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venerdì 31 dicembre 2021

fatto ho al mio canto un mantello

 

                                                     William Butler Yeats (1865-1939) | Dublin City Council


            Un mantello


Fatto ho al mio canto un mantello

Ornato di ricami

D'antiche mitologie

Da capo a piedi;

Me l'han strappato gli sciocchi,

L'hanno ostentato davanti a tutti

Come se l'avessero ricamato loro.

Lascia, o mio canto, che se lo tengano,

Perché c'è più coraggio

A camminare nudi.

(da 'Responsabilità' di W. B. Yeats, 1914 – Traduzione di Gabriele Baldini)


ed ecco  la versione originale:

I made my song a coat 

Covered with embroideries 

Out of old mythologies 

From heel to throat; 

But the fools caught it, 

Wore it in the world’s eyes 

As though they’d wrought it. 

Song, let them take it

For there’s more enterprise 

In walking naked.


    Dopo molto tempo riprendo a scrivere di poesia. Lo faccio in queste ore, le poche che restano nell'anno difficile che va concludendosi. Ho scelto una poesia di Yeats che mi è stata fedele compagna in tempi recenti. Un cantore è sotto i nostri occhi mentre ci dice che ha intessuto di antiche leggende il manto del suo canto. La metafora è piuttosto chiara per chi conosce gli interessi del poeta di Dublino per i miti e le tradizioni del suo popolo, nonché la cura con cui scriveva i suoi versi.
Non si trattava nel caso di Yeats di un atteggiamento banalmente romantico e sganciato dalla realtà; negli anni in cui fu scritta questa poesia l'interconnessione tra politica, cultura e letteratura era così forte che senza tale legame non si può spiegare la rivolta del 1916 e gran parte del successo della lotta per l'indipendenza irlandese.

Poi c'è il gesto improvviso e inatteso con cui degli sciocchi strappano il mantello al poeta e lo indossano sotto gli occhi di tutti come se lo avessero ricamato loro. I versi alludono forse a scrittori mediocri o a furbi politicanti. Non è così importante stabilirlo; colpisce piuttosto lo scarto tra la cura e l'amore con cui il mantello è stato realizzato e la natura di chi se ne è impossessato - sono degli sciocchi - e la volgarità delle loro motivazioni - il loro solo intento è ostentare una bellezza di cui mai avrebbero potuto essere gli artefici. 

Infine, nell'ultima sequenza l'io poetico si rivolge direttamente al suo canto-mantello: lascia pure che se lo tengano - aggiunge. E poi la conclusione fulminante, di quelle che si fissano come un sigillo tatuato sulla pelle :

Perché c'è più coraggio

A camminare nudi.

    Il motivo per cui amo questa poesia di Yeats è perché non parla solo della rivoluzione irlandese o dell'essenza dell'arte poetica, ma di un certo modo di stare al mondo che è nella natura umana. Certo è quanto mai raro e a volte stentiamo a riconoscerlo, ma quando ci imbattiamo in esso, l'incontro che ne scaturisce ha il potere di forgiare un'anima, in alcuni casi perfino un'epoca. Per entrare in questo aspetto della poesia dobbiamo forse partire da un'analisi più precisa dell'immagine del mantello, l'oggetto che del resto dà il titolo alla poesia. Nella cultura irlandese infatti  il mantello non è solo un capo di abbigliamento, ma nei tempi antichi per i più poveri rappresentava l'unica risorsa contro il freddo e le intemperie, la coperta in cui avvolgersi nella notte, il riparo dalla pioggia. La differenza tra la vita e la morte poteva dipendere dall'avere un mantello oppure no.

Il poeta Edmund Spenser nel XVI secolo ritrae in alcuni suoi versi le qualità del mantello irlandese (brat in irlandese)

It is a fit house for an outlaw, a meet (suitable) bed for a rebel ,/ and an apt cloak for a thief” .

"E' una degna casa per un bandito, un letto adeguato per un ribelle, / ed un mantello adatto per un ladro

    Possiamo dire che il mantello rappresenta sia l'arte poetica sia la dignità inviolabile dell'uomo,  la sua identità più autentica, ciò senza cui non è possibile la vita: la vera arte poetica, quindi, è ciò senza cui non è possibile vivere.  L'uomo che nella poesia di Yeats parla al proprio canto, parla in tal modo alla parte più vera di se stesso. Quell'uomo tuttavia non è soltanto il poeta, c'è qualcosa che appartiene all'umano in quell'essere nudo, spogliato del suo mantello, che va coraggioso, indifferente agli sguardi degli sciocchi. Quell'uomo, sia esso il poeta, il viandante, il profeta, credo oggi sia l'unico a poter svelare la verità sul mondo e su dove siamo giunti, perché nulla ha da difendere, tutto da donare.

Ecco il mio augurio in queste ore declinanti dell'ultimo giorno dell'anno. 


martedì 20 luglio 2021

alla tenerezza delle anse del destino

 



La vita nuova 


La vita nuova

arriva taciturna

dentro la vecchia vita

arriva come una morte

uno schianto

qualcuno che spintona così forte

un crollo.

E' una scrittura tanto precisa

e netta da non lasciare dubbi

né sfumature di senso eppure

non dà direzioni né mete.

La vita nuova irrompe

come un vecchio che cade

sul ghiaccio, un pensiero

davanti ad un muro, la 

sirena di un'ambulanza.

Non ci sono feriti

né annunci di sciagura

solo noi da convincere

a lasciar perdere il miraggio

di una via rettilinea, di un

orizzonte, lasciarsi curvare, 

piegare alla tenerezza

delle anse del destino.

La vita nuova

è come un grande tuono

sbriciolato

poi poco a poco

l'erba si china

sotto la pioggia

la prende

la beve.


da "La bambina pugile" di Chandra Livia Candiani



ad Aurora, alla tenerezza delle anse del suo destino


Una lettera giunge inaspettata, come un messaggio in una bottiglia lanciato da un naufrago e trovato sulla battigia. Cammino al mattino presto con un'amica e mettiamo insieme passi e affanni. I tasti di un pianoforte rimangono da tempo abbandonati da chi va macinando miglia su miglia a prendersi cura dell'anziana madre. Una studentessa mi invia una sua poesia sulla solitudine, bella ed intensa. Come i segni che il marinaio accorto scorge guardando l'orizzonte, le cose accadono intorno a me. E mi spingono a sciogliere gli ormeggi.

 Il viaggio ricomincia oggi, il vento soffia e invita a  prendere la via del mare, perché è lì che bisogna stare, nel pieno dell'esistenza, anche quando le nubi possono oscurare la vista e le onde si fanno minacciose, lì dove tutto viene messo in gioco per davvero. Siamo 'gettati' nella vita, come marinai che tentino di governare la propria nave in mezzo ad una tempesta: alcune cose possiamo controllarle, altre sono al di fuori della nostra azione, anche della nostra comprensione. 

Forse dovremmo abituarci all'idea che il mutamento improvviso - la "vita nuova" come la chiama Chandra Livia Candiani - è una condizione ineliminabile dell'esistenza umana. Il mare in tempesta non è in questo senso solo un potente simbolo della precarietà e del rischio, ma dell'essenza stessa dell'umano. Per questo Pascal dice:  “ Vous êtes embarqués”, siete tutti imbarcati. Secondo il filosofo francese è necessario riconoscere  l’elemento “marino”, come il nostro ambiente naturale: "Noi voghiamo in un vasto mare, sospinti da un estremo all’altro, sempre incerti e fluttuanti. Ogni termine al quale pensiamo di ormeggiarci e di fissarci vacilla e ci lascia; e, se lo seguiamo, ci si sottrae, scorre via e fugge in un’eterna fuga. Nulla si ferma per noi. È questo lo stato che ci è naturale e che, tuttavia, è più contrario alle nostre inclinazioni. Noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un’ultima base sicura per edificare una torre che si innalzi all’infinito; ma ogni altro fondamento scricchiola e la terra si apre sino agli abissi (Pensieri, 1670)"

Chandra Livia Candiani nella sua poesia esprime sul piano estetico qualcosa di simile a ciò che Pascal aveva rappresentato in modo straordinario nei Pensieri. La vita nuova giunge taciturna: cioè non annuncia il suo arrivo, non avvisa prima di manifestarsi, non ha un araldo che prepari l'ospite al suo ingresso. Taciturna  vuol dire anche che non ha spiegazioni da dare, non si tratta di arroganza, probabilmente non saprebbe cosa dire. Nella stessa sequenza, la poetessa attinge ad immagini di rovina improvvisa: la morte, un crollo, una spinta molto forte di uno sconosciuto, uno schianto. Più che il carattere negativo e luttuoso di tali immagini va forse colto un altro aspetto: ciò che opera nelle azioni evocate da questi versi accade e basta, in modo imprevedibile e definitivo. Prima c'era una persona viva, ora un corpo senza vita; un grumo di rovine occupa lo spazio dove prima sorgeva una casa, un essere umano era in piedi e ora qualcuno lo ha gettato con forza per terra, senza apparente motivo. Si rialzerà forse, ma non sarà più la stessa persona.

La vita nuova irrompe come una sentenza letta in tribunale, come il referto di un esame clinico che offusca la vista e serra il cuore in una morsa di ghiaccio, come una lettera in cui ti dicono che a lavoro non devi tornare. Non servi più. Qui, in questa ora di punta dell'emozione umana, per usare una felice espressione di Marguerite Yourcenar, non hanno dimora i dubbi o le sfumature. Le cose accadono nella loro essenzialità, per questo non indicano mete da raggiungere, né annunciano sciagure incombenti: la loro sfera d'azione è il presente. E tuttavia esse non sono prive di un senso. La poesia - a questo proposito -  ricorre a due espressioni significative. Nella prima si esprime la possibilità che la vita nuova  operi per convincerci a lasciar perdere il miraggio/di una via rettilinea. Con la seconda la poetessa si concentra sul soggetto, che all'irrompere della vita nuova è chiamato a lasciarsi curvare,/piegare alla tenerezza/delle anse del destino

Il miraggio di una via rettilinea è un'illusione la cui fallacia è nota al profeta e al poeta fin da tempi antichissimi; il rapsodo autore dell'Iliade conosce bene la mutevolezza della sorte che trasforma in un attimo la moglie di un principe in una schiava, uomini valorosi in corpi che "a terra giacevano, agli avvoltoi più cari che alle loro spose" (Iliade, XI 162). Chi accumula impegni, energie e progetti per inseguire tale via rettilinea non è vittima solo di una deformazione della vista, come appunto accade nel miraggio. Agisce su di lui qualcosa di più, una coazione a muoversi, una spinta così irresistibile ad avanzare nella direzione dell'immagine illusoria che diventa impossibile stare fermi, indugiare, trattenersi. Tale carattere dell'esperienza umana - d'altra parte - è molto moderno: lo cogliamo  soprattutto al cospetto dello sconvolgimento portato della vita nuova - lo schianto, il crollo, un vecchio che cade sul ghiaccio. Ci troviamo d'un tratto disorientati su un sentiero sconosciuto, difficile e aspro, nel quale spesso siamo tratti in inganno, proprio come in un miraggio. Ci viene detto - in questi frangenti - che l'importante è muoversi, cambiare affetti, vita, città, il lavoro. Bisogna ritrovare la via rettilinea, spostarsi il più lontano possibile da ciò che abbiamo attorno.  La soluzione all'irrompere della vita nuova sembrerebbe un movimento attraverso le cose.

A qualcosa di diverso invece, con straordinaria intuizione - se pure non agisca in tale circostanza la grazia di una speciale illuminazione - invita la seconda immagine su cui ci siamo soffermati: lasciarsi curvare - piegare - alla tenerezza delle anse del destino. Colpisce in questi versi la nitidezza della visione: innanzitutto delle forme verbali che presuppongono un rimanere fermi, un indugiare meditativo, un raccoglimento teso ad esplorare la profondità di questioni decisive. La sfida dunque non si gioca sul piano del fare, ma del riconoscere, ovvero del conoscere ciò che ci appartiene già, che risiede nel più intimo recesso dell'animo, terra incognita per eccellenza.

Tuttavia la comprensione dell'atto di  lasciarsi piegare rischia di sfuggire nella società del narcisismo collettivo:  tale azione finisce oggi per ridursi al segno di una sconfitta accolta con fatalismo o di una sottomissione colpevole. Del resto, chi si lascia piegare - in fondo - non si arrende? Non subisce la vita in modo passivo? Il fraintendimento non potrebbe essere più grave, poiché colui che si rassegna rimane prigioniero del miraggio: sopraffatto dalla propria miseria non cessa di desiderare la via rettilinea. A questa sola rivolge in effetti i moti del suo animo, siano essi rimpianti amari o ambizioni fugaci. La ragnatela del miraggio si fa in questi casi soffocante, a volte in modo insopportabile. 

Diversa è la sorte - mi pare - di chi intraprenda la via del raccoglimento interiore, di chi si lascia piegare alla tenerezza delle anse del destino. Abbiamo poc'anzi richiamato l'attenzione sul fatto che questa immagine esprima innanzitutto la necessità di un quieto fermarsi, indispensabile per attingere ad una speciale modalità di ascolto. Ma ciò non può accadere, se il dramma della vita nuova non produce una sua dolorosa risonanza, che diventa parola poetica. Per certi versi è quanto suggerisce Theodor W. Adorno quando scrive in Dialettica negativa che "il bisogno di lasciar diventare eloquente il dolore è condizione di ogni verità". 

Nella poesia il risultato del curvarsi è un incontro inatteso con la tenerezza delle anse del destino. Tenerezza ... una parola che balza fuori dal suo verso per interrogarci quasi con sfrontatezza: come è possible trovarla tra le tortuose anse del destino, tra il dolore che ghermisce ed atterra? Quale tenerezza c'è in una casa che crolla o in una sentenza che non concede appello?  Non ha forse ragione Giobbe quando, gridando la sua disperazione contro Dio, dice: "sono una maschera di polvere e cenere" ? 

Credo che nei suoi versi Chandra Livia Candiani non alluda al fatto che sia concesso all'uomo di scorgere, dietro la durezza degli eventi con cui la vita nuova si manifesta,  un disegno superiore o provvidenziale. Tale scoperta è l'esito possibile di un altro cammino. Qui le anse del destino, anche quando svoltano in modo deciso e tornano subito ad avvolgersi su stesse, nel momento stesso in cui ci distolgono dall'ambizione alla via sicura, disvelano la propria natura: la qualità preziosa e celata della loro tenerezza. Ma ciò è vero solo in rapporto al miraggio della via rettilinea: poiché questo è solo un'illusione mortifera, un pozzo avvelenato, una distorsione del desiderio autentico che ci abita, mentre quelle sono l'espressione più sincera della vita. Per quanto sia difficile a volte lasciarsi portare dalla corrente di un fiume tortuoso, rinunciando ad inseguire l'orizzonte di una strada diritta, è l'inganno del miraggio che dovremmo temere. Esso si rivela una trappola, un meccanismo incapace di compassione, di benevolenza. Un nemico che non lascia scampo.


domenica 14 marzo 2021

da allora vaghiamo





In molti e inspiegabili luoghi
Proviamo una Gioia -
Inspiegabile, pure, ma sincera come la Natura
O la Deità -

Arriva, senza sorprendere
Si dissolve - allo stesso modo -
Ma lascia una sontuosa Indigenza -
Senza Nome -

Profanarla con una ricerca - non possiamo
Non ha casa essa -
Né noi che l'abbiamo una volta ghermita -
Da allora vaghiamo.


Emily Dickinson


Per il momento è tutto...

E' giunta l'ora di tirare la nostra barca in secco, lavorare un po' sullo scafo, aggiustare vele e corde, ma soprattutto studiare la rotta su nuove mappe, interrogare il cielo con un vecchio cannocchiale.
Il viaggio verso la stella tenue non si ferma di certo. 

Se volete lasciare un saluto per il nocchiere che finora ha tenuto il timone, lasciate un vostro messaggio, lui non lo direbbe mai, ma credo che gli farà piacere.



domenica 28 febbraio 2021

Beata l'acqua





Beata l’acqua
Che non teme di cadere,
Ma seguendo il pendio
Sfugge a suo piacere.


Clemente Rebora, "Dieci poesie per una lucciola"


Dicono che le dieci poesie Rebora le abbia scritte per la pianista russa Lydia Natus, una donna colta e sensibile, l'unica che il poeta amò nella sua vita. Dicono che l'acqua che scorre in questa poesia sia una metafora dell'amore. 

E' vero, l'amore non può essere che questo: non temere di cadere, sfuggendo via a proprio piacere, in fedeltà solo alla propria natura.


domenica 14 febbraio 2021

come il fiore del Loto



Quando cade,

solo allora galleggia

il fiore del loto.

                                Yamamoto Yosaburō

                                                  Diciotto aprile del ventesimo anno Shōwa (1945)

Questa è la poesia dell'addio (o Jisei come dicono i Giapponesi) che scrisse il sottotenente Yamamoto prima di decollare con il suo aeroplano per il suo ultimo viaggio: un'azione suicida destinata a colpire un bombardiere B-29 nemico. Erano quelli i giorni in cui prendeva corpo l'ultimo disperato tentativo di difendere "la terra del sole", poche settimane prima che una strana luce cancellasse per sempre la città di Hiroshima. Quei giovani aviatori passeranno alla storia come Kamikaze.
 Il Jisei in questione è citato nella preziosa raccolta curata da Ornella Civarda per la casa editrice SE, di cui ho già avuto modo di parlare su questo blog. Chi oggi si recasse nel giardino del tempio buddista di Renjōji, poco lontano da dove decollò il giovane Yamamotō, lo troverebbe scolpito sulla pietra del monumento alla pace che lì è stato eretto dopo la guerra.

Se vogliamo provare ad avvicinarci all'ispirazione profonda di questa poesia, non possiamo partire che dal fiore del Loto, a cui è connessa, nella cultura orientale, una vasta rete di significati simbolici, iconografici e spirituali: solo a titolo di esempio, si può citare il fatto che uno dei testi fondativi del buddismo è conosciuto come Sutra del Loto. 

Il Loto è una pianta acquatica meravigliosa, le foglie possono raggiungere un metro di diametro; galleggia in stagni e pozze d'acqua mentre le sue radici  prendono nutrimento dal fango melmoso in cui affondano.  Bellissimo sulla superficie di uno stagno, il fiore è inseparabile tuttavia dall'opacità delle acque sottostanti e dall'impurità della terra umida dalla quale trae vita. Il Loto è in questo senso immagine dell'Illuminazione: siamo radicati nel fango, ovvero nella catena delle aspettative e dei desideri sempre insoddisfatti, nella prigione dell'attaccamento che rende tutto oscuro. Ma possiamo anche diventare il fiore bellissimo che galleggia sulle acque senza esserne macchiato: i piedi sono piantati nel fango, la purezza dei colori galleggia sulle acque.

In questa struggente poesia del commiato, scritta in un mattino di aprile nell'imminenza di un volo senza ritorno, il fiorire del Loto, il suo galleggiare sulle acque stagnanti e torbide, e quindi il dischiudersi della vista che diviene limpida, libera da ogni inganno, è associato al cadere. E' probabile che il giovane Yamamoto avesse in mente il tempo in cui cadono i fiori di ciliegio, che da sempre in Giappone ha un profondo significato simbolico ed è vissuto intensamente, come una festa piena di malinconica gratitudine. Ciò che è bello - infatti - è destinato a cadere, a trascorrere velocemente, ma la bellezza che ci circonda è pur sempre attorno a noi e il suo trapassare può essere ancora vissuto con una commossa partecipazione che non indulge all'illusione. 

C'è un paradosso straordinario e potente in questa immagine: un fiore dalla bellezza inebriante diventa ciò che è per il fatto di allungare le sue radici attraverso acque putride ed opache e agganciarle nel fango e nella melma. 

Non posso fare a meno di pensare, tuttavia, che il nostro pilota poeta abbia voluto in questi versi dare espressione ad un altro cadere, più prossimo e drammatico per lui: quello del suo aeroplano, in mezzo alle nubi e alle esplosioni, mentre vola verso il suo obiettivo. Cadere dunque, per fiorire, precipitare tra il fuoco per galleggiare, sulle acque stagnanti dell'inazione e della rassegnazione. E il sorriso del risveglio che distende lo sguardo nella contemplazione del trascorrere del tutto.





lunedì 8 febbraio 2021

per coloro che vegliano la miniera del tempo

 



Città


Un pianto,

un pianto di donna

interminabile,

acquietato,

quasi tranquillo.

Nella notte, un pianto di donna mi ha svegliato.

Prima un rumore di una serratura,

dopo piedi che vacillano,

e poi, all'improvviso, il pianto.

Sospiri intermittenti

come scrosci di un’acqua interiore,

densa,

imperiosa,

inesauribile,

come una chiusa che accumula e libera le sue acque

o come un'elica segreta

che ferma e riprende il suo lavoro

travasando il bianco tempo della notte.

Tutta la città è andata riempiendosi di questo pianto,

fino ai retri dove si accumulano le immondizie,

sotto le cupole degli ospedali,

sulle terrazze dell’estate,

nelle celle discrete  della prostituzione,

tra i fogli che scivolano lungo viali solitari,

con il vapore tiepido di certe cucine militari,

tra le medaglie che riposano nei cofanetti di teck,

un pianto di donna che ha pianto lungamente

nella stanza a fianco,

per tutti quelli che scavano la propria tomba nel sonno,

per coloro che vegliano la miniera del tempo,

per me che lo ascolto

senza conoscere altro

che il suo fragile rotolare all’intemperie

inseguendo le tacite sabbie dell’alba.


            di Álvaro Mutis, traduzione di Fabio Rodriguez Amaya


Nella notte, da una stanza chiusa a chiave si alza il pianto di una donna. Sembra non finire mai, poi si acquieta, diventa quasi tranquillo, riprende, denso, inesauribile. Come una diga che riversa le sue acque, tutte. La città lentamente si riempie di questo pianto, fino ai luoghi dove non tutti vanno, dove non si spinge lo sguardo volentieri. Si alza tra le cartacce di un viale solitario, oltre le stanzette dove le monete comprano l'illusione della passione, tra le medaglie concesse per antiche imprese. 

Non è solo per sé che piange questa donna eppure il suo pianto è come l'orazione di un'anacoreta che sfregia il silenzio del deserto. Il pianto della donna è per molti, ma solo un uomo sembra ascoltare. Si tratta di un personaggio conosciuto, il marinaio Maqroll, il Gabbiere, l'io poetico a cui Mutis ha affidato il compito di cantare le sue storie. E Maqroll è sveglio, ascolta il pianto che ora si arresta ora fluisce inarrestabile. Non sa nulla, se non  il suo fragile rotolare. Strano movimento questo del rotolare, non dipende dai muscoli, né dal senso di orientamento, ma dalla gravità e dalla inclinazione della terra. Basta un sussulto e si comincia a girare su se stessi,  nemmeno serve volerlo. Un rotolare fragile sembra una attività pericolosa; certo una cosa fragile che rotola andrà facilmente in frantumi, gli urti lasceranno cicatrici e  toglieranno via qualche pezzo. 

Nei versi finali di questa poesia i sensi vengono imprigionati da suoni e colori ora apollinei ora dionisiaci (secondo la bella espressione di Fabio Rodriguez Amaya), immagini di vita e di morte si confondono procedendo lungo traiettorie misteriose . Siamo di fronte all'epifania di un oracolo, nell'ora dell'estremo pericolo. Ma non abbiamo la vista sufficientemente aguzza, i sillogismi si arrestano impotenti sulle labbra.

Resta - e non è poco - il destino di ascoltare quel pianto. Forse è tutto quello che fa ancora la differenza: vegliare ed ascoltare.


mercoledì 27 gennaio 2021

nell'ossigeno di una Cracovia normale

 

The Holocaust Education & Archive Research Team 

Ruth

                                          in memoriam di Ruth Buczynska


È scampata alla guerra a Tarnopol. All'ombra e alla penombra. Al dolore.

È scampata alla paura dei ratti e degli stivali, dei conciliabolo e delle urla.

Adesso è morta, al buio, in corsia, nel silenzio bianco di un ospedale.

Era ebrea. Non ha mai capito il significato di quella parola, 

semplice, eppure del tutto incomprensibile, come l'algebra.

Talvolta lo intuiva. La Gestapo sapevo perfettamente cosa

volesse dire. Una grande tradizione filosofica in certi casi aiuta,

affila come coltelli le definizioni, precise come frecce buddiste.

Era bella. Doveva morire allora, insieme agli altri e alle altre,

sparire senza traccia, andarsene senza elegie, come tanti altri,

come l'aria, e invece è vissuta a lungo, alla luce del giorno,

nell'aria di tutti i giorni, nell'ossigeno di una Cracovia normale.

Spesso non capiva cosa significhi essere una bella donna.

Lo specchio taceva, avaro di definizioni filosofiche.

Non aveva dimenticato, eppure non parlava di quegli anni 

quasi mai. Una volta sola raccontò questa storia:

la sua amata gattina non voleva stare nel ghetto, di notte

tornò due volte dalla parte ariana. La sua gatta non sapeva

chi sono gli ebrei, e che cos'è la parte ariana.

Non lo sapeva e perciò schizzava come una freccia dall'altra parte.

Ruth era avvocato, difendeva gli altri. Forse per questo è vissuta a lungo.

Perché gli altri sono tanti e hanno bisogno di essere difesi.

Di accusatori non ne mancheranno mai, ma i difensori sono pochi.

Era una persona buona. E aveva un'anima. Talora crediamo di sapere

che significhi.



                                  di Adam Zagajewski

domenica 24 gennaio 2021

Diciassette mesi che grido

 

Una prigione russa in una foto d'epoca


 Diciassette mesi che grido,

Ti chiamo a casa.

Mi gettavo ai piedi del boia,

Figlio mio e mio terrore.

Tutto s'è confuso per sempre,

E non riesco a capire

Ora chi sia la belva e chi l'uomo, 

E se a lungo attenderò l'esecuzione.

E solo fiori polverosi, e il tintinnio

Del turibolo, e le tracce

Chissà dove del nulla.

E diritto negli occhi mi fissa

E una prossima morte minaccia

L'enorme stella.

    

            Anna Achmatova, Requiem, traduzione di Carlo Riccio 


La breve raccolta Requiem fu scritta dalla Achmatova dopo l'arresto di suo figlio nel 1938. Era quello il periodo che i russi chiamarono poi “ežovščina”, ovvero il periodo del regime di Nikolaj  Ežòv, il principale organizzatore delle grandi purghe staliniane, in cui finirono stritolati veri dissidenti, intellettuali non allineati, dirigenti di partito scomodi, semplici cittadini lontani dalla vita politica. Si cominciò, in quegli anni, a diffidare di tutti, del vicino di casa come del collega di lavoro: si denunciava per non essere denunciati. I processi erano rapidi, le sentenze immediate.

Anche Anna Achmatova visse quello che molti Russi stavano soffrendo. Il suo primo marito era stato fucilato nel 1921 per attività controrivoluzionaria, alcuni dei suoi amici più cari avevano subito persecuzioni e condanne. come Osip Mandel’štam che verrà inghiottito in un gulag in Siberia. Nel 1938 tuttavia l'arresto di suo figlio è per la poetessa un colpo quasi insostenibile, in cui si confondono affetti e terrore e non c'è spazio per la dignità personale, tanto da arrivare a gettarsi ai piedi del boia. 

Peggiore della paura è forse il pensiero che il regime bolscevico abbia voluto colpire lei attraverso suo figlio, di essere stata, in qualche modo, causa della miseria del figlio. In momenti come quelli, la mente stenta a definire la realtà,  tutto s'è confuso per sempre; non è facile riconoscere la belva dall'uomo.  Il pensiero prova ad interrogare il tempo che manca all'esecuzione. L' immagine di un turibolo dal quale sale l'incenso del rito funebre si confonde con quello di una nuda tomba senza nome.

Dei diciassette mesi nei quali Anna Achamatova si mise in fila, spesso per ore, di fronte alla prigione di Leningrado ci ha lasciato un testo meraviglioso, se è lecito usare questo termine, per parole tanto piene di afflizione. Si tratta della prefazione alla raccolta Requiem

ecco il testo:

   Nei terribili anni della “ežovščina” ho trascorso diciassette mesi a fare la coda presso le carceri di Leningrado. Una volta un tale mi riconobbe. Allora una donna dalle labbra bluastre che stava dietro di me, e che, certamente, non aveva mai udito il mio nome, si ridestò dal torpore proprio a noi tutti e mi domandò all’orecchio (lì tutti parlavano sussurrando):

–        Ma lei può descrivere questo?

E io dissi:

–        Posso.

Allora una specie di sorriso scivolò per quello che una volta era stato il suo volto.

 1° aprile 1957. Leningrado


Solo mi sarebbe piaciuto averla vista l'ombra del sorriso che scivola sul volto di quella donna senza nome, anzi su quello che una volta era stato il suo volto, mi sarebbe piaciuto davvero.



martedì 12 gennaio 2021

persino all'inizio dell'amore

 

Edward Hopper, Cape Cod Evening



Il Giardino


Non potrei rifarlo

riesco appena a guardarlo:


nel giardino, nella pioviggine

la giovane coppia che pianta

un solco di piselli, come se

nessuno l'avesse mai fatto prima,

le grandi difficoltà non fossero mai state

affrontate e risolte -


Non possono vedersi,

nel terriccio fresco, alzandosi

senza prospettiva,

con dietro le colline verde-pallido, annuvolate di fiori -


Lei vuol smettere;

lui vuole arrivare alla fine,

tenersi stretto all'oggetto -


Guardatela, gli tocca la guancia

per far la pace, le dita

fresche di pioggia primaverile;

nell'erba rada, esplosioni di crochi viola -


persino qui, persino all'inizio dell'amore,

la sua mano lasciando la faccia di lui compone

un'immagine di separazione


e pensano

che sono liberi di ignorare

questa tristezza.


      di Louise Gluck, da "Iris selvatico", traduzione di Massimo Bagicalupo


Siete in un giardino della nuova Inghilterra, nel Vermont, una terra dove la bella stagione è breve e i campi spesso si coprono di neve. Louise Gluck nella raccolta Iris Selvatico dà voce ai fiori del suo giardino, che osservano la vita, il suo trascorrere dal loro punto di vista: la terra e la sua legge, il tempo breve della loro vita. Si rivolgono soprattutto a lei, alla poetessa-giardinera e con lei entrano in un dialogo costruito su un lessico molto semplice, carico tuttavia di forza evocativa.

 Anche in questa poesia è così: una giovane coppia sta piantando qualcosa nel giardino come se nessuno l'avesse mai fatto prima. Forse con una cura tutta particolare, un'attenzione scrupolosa, forse inciampano su difficoltà che a loro paiono immense. Come sono diverse le cose guardate dalla prospettiva di un biancospino, di una viola, di un papavero rosso! La coppia ora sta discutendo: lei vuole smettere, lui no. Vuole finire ciò che ha iniziato. Un gesto spezza la tensione, la donna sfiora la guancia dell'uomo con le dita / fresche di pioggia primaverile. Un gesto di pace, mentre nell'erba rada esplodono i colori dei fiori. E' strana la percezione delle cose che hanno i fiori di questo giardino. La loro vita è breve come l'estate del Vermont, si ammantano di colori splendenti, poi trascorrono rapidi, deponendo le loro vesti divenute gualcite. Eppure ci deve essere una sapienza speciale nel loro sguardo.

La donna allontana la sua mano dalla guancia di lui ed anche se questo momento è solo il principio della loro storia, proprio all'inizio del'amore, non può fare a meno di disegnare un'immagine di separazione. Meraviglioso questo verso e questa immagine: una mano gentile si discosta dal volto amato sul quale ha lasciato impresse dolcezza e pace, ma quello stesso gesto disegna nell'aria la traccia di un destino.

I fiori continuano ad osservare: l'uomo e la donna credono di essere liberi di ignorare / questa tristezza.

 Non lo saranno.