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mercoledì 27 novembre 2019

Ti attendo più oltre dei limiti



The Fisherman and the Syren, Frederic Leighton


Ciò che tu sei
mi distrae da ciò che dici.

Lanci parole veloci
inghirlandate di risa,
e mi inviti ad andare
dove mi vorranno condurre.
Non ti do retta, non le seguo:
sto guardando
le labbra dove sono nate.

Guardi, improvvisa, lontano.
Fissi lo sguardo lí, su qualcosa,
non so che, e scatta subito
a carpirla la tua anima
affilata, di saetta.
Io non guardo dove guardi:
sto vedendo te che guardi.

E quando tu desideri qualcosa
non penso a ciò che vuoi,
e non lo invidio: non importa.
Oggi lo vuoi, lo desideri;
domani lo scorderai
per un desiderio nuovo.
No. Ti attendo piú oltre
dei limiti, dei termini.
In ciò che non deve mutare
rimango fermo ad amarti, nel puro
atto del tuo desiderio.
E non desidero piú altro
che vedere te che ami.

di Pedro Salinas (traduzione di Emma Scoles)


giovedì 21 novembre 2019

una tribù di parole mutilate


Tristano e Isotta, Salvador Dalì

Anelli di cenere

(a Cristina Campo)

Sono le mie voci a cantare
perché non cantino loro,
gli imbavagliati grigiamente nell’alba,
quelli vestiti da uccello sconsolato nella pioggia.

C’è, nell’attesa,
un mormorio di lillà che si rompe.
E c’è, quando arriva il giorno,
una divisione del sole in piccoli soli neri.
E quando si fa notte, sempre,
una tribù di parole mutilate
cerca asilo nella mia gola,
perché non cantino loro,
i funesti, i padroni del silenzio.

             di Alejandra Pizarnik, traduzione di Roberta Buffi


Alejandra Pizarnik 
Alejandra Pizarnik nacque a Buenos Aires nel 1936, in una famiglia di immigrati ebrei di origine russa e slovacca. Nel 1954 si iscrisse alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Buenos Aires ma non terminò i suoi studi. Avida lettrice già in giovanissima età, pubblicò il suo primo libro, intitolato La terra più estranea, nel 1955. A questo seguirono L’ultima innocenza, nel 1956, e Le avventure perdute, nel 1958. Tra il 1960 e il 1964 visse a Parigi, dove collaborò con diverse riviste e quotidiani. A quel periodo risale la sua amicizia con Julio Cortázar, André Pieyre de Mandiargues, Cristina Campo e Octavio Paz, che scrisse il prologo alla sua quarta raccolta di poesie intitolata Albero di Diana (1962). Nel 1964 tornò a Buenos Aires e pubblicò le sue opere più conosciute: I lavori e le notti (1965), Estrazione della pietra della follia (1968) e L’inferno musicale (1971). Nel 1954 Pizarnik iniziò a scrivere un diario che l’accompagnò fino agli ultimi giorni della sua vita (dal sito della casa editrice LietoColle che ha pubblicato la traduzione delle sue poesie).
Nel 1972, all’età di trentasei anni, Alejandra si tolse la vita, nella stessa città in cui era nata.
Poesia completa raccoglie tutte le poesie di Alejandra Pizarnik; il volume è stato curato da Ana Becciu, poetessa e traduttrice letteraria.

 L’epistolario con Cristina Campo, alla quale la poesia Anelli di cenere  è dedicata, si compone  di una trentina di lettere – non ci sono pervenute quelle della Pizarnik – in francese, è stato scoperto, una decina di anni fa, da Stefanie Golisch, autrice di studi su Uwe Johnson e Ingeborg Bachmann, traduttrice verso il tedesco, tra gli altri, di Antonia Pozzi, Charles Wright e delle poesie di Cristina Campo.
In un'intervista che potete leggere per intero qui:  http://www.pangea.news/molti-vivono-al-margine-del-loro-destino-le-lettere-inedite-di-cristina-campo-ad-alejandra-pizarnik/  la Golisch scrive: "quando Cristina e Alejandra si conoscono, si conoscono già. Per quanto apparentemente diverse se non opposte, c’è qualche cosa che le accomuna e cioè l’ossessione del proprio io. Delle sue ferite e delle sue potenzialità. La convinzione che tutta la bellezza della vita si gioca dentro ogni singolo essere umano. Cristina Campo, la raffinata scrittrice e studiosa, molto discreta con la sua vita volutamente appartata, la sua naturale eleganza di altri tempi, che disprezzava i cosiddetti circoli letterari, dicendo di se stessa  di aver scritto poco e di aver voluto scrivere ancora meno e Alejandra Pizarnik, l’eterna ragazza dai tratti geniali, psichicamente labile che si compiaceva nel ruolo di uno sfrenato Rimbaud al femminile e che voleva fare del suo corpo il corpo della poesia. Sostiene George Bataille che quando due persone s’innamorano, sono le loro ferite che s’innamorano. Il compimento dell’amore sarebbe dunque il momento del massimo dolore: quando le due ferite si posano una sopra l’altra. Probabilmente ciò che Alejandra e Cristina avvertono istintivamente una nell’altra è la radicalità con cui la vita si misura in loro secondo i gradi d’intensità. Sotto la soglia della massima intensificazione di ogni attimo, nulla vale. Ciò che conta non sono tanto i mezzi della ricerca – abbandono incondizionato ai piaceri del mondo o elevazione spirituale – quanto il bisogno di bruciare vivi. Cristina Campo sublimerà la sua natura seguendo l’ideale della perfezione – a tutti i livelli –, per Alejandra significa: resistere giorno per giorno nella spietata battaglia tra l’io e il mondo. Perché soltanto a chi non diserta e non si risparmia, a chi si espone coraggiosamente alle sfide mortali che la vita gli lancia, sarà concesso di formulare – per dirlo con un’espressione di Ingeborg Bachmann – wahre Sätze,  frasi vere."


martedì 19 novembre 2019

Un’ombra sul muro





Un’ombra sul muro 
di rami, a mezzodí mossi dall’aria, 
è già abbastanza terra 
e in rapporto all’occhio 
un sufficiente prendere parte 
ai giochi del cielo. 

Quanto pensi ancora d’avanzare? Vieta 
alle nuove impressioni 
d’irrompere dentro di te – 

star coricati, in silenzio, 
in vista dei propri campi, 
entro i confini del feudo, 
e soprattutto sostare 
a lungo presso il papavero 
che non si dimentica 
perché ha retto tutta l’estate – 

dov’è finito ? 

                                 di Gottfried Benn

sabato 16 novembre 2019

Semplicità


Si apre il cancello del giardino
Foto di Grete Stern
con la docilità della pagina
che una frequente devozione interroga 
e all’interno gli sguardi
non devono fissarsi negli oggetti
che già stanno interamente nella memoria.
Conosco le abitudini e le anime
e quel dialetto di allusioni
che ogni gruppo umano va ordendo.
Non ho bisogno di parlare
né di mentire privilegi;
Bene mi conoscono quelli che mi attorniano,
bene sanno le mie ansie e le mie debolezze.
Ciò è raggiungere il più alto,
quello che forse ci darà il Cielo:
non ammirazioni, né vittorie
ma semplicemente essere ammessi
come parte di una realtà innegabile,
come le pietre e gli alberi.

                                 di Jorge Luis Borges


Il cancello di un giardino si apre davanti a noi, allo stesso modo - docilmente - della pagina di un libro al quale torniamo con amore e devozione. Credo che ognuno abbia presente in cuor suo di che pagina si tratti; l'abbiamo sottolineata, annotata o forse vi abbiamo lasciato una data.

All'interno del giardino oggetti consueti su cui lo sguardo non ha bisogno di indugiare, essi sono impressi nella memoria, interamente. Siamo entrati in uno spazio a cui apparteniamo: conosciamo le abitudini e le anime che lo abitano, ne intendiamo il dialetto di allusioni con cui sono solite rivolgersi tra di loro, una lingua in cui la parola non indica ma allude, non denomina ma crea, non enumera ma confonde... Che posto è questo?

Anche il parlare qui è un di più, soprattutto inutile è il mentire privilegi, troppo conoscono quelli che vi abitano debolezze e ansie di chi arriva.

Entrare in questo giardino 

è raggiungere il più alto,
quello che forse ci darà il Cielo

il più alto... ben oltre i palazzi dei principi e le austere aule della scienza, al di là delle sorgenti di fiumi sconosciuti o di cime mai conquistate; non ammirazioni, né vittorie attendono l'ospite, solo essere ammessi come parte di una realtà innegabile. Come acqua che scorre verso valle, come stelle che percorrono strade sempre uguali, come le pietre e gli alberi.

Questo posto è casa, il luogo del ritorno, la freccia che arriva al bersaglio, il porto che attende dopo lungo peregrinare.  Ma che vuol dire essere ammessi ?

Per rispondere a questa domanda mettiamoci di fronte al quadro del Guercino Il ritorno del figliol prodigo, ora esposto nel  Kunsthistorisches Museum di Vienna. 


Il racconto del Vangelo di Luca a cui Giovanni Francesco Barbieri si ispirò per la composizione del quadro è troppo noto perché lo si debba riassumere. Molte sono le interpretazioni che critici ed esegeti hanno dato alla parabola e da ultimo vi si è cimentato anche Massimo Recalcati (il coraggio del figliol prodigo di sfidare il padre). Sebbene la poesia di Borges e il racconto evangelico divergano sotto diversi aspetti, dal quadro di Guercino mi sembrano emergere alcuni punti interessanti. Guercino coglie della storia del figliol prodigo il momento in cui il padre, come nota Recalcati "non punisce il figlio che ritorna, non applica su di lui la Legge, non lo castiga", ma lo accoglie di nuovo in casa, lo ammette - nuovamente - nel posto che è la sua naturale dimora. I modi con cui questo gesto del padre si realizza sono il fulcro del dipinto di Guercino: la mano destra del padre abbraccia la schiena del giovane figlio, con una naturalezza non priva di energia, mentre quella sinistra prende in mano con sollecitudine la veste bianca, destinata a sostituire i cenci con cui si è presentato. 
Questa tensione, questo movimento, efficacemente reso nel quadro, mi sembra in forte sintonia con il raggiungere il più alto che il figlio sperimenta, simboleggiato dalla lucentezza della veste bianca impugnata dal padre: il giovane figlio ribelle, solo ora che ritorna alla casa del padre è davvero capace di comprendere il senso dell'eredità che ha ricevuto. 

Se guardiamo la posizione della testa leggermente reclinata e la posizione delle braccia del giovane che si spoglia, non possiamo non cogliere la naturalezza delle movenze, la confidenza e la semplicità dei gesti. Una semplice armonia lo avvolge, non ha bisogno di parole, di scuse, di vanterie.

Ad ammettere nel più alto, non sarà l'essere stati giusti, né aver superato prove come quelle che Perceval  superò nel "castello meraviglioso" dove è custodito il Graal... semplicemente essere ammessi, come accade ad un figlio che ritrova la strada per casa da cui era partito...

ora è tornato, come parte di una Realtà innegabile.





martedì 12 novembre 2019

Non vi rincresca il nome di fratelli



La gloria di colui che tutto move 
per l’universo penetra, e risplende 
in una parte più e meno altrove.  

E' la terzina con cui comincia la cantica del Paradiso, non una terzina qualunque in effetti, ma quella con cui Dante apre  il racconto dell'ultima e più importante tappa del suo viaggio tra i tre regni. Eppure se consultate i libri di scuola o le spiegazioni più usuali troverete qualcosa di simile a questo:

"La potenza di Dio (colui che muove tutte le cose)
si diffonde in tutto l'Universo, e splende
più in alcune parti e meno in altre"

Il senso sarebbe dunque che l'onnipotenza di Dio raggiunge tutto l'Universo e ogni cosa a lui deve obbedienza. Gloria in questa prospettiva è pertanto sinonimo di dominio. E' una spiegazione tuttavia che non mi convince. 

Il termine gloria infatti, in ebraico kāḇôḏ e nel linguaggio biblico, ha due significati molto diversi se associato a realtà materiali, terrene e laiche o associato a Dio. In quest'ultimo caso “Gloria” indica la sintesi, la somma di tutti gli attributi di Dio, quindi la Sua perfezione, lo splendore e la luminosità che è inseparabilmente collegata con tutte le virtù di Dio e con la sua auto-rivelazione. Dunque gloria è il carattere peculiare di Dio, la bellezza, ciò che è eccellente, straordinario. La gloria di Dio comunica ciò che Dio è. La Sua natura intrinseca e la Sua essenza. 

Se così stanno le cose, la terzina ha un senso molto più profondo e drammatico.

Perché se è vero che non c'è luogo dell'Universo che  non sia abitato da una scintilla di luce, se persino nelle profondità degli abissi di ciò che l'uomo ha potuto compiere vive la Sua bellezza ... tutto cambia.

Ma è davvero così?

Davvero l''impronta dell'essenza di Dio penetra nelle profondità di ogni esperienza dell'umano? Anche nell'acido dove il mafioso ha sciolto un bambino ? Nello sputo rancido del razzista ? Nel letto d'ospedale in cui un bambino malato è stato abbandonato dai genitori? Perché o ciò che Dante ha scritto è vero fino in fondo oppure è solo una bella frase consolatoria e dolciastra, qualcosa di più di un bigliettino in un biscotto della fortuna...

Mi fido di Dante.

Fëdor Dostoevskij
Così come non c'è luogo sulla terra in cui non si nasconda l'impronta della Sua luce non c'è uomo che io non sarei potuto diventare e nel mio sangue c'è lo stesso sangue di tutti gli aguzzini del mondo. Come dice lo starec Zosima, parlando ai suoi confratelli, ne I fratelli Karamazov :

Noi non siamo più santi degli uomini che abitano il mondo solo perché siamo venuti qui e ci siamo chiusi tra queste mura; al contrario, chiunque è venuto qui, fosse solo per questo fatto, ha riconosciuto di essere peggiore di ogni laico, di tutti e di tutto sulla terra… E quanto più un monaco vivrà tra le sue mura, tanto più a fondo dovrà esserne cosciente. Perché se così non fosse, sarebbe venuto qui invano. Quando poi comprenderà di essere non solo peggiore di ogni laico, ma anche colpevole di ogni cosa di fronte a tutti gli uomini, di ogni peccato umano, universale e individuale, solo allora sarà raggiunto il fine di questo nostro ascetismo. Sappiate infatti, miei cari, che noi tutti siamo indubitabilmente colpevoli di ogni cosa su questa terra, non solo a causa della colpa universale che ci accomuna: ciascuno di noi assume su di sé le colpe di tutti gli uomini e di ogni individuo che vive sulla terra. 

Secondo Eraldo Affinati  «Dostoevskij ci fa capire che il caos non è fuori di noi: appare piuttosto celato dentro la personalità di ognuno. Al termine dei suoi romanzi spunta spesso una vocina misteriosa che fa così: stai attento, questo potrebbe capitare anche a te. Nessuno può dire: io non c’entro. Quando un uomo commette un delitto, piccolo o grave, si accende una luce rossa intermittente che non riguarda soltanto lui» (E. Affinati,  Il peso dell’altro ne I fratelli Karamazov).

Oggi tuttavia sempre più fa sentire la sua voce un altro tipo umano, qualcuno lo ha chiamato l'intransigente del bene. E' l''uomo morale, sicuro di trovarsi al di là del confine tra il giusto e l'ingiusto, l'uomo che punta il dito per accusare e addita il male da lontano, con un certo imbarazzo.

Gli integralisti del bene si sarebbero certo tenuti alla larga da tipi come François Villon, che attorno al 1462 scriveva il suo testo più famoso, La ballata degli impiccati, che qui presento nella traduzione di Antonio Garibaldi per i tipi di Einaudi:

Fratelli umani, che ancora vivete,
Non siate duri di cuore con noi!
Se di noi miseri avrete pietà,
Più presto l'avrà Dio anche di voi.
Qui ci vedete in cinque o in sei appesi:
La nostra carne anche troppo nutrita
Da un pezzo è divorata e imputridita,
cenere noi, le ossa, siamo  e polvere.
Del nostro male non rida nessuno,
Ma Dio pregate che ci voglia assolvere!

 Non vi rincresca il nome di fratelli, 
Che, benché giustiziati, noi vi diamo...
Sapete bene, tuttavia, che a posto
Non hanno tutti gli uomini la testa.
Per noi, che siamo morti, intercedete
Col  figlio della Vergine Maria !
La sua grazia per noi non sia estinta,
E ci salvi dai fulmini infernali.
Noi siamo morti, non ci sbeffeggiate,,
Ma Dio pregate che ci voglia assolvere!

La pioggia ci ha lavati e ripuliti,
E il sole ci ha seccati ed anneriti;
Gazze e cornacchie ci han cavato gli occhi ,
E strappato la barba e i sopraccigli.
Non stiamo fermi mai, neanche un attimo,
Di qui, di là, il vento appena varia,
Ci fa a suo piacere dondolare,
Resi come ditali dagli uccelli.
Non siate della nostra compagnia,
Ma Dio pregate che ci voglia assolvere!

O Gesù, che su tutti hai signoria,
Salva l'anima nostra dall’Inferno,
Con cui niente vogliamo da spartire.
Qui non c'è niente da scherzare, Umani;

Ma Dio pregate che ci voglia assolvere!

C'è un verso in questa ballata degli impiccati che negli anni mi è continuato a risuonare dentro ed è quando la voce dei condannati dice: non vi rincresca il nome di fratelli. Lo sanno che sono dei tagliagole, dondolano insieme, puttane, truffatori e ladri, per questo dice, non dispiacetevi se vi chiamiamo fratelli. Sì lo sappiamo che non siete come noi, non diamo la colpa a nessuno per i becchi degli uccelli che ci tormentano, per il sole che ci ha seccati, per il vento che di qui e di là ci scuote. Abbiamo avuto quello che ci meritavamo, ma non tutti hanno la testa a posto... Badate bene, non siate della nostra compagnia ...

Io non riderò di voi, non punterò il dito, quel che siete avrei potuto essere io.

homo sum, humani nihil a me alienum puto



venerdì 8 novembre 2019

dietro di me un grumo di speranza.


al primo che salì sopra quel muro,
perché un primo deve pur esserci stato
- quando mica lo sapevi se i Vopos avrebbero sparato
oppure no -
al primo, coraggioso e folle,
al primo ragazzo o alla prima donna.
a loro
che mostrarono a tutti gli altri la via ...


Berlino, anni '70


Sono una tedesca dell’Est; ti vien dietro
come il fumo negli stoppini appena spenti
sono tedesca dell’est, ti cresce
come un fungo tra le dita dei piedi
conto i centesimi del mio marco
il soldato che non ho arruolato
ne mangia sempre la sua percentuale
sono tedesca dell’est e non solo
per la lingua
sono tedesca dell’est finché
i pali non marciscono
finché diffidenze e spie
insaporiscono le salse fatte in casa
me ne sto seduta al lato spoglio del tavolo

sono tedesca dell’est e trascino
dietro di me un grumo di speranza.


      di Helga Maria Novak



Helga M. Novak nel 1971
Helga M. Novak (pseudonimo di Helga Maria Nowak) nacque a Berlino-Köpenick nel 1935 e crebbe a Erkner nei pressi di Berlino in una famiglia adottiva da cui si distaccò appena quindicenne per frequentare un collegio per la formazione di quadri del Partito socialista unitario. La giovane entrò tuttavia assai presto in conflitto con le autorità della DDR: dapprima costretta a interrompere gli studi universitari a Lipsia fu quindi privata della cittadinanza nel 1966 per «sentimenti antisocialisti». 

Nei decenni successivi visse a Francoforte sul Meno e a Berlino Ovest, soggiornando tuttavia a lungo in diversi Paesi, tra cui l’Islanda, la Jugoslavia, la Spagna, il Portogallo della rivoluzione dei garofani, la Polonia di Solidarność, gli Stati Uniti. Nel 1989 si stabilì infine in una località nella brughiera di Tuchel, nella Polonia settentrionale. 
Oltre a dieci raccolte di poesie, insignite di numerosi premi, Helga M. Novak è autrice di radiodrammi, prose, racconti e di romanzi autobiografici che ottennero una vasta eco nella Germania federale dei primi anni Ottanta: Die Eisheiligen e Vogel federlos (Volava un uccello senza piume, Giunti 1990). L’ultimo volume della trilogia autobiografica, intitolato Im Schwanenhals, è uscito nel 2013 ed è incentrato sugli anni universitari, sovrastati dalla onnipresente Stasi, la polizia segreta della DDR. Helga M. Novak è morta a Rüdersdorf, presso Berlino, nel 2013.

Dal sito della casa editrice Effigie Edizioni che ha pubblicato la prima antologia italiana della poetessa berlinese, Finché arrivano lettere d'amore.


martedì 5 novembre 2019

Che lei è stata qui



Claude Monet, Le Bassin aux nymphéas, harmonie verte, Musée d'Orsay



Che il vento d’oriente
aliti nell’aria profumi,
è un segno lontano, un indizio  
che tu sei stata qui.

Che qui lacrime scorrano,
ruscelli che devi attraversare
se in questo prato vuoi entrare,
sono un segno per te, il solo indizio
che sono stato qui.

Bellezza o amore, qui
in strani nascondigli ci si occultano.
Soltanto lacrime e profumi annunciano
che sono stati qui.



di Friedrich Rückert,
                              traduzione di Quirino Principe.


Friedrich Rückert  fu un poeta e un importante orientalista, nacque a Schweinfurt il 16 maggio 1788 e morì  presso Coburgo nel gennaio 1866. A Vienna si dedicò allo studio delle lingue orientali, studio che proseguì poi per tutta la vita. Insegnò letterature orientali prima nell'università di Erlangen (1826-41) e quindi in quella di Berlino (1841-48), pubblicando - oltre alle molte traduzioni dall'arabo, dal persiano e dall'ebraico - una serie di fondamentali lavori critici.

domenica 3 novembre 2019

Naufraghi dei cieli


 Mi dici che a volte la luce della stella si fa troppo tenue. Riesci ancora a vederla, aggiungi ... per quanto ancora ? vuoi forse dirmi. 

Amica carissima, non guardare avanti, ci dice il poeta. E' difficile, lo so bene. Quanto spesso misuriamo il viaggio come se la meta, per quanto lontanissima, fosse davanti a noi. E quanto ci ingarbuglia la vita questo nostro misurare tappe e saggiare le forze, la direzione del vento, la rotta che si perde, le stelle che ora - sì - orientano, ora sono velate...

Abbandonati e galleggia
sopra il mare o sull'erba...



Crepuscolo, Monet, Musée des Beaux-Arts de Nantes


I cieli sono uguali

I cieli sono uguali 
Azzurri, grigi, neri,
si ripetono sopra
l'arancio o la pietra:
guardarli ci avvicina.
Annullano le stelle,
tanto sono lontane
le distanze del mondo.
Se noi vogliamo unirci,
non guardare mai avanti:
tutto pieno di abissi,
di date e di leghe.
Abbandonati e galleggia
sopra il mare o sull'erba,
immobile, il viso al cielo.
Ti sentirai calare
lenta, verso l'alto,
nella vita dell'aria.
E ci incontreremo
oltre le differenze
invincibili, sabbie,
rocce, anni, ormai soli,
nuotatori celesti,
naufraghi dei cieli.


                    di Pedro Salinas

venerdì 1 novembre 2019

Apodytherion


Spogliati. 
Scopri questa secca che chiami pelle.

Naviga. Tra un solco ed uno scoglio
arenati dove l'acqua cede al sale.

Guarda.
Hai prosciugato l'Oceano da cavalcare, l'onda più alta di risacca.

Tocca.  Qui è solo fondo, conchiglie che azzoppano, sabbia e ancore
arrugginite.

Sotto le unghie s'attacca la terra che ricoprì mio padre.


      di Simona Mancini 



La poesia è la parte di noi che non sa stare al mondo. Quella azzoppata alla nascita. Scampata alla rupe. Così Simona Mancini, che si muove nell'universo delle parole come se fosse la sola dimensione possibile dell'esistere, da fuori.


Ho spesso desiderato che lo strano viaggio verso una stella tenue, ad un certo punto, potesse assumere l'aspetto di "un posto pulito, illuminato bene", un posto bello dove rimanere insieme a 
quelli che non riescono ad andare a letto presto, "tutti quelli che hanno bisogno di una luce per la notte" , come nel racconto di Ernest Hemingway.

E' quello il momento in cui qualcuno dei miei compagni di viaggio ci avrebbe fatto dono della sua poesia. Oggi questo desiderio si realizza con la bella poesia di Simona Mancini Apodytherion. Lo spogliatoio, un confine misterioso, una soglia che immette in un'esperienza della vita segnata da 

... conchiglie che azzoppano, sabbia e ancore
arrugginite