica del Paradiso, in due terzine tra le più belle dell'intero poema:

Nel ciel che più de la sua luce prende 

fu’ io, e vidi cose che ridire 

né sa né può chi di là sù discende;                                 


perché appressando sé al suo disire, 

nostro intelletto si profonda tanto, 

che dietro la memoria non può ire.    

lunedì 26 settembre 2022

a spartire con me veglie tardive e solitarie

 




La musa nascosta



Tra la mezzanotte ed il mattino

A spartire con me veglie tardive e solitarie

Sopraggiunge una presenza di tal natura che solo

Può esser nata da un perfetto silenzio.

Su una pergamena immacolata cade il raggio

Di qualcosa di più dell'alba: ed un regale

Pensiero, come ombra di aquila,

Sfiora la levigatezza della sua neve.

Sebbene mi abbia celato quel suo volto dei volti

E quella forma ancora eluda la mia arte, 

Tuttavia i doni tutti che la mia fede ha portato

Lungo la scala nascosta del pensiero

Da me sono giunti con quei passi silenziosi

La cui cadenza è il mio cuore che batte.


        di Roy Campbell, la traduzione è mia


ecco la versione originale:

Between the midnight and the morn

To share my watches late and loney,

There dawns a presence such as only

Of perferct silence can be born.

On the blank parchment falls the glow

Of more than daybreak: and one regal

Thought, like the shadow of an eagle,

Grazes the smoothness of its snow.

Though veiled to me that face of faces

And still that form eludes my art,

Yet all the gifts my faith has brought

Along the secret stair of thought

Have come to me on those hushed paces

Whose footfall is my beating heart.


Roy Campbell,  poeta importante del primo novecento, è oggi ingiustamente dimenticato. Era nato in Sudafrica, da  famiglia  facoltosa che lo aveva però diseredato, forse per via delle sue posizioni antirazziste e  la sua ammirazione per la cultura degli Zulù. Un poeta dimenticato dunque. Eppure il suo primo libro di poesie fu pubblicato da T.S. Eliot, eppure ebbe amicizie importanti: Dylan Thomas, il compositore William Walton, lo scrittore Robert Graves. Si era guadagnato la stima  di J. R.R. Tolkien, a cui forse ispirò il personaggio di Aragorn, e di Edith Sitwell, poetessa e saggista inglese, la quale ebbe a definire i versi di Campbell "puro fuoco compresso in forme sacre". In Italia l'opera di questo poeta è rimasta inedita, cosicché la lirica che qui viene presentata è il frutto della mia personale traduzione e del soccorso di alcune carissime amiche.

La musa nascosta esplora il momento in cui la poesia si rivela e prende contatto con la vita  (l'arte ed il cuore) dell'uomo che la riceve come dono. C'è un tempo in cui il mistero sceglie l'occasione di farsi spazio fino a trovare un'anima in ascolto: è il tempo della notte solitaria, quello che non si può abbandonare al sonno, il tempo prezioso della veglia d'armi, della preghiera incessante, della cura scrupolosa dell'artigiano. Qualcosa sopraggiunge a spartire veglie tardive e solitarie e la natura di questa presenza è tale che non può nascere se non da un perfetto silenzio. Le ore notturne, le veglie solitarie, il perfetto silenzio sono le pietre confinarie  di un locus absconditus, nel quale, solo, l'imprevedibile può accadere.

Ecco come Roy Campbell descrive questo momento: la notte oscura lascia d'un tratto il posto a qualcosa di più dell'alba, irrompe una potenza che la parola umana stenta a nominare, tanto che deve accontentarsi di un'approssimazione insicura (ma poeticamente straordinaria). Su una pergamena candida cade un raggio di luce. Il poeta coglie la dignità regale del pensiero disceso di fronte a lui, riconosce gli indizi del suo nobile lignaggio, ma le parole che ha a disposizione sembrano non essere del tutto sufficienti: il pensiero infatti è come ombra di aquila, un residuo dai contorni incerti, una testimonianza labile, il riflesso velato di un'eredità che trascende la natura umana o la sua capacità di esprimersi.

Il carattere provvisorio ed insufficiente dell'esperienza poetica è mediato da diverse spie verbali: il pensiero disceso dall'alto infatti sfiora appena la levigatezza del supporto scrittorio, il volto di tale pensiero è sì magnifico e numinoso , ma rimane pur sempre celato ed infine ogni potenzialità e ogni vigoria possibile nell'arte non restano forse impotenti rispetto alla natura elusiva di ciò che è stato appena intravisto?

Gli ultimi quattro versi sembrano proporci un diverso movimento interiore. Che si tratti di uno scarto del cuore appare evidente dal fatto che questa sezione finale della poesia comincia con una svolta decisa: tuttavia. Se il momento misterioso dell' incontro con l'ispirazione poetica si manifesta secondo forme e figure in cui convivono il prodigioso e l'umbratile, ora vengono chiamate in causa altre potenze, ugualmente decisive. L'epifania della musa nascosta per diventare esperienza creatrice ha bisogno dei doni della fede, nei quali potremmo forse vedere un'allusione ai doni dello άγιο πνεύμα della tradizione cristiana. Tali doni, dice il poeta, sono giunti - tutti - da me, a passi silenziosi, lungo la scala, anch'essa nascosta, del pensiero. Più che il senso della vista entra in gioco quello dell'udito, non la luce ma il suono; c'è un ritmo che viene battuto, una cadenza che segna il passo ed è quella del cuore.

Nelle immagini scelte da Campbell a conclusione della sua lirica mi sembra sia di rilevo il valore simbolico della scala: questa, in numerose tradizioni spirituali, implica la funzione di ponte "verticale" tra i diversi stadi dell'essere, in senso più generale nella letteratura mistica  esprime una certa tenacia dell'ascesi o il procedere faticoso del viaggiatore dell'anima. L'immagine della scala segreta è senza dubbio una citazione della più famosa poesia di San Giovanni della Croce, la celebre Notte Oscura, nella quale il poeta ricorre proprio a tale immagine: l'anima procede lungo il suo "iter ad Deum" por la secreta escala. Campbell conosceva bene l'opera di San Giovanni della Croce, ne aveva fatto esperienza nelle tragiche giornate dell'assedio di Toledo, durante la guerra civile spagnola. E lì che ora dobbiamo spostarci per un po'.

Nel Marzo del 1936 una serie di violente sommosse anti-clericali scoppiano a Toledo, dove il poeta aveva stabilito la sua dimora con sua moglie e i suoi due figli. Furono date alle fiamme alcune chiese e religiosi e monache vennero fatti segno di attacchi nelle strade. Nel contesto di queste violenze Roy Campbell per qualche tempo offrì un sicuro rifugio ad alcuni monaci carmelitani. Dopo alcuni mesi, mentre le forze repubblicane si avvicinavano alla città, i Carmelitani mandarono a chiamare il poeta sudafricano per affidargli le carte personali e gli scritti originali di San Giovanni della Croce. Nei giorni seguenti i miliziani entrarono in città, attaccarono il convento ormai indifeso, trascinarono fuori diciassette monaci e li fucilarono sul selciato della strada, poi diedero fuoco a tutto. Alcuni giorni dopo la casa di Campbell fu perquisita da una pattuglia di repubblicani. Il poeta raccontò anni dopo che durante la perquisizione, si era affidato alla protezione del santo ed aveva fatto voto di tradurre le sue poesie in inglese se la sua famiglia fosse stata risparmiata; i soldati se ne andarono senza aver trovato nulla. Il voto fatto in quei drammatici  frangenti non fu dimenticato e le poesie di San Giovanni della Croce furono tradotte in un modo ancor oggi da molti ammirato.

Roy Cambell dunque, nella sua poesia Musa segreta, attinge alle immagini e alle suggestioni di un poeta che conosceva bene e che era stato molto importante per la sua stessa vita. San Giovanni della Croce si sofferma a più riprese a spiegare il simbolismo della scala segreta: egli chiama in tal modo l'attività di contemplazione attraverso cui l'anima perviene all'unione di amore con l'Amato, cioè con Dio. Questa contemplazione è "segreta" perché attiene a ciò che i teologi chiamano sapienza segreta, una sapienza che viene infusa nell'anima all'insaputa dell'intelletto, al di là delle sue categorie conoscitive. A questo, secondo il mio parere, allude il poeta sudafricano quando parla dei passi silenziosi con cui i doni della fede lo raggiungono. 

Giovanni della Croce spiega di seguito che la scala può essere chiamata segreta anche per gli effetti che produce nell'anima: l'azione della sapienza d'amore è a tal punto segreta in ogni aspetto del suo agire, che l'anima non sa cosa dirne, non ha gli strumenti linguistici per esprimerne l'esperienza. Il carattere segreto di tale azione perdura anche in seguito, poiché l'anima, anche dopo essere stata illuminata, non ne discerne i tratti distintivi, né può ricorrere a termini adatti alle sue necessità espressive. La sapienza interiore - sottolinea ancora il poeta carmelitano - non entra nell'intelletto rivestita da alcuna forma accessibile ai sensi e questi non possono conoscerne l'aspetto, né possono in alcun modo immaginarla. Ciò nonostante "l'anima intende e gusta questa misteriosa sapienza" secondo modi che sfuggono al pensiero. Tale aspetto ineffabile del linguaggio di Dio, intimo con i recessi più profondi dell'anima, possiamo ritrovare, a mio avviso, nei versi in cui Campbell nomina il ritmo dei passi scandito dal battito del cuore.

Nella poesia La musa nascosta è in evidenza la tensione dell'autore nell'esprimere ciò che accade quando la poesia si rivela e viene raccolta dall'anima. Campbell descrive questo momento come il risultato di un incontro: il movimento della luce che cade dall'alto e quello che l'anima compie percorrendo la scala segreta, scala di amore e sapienza, sconosciuta all'intelletto, dal momento che questa sapienza trascende ogni possibilità di comprensione e di espressione nelle forme del linguaggio. Sorprende solo in parte, dunque, che la poesia di Campbell faccia sentire in tutta la sua urgenza la questione dell'insufficienza delle possibilità espressive dell'uomo. Né si deve credere che tale penuria sia in relazione con l'altezza della materia del poetare o con gli inciampi così frequenti nel cammino interiore di ognuno. E' vero piuttosto che ogni grande poesia nasce su una terra di confine dove discende sì, secondo traiettorie imponderabili, la musa nascosta, ma dove si apre anche il rischio di precipizi taciturni e di abissi di silenzi.


lunedì 29 agosto 2022

Haiku n.8

 




Pioggia di primavera -

sulla lettera gettata nel bosco

il vento soffia.


                di Kobayashi Issa (1763-1828)


Una pioggia primaverile ed un bosco, una lettera gettata via chissà da chi, il vento che la porta via, di qua e di là. Bastano a Kobayashi pochi elementi, pochi tratti di pennello, per catturare subito l'attenzione del lettore e per produrre immediati moti di quella speciale facoltà di immaginare che squilla contro ogni assopimento dell'anima.

Un haiku, come è noto, è formato da una sequenza di diciassette sillabe, uno spazio di tempo non più ampio di un leggero respiro racchiude l'essenza più autentica dell'anima giapponese. Tra i caratteri più sorprendenti di tale anima vi è - lo nota acutamente il curatore dell'antologia "Il muschio e la rugiada" (Biblioteca Universale Rizzoli 2008) - "la convinzione dell'inadeguatezza del linguaggio rispetto al compito di testimoniare la verità". Proprio nelle diciassette sillabe dell'haiku di Kobayashi che oggi leggiamo, lo scarto tra le possibilità del linguaggio e l'ambizione tutta umana a stringere nel pugno la verità mi sembra esemplare.

Per chi furono scritte le parole che scolorano ora sotto la pioggia di primavera? Fu un impeto di disperazione o un lampo di sdegno a spingere il cuore a gettare via ciò che il bosco non restituirà ? Ciò che forse domani sarà inutilmente rimpianto. Oppure fu un servo infedele a gettar via la lista della spesa dei suoi padroni per intascare le monete a lui affidate? Un guerriero caduto in disgrazia, una concubina innamorata, un monaco che ha smarrito la via, eccoci giunti al crocevia inatteso di destini sconosciuti. Come che sia, sembra proprio, di fronte a questa poesia, di imbatterci in un'ora di punta dell'emozione umana, secondo la bella espressione di Marguerite Yourcenar. 

Il segreto delle vite intrecciate  negli ideogrammi della lettera gettata e portata dal vento, non potrebbe essere più inaccessibile. E che il vento soffi in egual misura sul mistero del nostro destino, ora lo vediamo come in limpida fonte. E' bastato il tempo di una manciata di sillabe, il tempo di un respiro...

Sull'autore dell'haiku di oggi solo qualche parola. Kobayashi Issa non riuscì a godere in vita della enorme considerazione che fu riservata alla sua opera solo in epoca moderna. La vita del poeta fu segnata da lutti e perdite dolorose, sempre lo accompagnò una dignitosa povertà, alle volte per scelta più spesso per necessità, ebbe un'indole solitaria, sebbene priva di qualsiasi affettazione. Se la sventura segnò il tempo della sua vita terrena, ritroviamo spesso nei suoi versi una intima compassione  per le vicende degli umili, non priva alle volte di una composta allegria. 

sabato 6 agosto 2022

E mai nell'anima un Bosch infernale!

 Album 



Nessuno in famiglia è mai morto per amore.

Nulla di quel passato potrebbe farsi mito.

Romei tisici? Giuliette malate di cuore?

C'è chi anzi è diventato un vecchio  raggrinzito.

Nessuna vittima d'una risposta non giunta

a una lettera bagnata di pianto!

Alla fine appariva sempre un vicino

con pince-nez e rose di giardino.

Nessun soffocamento in un armadio elegante

per il ritorno del marito dell'amante!

Questi corsetti, queste gale, la mantiglia

non impedivano di entrare nella foto di famiglia.

E mai nell'anima un  Bosch infernale!

E mai in un parco con la pistola in mano!

(Morivano, ma per altre ragioni, con una palla 

nel cranio e barelle da campo per guanciale).

Perfino questa, con un pudico décolleté

e gli occhi cerchiati come dopo una soirée,

è defluita con una grande emorragia

non verso di te, o cavaliere, e non per nostalgia.

Prima della fotografia, forse qualcuno,

ma di quelli dell'album, a quel che so, nessuno.

Le pene volgevano in riso, i giorni volavano,

e loro, placati, per un'influenza se ne andavano.


di Wislawa Szymborska, 

dalla raccolta "Amore a prima vista", Adelphi. Traduzione di Pietro Marchesani


Scrivere poesie sull'amore è da tempo un azzardo spericolato, un sentiero che costeggia un precipizio. Eppure l'amore appare come tema ben rappresentato nella poetica di Wislawa Szymborska, tanto che Adelphi nel 2017 ha pubblicato una raccolta di liriche della poetessa di Cracovia premio Nobel nel 1996, dal titolo Amore a prima vista. E' Pietro Marchesani, il più accreditato traduttore  e curatore dell'opera  della Szymborska, ad aver scelto le ventisei poesie, nelle quali risuona "quella personalissima  capacità di interrogarsi, con un'andatura riflessiva e scherzosa insieme", causa rilevante dell'attenzione, ormai mondiale, riservata all'opera della poetessa polacca.

E veniamo alla poesia di oggi, che affida ad un vecchio album di foto di famiglia il compito  di mostrarci un'inconsueta traccia dell'amore. La poesia comincia con un verso dall'andatura colloquiale e sentenziosa insieme: In famiglia nessuno è mai morto per amore; si può essere delusi forse da un tale incipit che in qualche modo rassicura e ridimensiona, tanto più che la voce poetante, passando in rassegna i volti dell'album, ci confida: nulla di quel passato potrebbe farsi mito. Dobbiamo tuttavia fidarci che il sentiero in cui la poesia ci guida non sarà un viaggio vano.

Eccoli lì dunque i ritratti composti di una galleria di uomini e donne  che hanno tracciato un confine netto e ben guardato tra la rispettabilità e la passione, tra le chiacchere degli anziani troppo severi e l'abbandono fatale alla signoria del cuore in tumulto. Nulla in quelle anime ascende al mito, poiché dove tutto è "misura" ad altro non è concesso di albergare. Dunque non Romeo, né Giulietta, con muri ostili, scalati a notte fonda, e lettere  bagnate di pianto, abitano tra i volti per bene dell'album. Piuttosto intravediamo vite tiepidamente trascorse, come quella di George Gray nell'Antologia di Spoon River, il quale contemplando la propria tomba trae amaro bilancio: ...l'amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno. Vivono a lungo animi siffatti, sebbene un po' rinsecchiti. Anche quando l'amore si affaccia inopportuno, ecco che arriva l'uomo posato con i suoi occhialetti ben piantati sul naso, in mano non fiori strappati su pericolosi dirupi, ma ben curate rose di giardino. Quanto dista una simile offerta dai tulipani che sgorgano dal sangue della bella Farhad in cerca del suo amato Shrin o dalla rosa che il padre della piccola Bellinda trafuga dal giardino del palazzo fatato del Mostro per fargliene dono: nulla di quel passato potrebbe farsi mito...

Non trova posto ovviamente tra le fotografie di famiglia  chi soffochi nell'armadio elegante per sfuggire ad un marito geloso o chi per disperato sfinimento si ritrovi a vagare per un parco con una pistola in mano. Decoro, autocontrollo, moderazione sono gli idoli intransigenti a cui sono devoti gli uomini e le donne che sfilano tra le pagine dell'album.

E mai nell'anima un Bosch infernale !

Fermiamoci ora un istante: i quadri di Hieronymus Bosch sono molto conosciuti, anche al di là del numero di specialisti e di critici che da anni si interroga sul giusto modo di interpretare l'opera del pittore olandese. Le sue tavole sono popolate da figure mostruose: esseri dal ventre squamoso, demoni con teste ferine, gambe rachitiche che spuntano da tumide vesciche, vizze zampe di insetto innestate su pallidi corpi. Che ci fa l'infernale Bosch in una poesia d'amore e in questa in particolare?

E' diffusa l'opinione che Bosch attraverso le bizzarrie e i mostri deformi che popolano la sua immaginazione volesse rappresentare (per quanto questo vocabolo sia del tutto insufficiente a spiegare l'arte di questo pittore) gli esiti della vita senza Dio. L'ordine meraviglioso del creato si volge nello sconvolgimento di ogni regola, nella dissoluzione di ogni principio di causa-effetto, di ogni armonia. 

Eppure... non è nella logica dell'amore questa  stessa possibilità? Non è ineluttabile - perfino - che l'amore sia sconvolgimento profondo delle ingenue pretese di porre limiti al suo arbitrio? Rinnega il tuo nome implora la fanciulla di Verona... Non ci allontaniamo dal vero, se riconosciamo che ove vi sia un'anima presa d'amore, lì scocca l'ora terribile in cui il mondo diventa un Bosch infernale.

Non così accade  per i ritratti  dell'album: nessuno muore per amore  o per nostalgia. Tutt'al più in qualche battaglia, in scaramucce di frontiera, come si addice a uomini affidabili, degni di essere ricordati in qualche monumento cittadino. O più semplicemente deflusicono per un'emoraggia, ma precisamente diagnosticata sia ben chiaro. Vi era un tempo - è probabile - prima che gli uomini prendessero gusto a fotografare - in cui a qualcuno deve essere capitata la sorte di Romeo, ci deve pur essere stata una vita che è sfuggita alla mestizia di George Gray sulla collina. Non più, sembrano dirci i versi della poesia, nell'era della riproducibilità delle emozioni fissate con il cloruro d'argento, 

le pene volgevano in riso, i giorni volavano

e loro, placati, per un'influenza se ne andavano.

Meritano una ultima riflessione questi versi, ironici, disincantati, accompagnati - ci piace immaginare - da un sorriso malinconico e trafiggente. Nel momento in cui ci apprestiamo a congedarci dalla poesia, ponendo ad una giusta distanza prospettica l'ispirazione che l'ha generata, notiamo d'un tratto l'ordito di un disegno ben studiato: la natura dell'amore viene espressa  dall'assenza - o dal rifiuto - dei suoi sconvolgimenti. Il sismografo delle anime assennate  non registra onde violente e distruttive. La galleria di quelle vite è un susseguirsi di gesti misurati, di passi ben ponderati, di calcoli ben disposti sulla partita doppia dei sentimenti. L'ultimo verso appare in questa prospettiva davvero illuminante: agli occhi della Szymborska i volti dei suoi familiari sono placati; rassicurati dalla loro metodica si spengono secondo i ritmi prevedibili (sebbene non privi di dolore) della natura, tra un colpo di tosse e il sapore di un'inutile aspirina.


domenica 10 luglio 2022

non è abbastanza moderno il suono che fa il vento

 


Margherite


Avanti di' quel che pensi. Il giardino

non è il mondo vero. le macchine

sono il mondo vero. Di' francamente ciò che ogni sciocco

potrebbe leggerti in faccia: è logico

evitarci, opporsi 

alla nostalgia. Non è

abbastanza moderno, il suono che fa il vento

agitando un campo di margherite: la mente

non può brillare seguendolo. E la mente 

vuole brillare, scopertamente, come

brillano le macchine e non 

crescere in profondità, come, per esempio, radici. E' commovente,

lo stesso, vederti avvicinare

cautamente il bordo dei prati di primo mattino, 

quando certo nessuno potrebbe

osservarti. Più stai ferma al limite, 

più sembri nervosa. Nessuno vuol sentire

impressioni del mondo naturale: sarai

derisa di nuovo; ti prenderanno in giro.

Quanto a ciò che stai davvero

ascoltando stamattina: pensaci due volte

prima di riferire cosa fu detto in questo campo

e da chi.


di Louise Gluck, L'iris selvatico, Il Saggiatore 2020 traduzione di Massimo Bagicalupo


Ed ecco la versione originale:


Daisies


Go ahead: say what you're thinking. The garden

is not the real world. Machines

are the real world. Say frankly what any fool

could read in your face: it makes sense

to avoid us, to resist

nostalgia. It is

not modern enough, the sound the wind makes

stirring a meadow of daisies: the mind

cannot shine following it. And the mind

wants to shine, plainly, as

machines shine, and not

grow deep, as for example, roots. It is very touching,

all the same, to see you cautiously

approaching the meadow's border in early morning,

when no one could possibly

be watching you. The longer you stand at the edge,

the more nervous you seem. No one wants to hear

impressions of the natural world: you will be

laughed at again; scorn will be piled on you.

As for what you're actually

hearing this morning: think twice

before you tell anyone what was said in this field

and by whom.


Nelle poesie può accadere di tutto, questo è il bello. Può accadere anche che i fiori dei campi o dei giardini del Vermont (e lì che vive la poetessa e che sono ambientate le poesie della raccolta L'iris selvatico) prendano la parola o almeno ci provino. I fiori vedono le nostre case, le nostre esistenze: soprattutto come ingarbugliamo le vite degli altri o come mandiamo in rovina le nostre. Insomma pur dalla loro prospettiva, dal basso, o forse proprio per quello, per la loro santa e preziosa vicinanza alla terra, vedono molto di quello che gli uomini non riescono a vedere, afferrano ciò che ci sfugge, prendono infine la parola. Come in questa poesia di oggi, Margherite.

E' mattina presto, l'ora in cui sono in pochi ad avviarsi al lavoro, prima che si accompagnino i figli a scuola, ma pur sempre un tempo in cui si va di fretta; per alcuni addirittura a quell'ora si torna a casa, magari dopo un turno di notte. Non proprio l'ora adatta a fermarsi accanto ad un campo di margherite. Eppure eccola lì, una donna, che cautamente si avvicina al bordo di un campo di fiori. Non sappiamo nulla di lei, potrebbe essere la poetessa stessa, ma è solo una supposizione.

All' inizio la voce delle margherite sembra prendere un tono provocatorio: go ahead, avanti !! di' quel che pensi. La donna probabilmente non sa quale impulso l'ha spinta stamattina su quel vero e proprio confine tra mondi incomunicabili. Da una parte il mondo vero, quello delle macchine, dall'altra quello invece da evitare, il mondo della nostalgia, il mondo del passato in cui era bello seguire il suono che fa il vento agitando il campo di margherite. Eppure lei è lì stamattina, cauta, circospetta, all'apparenza nervosa. La voce dei fiori assume un tono diverso, quando dice che trovano commovente vederla lì.  Perché? ci chiediamo subito sorpresi. Qui tocchiamo a mio avviso il segreto del riuscito sortilegio della poesia: intravediamo solo una parte della storia, qualcosa si nasconde dietro la donna senza nome, ferma di mattino presto, quando certo nessuno potrebbe osservarti dicono le Margherite, sul confine tra il suo mondo abituale, quello delle macchine e l'altro mondo, quello del vento che agita i fiori e dei fiori che parlano all'uomo.  

Come spesso accade è nel non detto che si rivela a noi ciò che è decisivo; nelle lacune del logos si aprono immensi gli spazi dell'immaginazione: sarai derisa di nuovo; ti prenderanno in giro -  mettono in guardia le gentili margherite. Di nuovo: una locuzione avverbiale insegna il grammatico, otto battute computa il programma di scrittura, due parole... Eppure la storia della donna ferma di primo mattino sul confine di un campo di fiori è tutta in questa manciata di lettere. La poesia non ci racconta nulla di cosa è successo, nulla delle odiose derisioni degli sciocchi e dei logici, nulla del momento in cui il tendere l'orecchio al suono che fa il vento si è trasformato nel cauto, nervoso indugio di questo primo mattino e nulla del cuore che si volge alle macchine che brillano piuttosto a ciò che cresce nelle profondità della terra.

L'ultimo ammonimento delle margherite, gentile e minaccioso al tempo stesso, è contenuto in versi di studiatissima fattura: l'avverbio davvero ci induce a pensare che qualcosa di indicibile è stato svelato, qualcosa che non coincide con il semplice dettato della parola, del logos appunto, ma attinge alle sorgenti della fiaba, della profezia o della preghiera. Quanto vorremmo poter carpire un po' di quell'inesauribile segreto consegnato come il più prezioso dei tesori e destinato a rimanere come privilegio e fardello di un animo che ha non ha smesso di ascoltare.


Louise Gluck in una foto giovanile
Questa è la seconda poesia tratta da L'iris selvatico di Louise Gluck su cui ci fermiamo nella nostra errabonda navigazione verso una stella tenue. In merito ai versi di tale raccolta, che valsero alla Gluck il premio Pulitzer, vorrei mettere in evidenza che nell'invenzione di dare la parola ai fiori non c'è alcunché  di dolciastro  - lo nota giustamente Massimo Bagicalupo nella sua postfazione - né di consolatorio, poiché tali fiori sentono con chiarezza che il loro ciclo vitale è breve, che il loro destino è trapassare velocemente. Ed è su questa consapevolezza, amara e leggera al tempo stesso,  che la poesia di Louise Gluck riesce a far vibrare le note di una melodia originale, convincente, di profonda intensità espressiva.
 
Se la poesia  Margherite vi ha incuriosito qui trovate il link al mio primo post dedicato alla poetessa americana:
 https://versounastellatenue.blogspot.com/search/label/Louise%20Gluck .













venerdì 1 luglio 2022

Mi piace rischiarare nelle tenebre



Confessione di un teppista 


Non a tutti è dato cantare,

non a tutti è dato cadere

come una mela ai piedi degli altri. 


È questa la confessione piú grande

che possa mai farvi un teppista.

Io vado a bella posta spettinato

col capo sulle spalle come un lume a petrolio.

Mi piace rischiarare nelle tenebre

l’autunno senza foglie delle vostre anime.

Mi piace quando i sassi dell’ingiuria

mi volano addosso come la grandine d’una ruttante bufera.

Stringo allora piú forte con le mani

la bolla tremula dei miei capelli. 


È cosí dolce allora ricordare

lo stagno erboso e il rauco suono dell’alno

e mio padre e mia madre viventi in qualche luogo,

che s’infischiano di tutti i miei versi

e mi amano come il campo e la carne,

come la pioggerella che a primavera rende soffice il verde.

Verrebbero a infilzarvi con le forche

per ogni vostro grido contro di me scagliato. 


Poveri genitori contadini!

Siete di certo diventati brutti,

temete sempre Dio e le viscere palustri.

Potreste almeno capire

che vostro figlio in Russia

è il migliore poeta!

Il cuore non vi si copriva di brina per la sua vita,

quand’egli si bagnava i piedi nudi nelle pozze autunnali?

Ora invece cammina in cilindro

e con le scarpe lucide. 


Ma sopravvive in lui l’antica foga

del monello di campagna.

Ad ogni mucca delle insegne di macelleria

di lontano egli manda un saluto.

Ed incontrando i vetturini in piazza,

ricordando l’odore di letame dei campi nativi,

egli è pronto a reggere la coda d’ogni cavallo

come lo strascico d’una veste nuziale. 


Io amo la patria.

Amo molto la patria!

Anche se una mestizia rugginosa avvolge i suoi salici.

Mi sono gradevoli i grugni imbrattati dei maiali

e la voce dei rospi sonante nella quiete notturna.

Io sono teneramente malato di ricordi d’infanzia,

sogno la bruma delle umide sere d’aprile.

Come per riscaldarsi il nostro acero

s’è accoccolato al rogo del tramonto.

Oh, quante volte mi sono arrampicato sui rami

a rubare le uova dai nidi dei corvi!

È ora sempre lo stesso, con la cima verde?

La sua corteccia è dura come prima? 


E tu, mio diletto,

fedele cane pezzato?!

La vecchiezza ti ha reso stridulo e cieco

e vaghi per il cortile, trascinando la coda penzolante,

senza piú ricordare dove sia la porta e dove la stalla.

Come mi sono care quelle birichinate

quando, sottratto a mia madre un cantuccio di pane,

lo mordevamo insieme uno alla volta,

senza avere ribrezzo l’uno dell’altro. 


Io non sono cambiato.

Non è cambiato il mio cuore.

Come fiordalisi nella segala fioriscono gli occhi nel viso.

Stendendo stuoie dorate di versi,

vorrei dirvi qualcosa di tenero.

Buona notte!

A voi tutti buona notte!

Piú non tintinna nell’erba del crepuscolo la falce del tramonto.

Stasera ho tanta voglia di pisciare

dalla finestra mia contro la luna. 


Azzurra luce, luce cosí azzurra!

In quest’azzurro anche il morir non duole.

Che importa se ho l’aria d’un cinico

dal cui sedere penzola un fanale!

Vecchio e bravo Pegaso straccato,

mi occorre forse il tuo morbido trotto?

Sono venuto come un maestro austero

a decantare e a celebrare i sorci.

Simile a un agosto, la mia zucca

si effonde in vino di capelli tumultuosi. 


Io voglio essere una gialla vela

per quel paese verso cui navighiamo. 


di Sergej Aleksandrovič Esenin



Nella poesia Confessione di un teppista  del giovane Esenin c'è molto di quello che mi ha sempre attirato nei poeti russi, qualcosa che  si innesta sul fascino esercitato dalla Russia e dalla sua cultura millenaria: sinfonie che lacerano l'anima come il pugnale di un cosacco e litanie mistiche di monaci visionari. Il profumo d'incenso si innalza da piccole chiese, confuso al fumo delle candele che illuminano antiche e venerate icone, mentre gli animi degli uomini e delle donne bruciano di passioni invincibili e distruttive. Una contraddizione imperitura tra cielo e abisso, luce e tenebra, le più alte vette e il sottosuolo più sordido. Tale amore per la Russia mi piace dichiararlo ora, in questi tempi poco adatti, come un teppista, proprio ora sì, quando il nome stesso di quella terra è divenuto per molti suono odioso, destino maligno, un  abominio quasi per le nette coscienze dei benpensanti. Strillino pure i megafoni dei venditori ambulanti che promettono pietà a corrente alternata: davvero gracchiano invano la loro indignazione smemorata, io amo il teppista  che giunge

 come un maestro austero

a decantare e a celebrare i sorci.

e il mio animo abita là dove si danno la mano il povero pellegrino, il teppista, il cavaliere delle steppe e il poeta. 

Il poeta è un teppista, deve esserlo, sembra dirci Esenin in questa poesia. il suo destino è rischiarare le tenebre, anche a costo di essere colpito dai sassi dell'ingiura, dall'ostilità del pubblico o dall'invidia della città. Le parole del teppista - si mescolano a quelle del musico là dove Esenin dice di voler pisciare dalla sua finestra contro la luna o che non gli importa di avere l’aria d’un cinico/dal cui sedere penzola un fanale.

Il giovane poeta ripercorre così la propria storia: la sua infanzia vissuta in una casa di campagna, insieme a poveri contadini, ai quali capitava che il cuore si coprisse di brina per la sua vita. La giovinezza trascorre tra pozze autunnali in cui sguazzare, rami di alberi su cui arrampicarsi per rubare uova di corvo, il fedele cane pezzato con cui dividere di nascosto un cantuccio di pane. Un mondo di affetti autentici in cui i suoi genitori - e qui Esenin davvero si rivela poeta da cui non si può prescindere  - s'infischiano di tutti i miei versi/e mi amano come il campo e la carne.

Capita spesso con la poesia: ci sono dei tesori nascosti al suo interno, a volte attendono lì senza far rumore. Poi, alla terza o alla quarta lettura, si illuminano d'improvviso di una luce di straordinaria intensità. Mi spiego, ad una luce simile allude Dante in alcuni impressionanti versi del primo canto del Paradiso, quando, per spiegare in che modo i suoi occhi possano vedere ciò che all'uomo normalmente non è concesso, dice che era come se Dio (colui che può tutto) avesse aggiunto un altro sole a quello che brilla nel cielo,  

come quei che puote /avesse il ciel d’un altro sole addorno.

C'è nell'espressione usata da Esenin per descrivere l'amore dei suoi genitori qualcosa di clamoroso e struggente. il padre e la madre se ne infischiano dei suoi versi, della eleganza ricercata - il cilindro e le scarpe lucide, non si curano della fama passeggera, amano come il campo. Fermiamoci a questa prima immagine, in cui c'è qualcosa di profondamente spirituale e di terreno al tempo stesso. Per entrarci dentro è inevitabile tornare alla Russia della fine dell'Ottocento e a quel mondo contadino per cui Esenin dice di provare dolci ricordi. Fino a qualche decennio prima della nascita del nostro giovane poeta vigeva nelle terre dello zar la legge della servitù della gleba: i contadini non potevano spostarsi dal campo a cui erano assegnati e vivevano in condizioni difficili, spesso sotto il dominio molto duro dei propri signori, esposti all'arbitrio di prepotenze e abusi. I genitori di Sergej Aleksandrovič erano cresciuti in tale condizione. Cosa vuol dire allora quel verso? mi amano come il campo ...

Credo che il campo possa rappresentare ciò che dà la vita, ciò che è necessario, la cosa senza la quale non è possibile vivere. Il padrone può essere un uomo crudele ed avido, il tempo rovinare il raccolto e i corvi  giungere all'improvviso per divorare le messi, ma il campo rimane. Il legame non si spezza mai,  è ciò di cui non si può fare a meno. Come l'amore per un figlio.  

I genitori del poeta lo amano, si aggiunge, come la carne. Trovo qui di nuovo concretezza e spiritualità, quel connubio di opposti che riesce così bene solo in queste lande troppo lontane, in questa lingua dai segni che sembrano formule magiche. La carne, il segno della festa che annuncia lo spalancarsi di un tempo diverso e sacro, il gesto antico del sacrificio, perché in quel mondo arcaico cibarsi di carne vuol dire versare il sangue di un essere vivente e questo è sempre un atto rituale, un sacrificio di condivisione. Mangiare carne è anche il modo in cui si fa propria la vita di un altro. Non a caso il profeta di Nazareth ha posto l'essenza stessa della fede in Lui in parole inequivocabili: questa è la mia carne ... 

La voce di Esenin assume un tono inattuale - e perciò quanto mai prezioso - quando scrive :

Io amo la patria.

Amo molto la patria!

La sua è tuttavia una patria del cuore: non ha lo splendore di Pietroburgo, ma coincide con il povero paesaggio della sua terra: La patria sono le sue radici, le preghiere semplici dei suoi cari, le loro credenze ancestrali : una mestizia rugginosa avvolge i suoi salici. 

Stendendo stuoie dorate di versi,

vorrei dirvi qualcosa di tenero.

Buona notte!

A voi tutti buona notte!


Chi è l'autore di "Confessione di un teppista" ?

Sergej Aleksandrovič Esenin nasce il 3 ottobre 1895 nella regione di Rjazan; figlio unico di genitori contadini, è l’esponente più importante della cosiddetta scuola dei “poeti contadini”. Nei suoi versi traspare il mondo rurale della Russia di inizio Novecento: le sue parole esaltano le bellezze della campagna, l’amore verso il regno animale, ma anche gli eccessi della sua vita: Esenin, condusse una vita di eccessi e dissoluzione. 

Le note che seguono sono tratte dal dal sito  https://www.pangea.news/sergej-esenin-ritratto-ragazzini/

Cantore della Rus’, la Russia mitica che si perde tra le pieghe del tempo e tutta splendente di verdi pascoli e sapienti eroi pastori, aveva però abbandonato la contrada natale per recarsi nella grande metropoli. Laggiù aveva costruito la sua notorietà proprio su quella bucolica Rjazan’ che aveva abbandonato, fino ai giorni della rivoluzione.

Esenin non era un rivoluzionario, forse aveva creduto che i venti del cambiamento avrebbero portato qualcosa di buono, una nuova vita per la Rus’ arcaica. Ma i bolscevichi non avevano alcuna intenzione di ripristinare un tempo così lontano, così ideale. Anzi, erano più votati all’acciaio, anziché ai verdi pascoli. Dev’essere difficile credere o sperare in una causa e poi abbandonarla, inorriditi da come le buone idee possono trasformarsi in azioni terribili. Quando Esenin farà ritorno al suo borgo, dirà di non essere mutato; invece la sua casa è scivolata nell’autunno più grigio che si possa pensare, trascinando con sé la famiglia e il paese intero.

Il poeta muore suicida il 27 dicembre 1925, all’età di 30 anni: mentre si trovava nella stanza di un albergo a San Pietroburgo, se ne va impiccandosi alle tubazioni dell’impianto di riscaldamento.





giovedì 17 marzo 2022

Brecce nella notte

ESTRELLA LA GITANA STA SULLA PORTA




Estrella la gitana sta sulla porta.
È caduta la sera sul paese scuro.
E lei osserva il cielo 
Con i suoi occhi moreschi,
Brecce nella notte,
Neri soli profondi.
La strada sola e bianca.

    ecco la versione originale:
 
Estrella la gitana está en su puerta.
Cayó la noche sobre el pueblo oscuro.
Y ella el cielo contempla
Con sus ojos morunos,
Boquetes de la noche,
Negros soles profundos.
La calle sola y blanca



       Federico Garcia Lorca (da "Il mio segreto")


Tutto sembra oscuro in questa poesia giovanile di Federico Garcia Lorca: la notte appena sopraggiunta, il paesino, gli occhi di Estrella, la gitana che sta sulla porta e contempla il cielo. Che occhi inquietanti e meravigliosi quelli di Estrella, neri soli profondi !
Secondo Marta Zambrano, una delle intelligenze più vive ed interessanti del novecento, il verso «negros soles profundos» è la rappresentazione più espressiva del viaggio che Lorca dovette realizzare prima di morire per rinascere: "a Federico se le dio la facultad de sentir y no sólo ver el negro sol de la noche".

A me, più semplicemente,  questa poesia riporta tra le viuzze di Granada, lì a El Albaicín, su per il vecchio quartiere moresco. A una chitarra che piange al suono del flamenco: la sera è caduta sul paese oscuro e poi gli occhi di Estrella ... Brecce nella notte  un verso che vale una raccolta poetica.











domenica 16 gennaio 2022

qualcosa nella vita che alla mezzanotte si conforma

 




Quando le luci si spengono

poco per volta ci si abitua al buio

come quando il vicino, sollevando alto

il lume, sigilla il suo addio –


Dapprima – i passi si muovono incerti

nel buio improvviso –

poi – lo sguardo si abitua alla notte –

e senza incertezze affrontiamo la strada –


Ed è così nelle oscurità più fonde –

in quelle notti lunghe della mente

quando non c’è luna che sveli un suo segno –

quando non c’è stella che – dentro – si accenda –


E i più coraggiosi – per un poco brancolano –

e battono – a volte – dritti in fronte –

contro il tronco di un albero –

ma poi imparano a vedere –


E allora è la Notte che si trasforma –

oppure un qualcosa nella vita

che alla mezzanotte si conforma –

E la vita procede quasi senza incertezza.


Emily Dickinson (da "Silenzi", a cura di Barbara Lanati)


la versione originale ... molto molto bella:


We grow accustomed to the Dark —

When Light is put away —

As when the Neighbor holds the Lamp

To witness her Good bye —


A Moment — We Uncertain step

For newness of the night —

Then — fit our Vision to the Dark —

And meet the Road — erect —


And so of larger — Darknesses —

Those Evenings of the Brain —

When not a Moon disclose a sign —

Or Star — come out — within —


The Bravest — grope a little —

And sometimes hit a Tree

Directly in the Forehead —

But as they learn to see —


Either the Darkness alters —

Or something in the sight

Adjusts itself to Midnight —

And Life steps almost straight.



Mi hai sorpreso qualche giorno fa. Leggo sempre con interesse le tue cose, seguo i tuoi interventi, apprezzo la cura che metti nelle tue analisi, mai superficiali, sempre capaci di raccontarmi qualcosa di nuovo su terre lontane e antichi conflitti dimenticati. All'improvviso mi hai sorpreso con un messaggio inaspettato, senza giri di parole. 

Questa poesia è per te.

Racconta di quelli che come noi si mettono per strada, anche se hanno la notte nella mente e dentro nemmeno una stella brilla. Brancoliamo per un po' - certo - e a volte ci facciamo male. Poi impariamo a vedere. Ma forse non dipende da noi ... è la Notte che cambia,  qualcosa nella vita prende le misure all'oscurità, qualcosa - piano piano - si conforma alla Mezzanotte. Questo il segreto.