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venerdì 30 agosto 2019

Il sorriso di lei



Leonardo da Vinci, Sant'Anna con la Vergine, il Bambino e l'agnello


                                                                                                                 
 Il sorriso di lei non era diverso dagli altri

Stessa forma, fossette ai lati

Eppure ti faceva stare male,

come quando un uccello 

si alza in volo, vuole cantare,

poi ricorda il proiettile che l'ha ferito

Allora si aggrappa a un ramo sottile,

convulso e la musica intanto si schianta

come perle  finite in un pantano.                                                                                                 



                                                               di E. Dickinson

mercoledì 28 agosto 2019

Cieco ero, nulla più...

                         
                                                             di Iosif Brodskij

Io ero solamente  ciò
che tu toccavi, quello
su cui - notte fonda, corvina -
la fronte reclinavi tu.

Io ero solamente ciò
che tu là in basso distinguevi:
sembiante vago, prima, e poi
molto più tardi, tratti.

Sei tu, ardente,  che
sussurrando hai creato
la conchiglia dell'udito
a destra, a a manca, là, qui.

Tu che nell'umida cavità,
tirando quella tenda, 
hai messo voce, perché 
potesse te chiamare.

Cieco ero, nulla più.
Tu, sorgendo, celandoti,
hai dato a me la facoltà
 di vedere. Si lasciano scie

così, e si creano così
mondi. Spesso, creati,
si lasciano ruotare così,
elargendo regali.

E, gettata così
in caldo, in freddo, in ombra, in luce,
persa nell'universo,
ruota la sfera e va.

1980

      Chi siamo? Lo abbiamo forse chiesto al filosofo, allo scienziato, al teologo, poche volte al poeta. Josif Brodskij prova a dircelo con i suoi versi: saremmo privi di consistenza, di solidità e volume, come meduse senza scheletro. Nessuna capacità di udire o di  parlare, ciechi incapaci di distinguere le cose intorno a noi... Così saremmo, nulla più, se non ci costituisse come persone in carne e ossa lo sguardo di chi ci ama e che noi amiamo. Il gesto delicato del viso che su di noi reclina, il sussurro, il sorgere e e il celarsi. Solo da tale incontro, che innanzitutto è dono gratuito, nascono mondi, universi che trovano la propria ragione d'essere nell'elargire regali, a nient'altro sono destinati.

Chi è Josif Brodskij?
                                                 
Il giorno 4 di giugno del 1972 abbandonava la Russia, con una piccola edizione delle poesie di John Donne in tasca e quasi nient’altro. La prima persona che Brodskij cercò in Occidente fu W.H. Auden. Su un prato del villaggio austriaco di Kirchstetten, il delfino dell’Achmatova e l’anziano poeta inglese, troppo chiaro per essere capito dai suoi contemporanei, si intesero in una communicatio idiomatum che non si sarebbe più interrotta, come testimonia la mirabile orazione funebre pronunciata da Brodskij nel decennale della morte del poeta: scritta in inglese, «per compiacere un’ombra». Da quel giorno Iosif Brodskij è diventato anche Joseph Brodsky, residente a New York ma di ascendenza tutta pietroburghese, se non vi è luogo come Pietroburgo «dove i pensieri si distacchino altrettanto volentieri dalla realtà». Così, «è con l’emersione di San Pietroburgo che la letteratura russa è entrata nell’esistenza». Molti dei tratti stilistici peculiari di Brodskij sembrano derivati, per osmosi, dalla città: la disciplina dei colonnati illusionistici, la luce pallida e diffusa, «dove occhio e memoria operano con inusuale acuità», l’onnipresenza dell’acqua, questa «forma addensata del Tempo», il soffio di vento saturo di alghe. In questo microclima alessandrino, dove l’Europa venne a riflettersi in uno specchio gigantesco, si è compiuta una prodigiosa eruzione di letteratura moderna, da Puškin a Mandel’štam, nel segno di un classicismo allucinatorio. E oggi quel luogo, che è un linguaggio, continua a vivere proprio in Brodskij, nelle schegge delle sue immagini, nei suoi metri sapienti, magari celati da una temeraria sprezzatura. In questo volume sono state raccolte, in accordo con l’autore, poesie degli anni 1972-1985, anni di un esilio che preesisteva alla partenza e al tempo stesso non sarà mai, perché Brodskij ha la sua patria nella lingua russa. Così ci accorgiamo di leggere i suoi versi, dopo Mandel’štam, la Cvetaeva, l’Achmatova, come parte di un’unica storia (dal risvolto del volume Poesie, Adelphi 1986).

Arrestato nel novembre del 1963, Iosif Brodskij, il poeta, fu processato il 18 febbraio 1964. Naturalmente, l’esito del processo era dato per ovvio: “Al processo non poterono assistere tutti coloro che lo avrebbero desiderato in quanto i posti furono occupati da lavoratori convocati dalle autorità per ingiuriare l’imputato nel corso delle udienze” (Marco Clementi, Storia del dissenso sovietico, Odradek Edizioni 2007, p.46). Il processo divenne emblematico: nonostante le promesse di apertura, l’Urss stritolava i dissidenti, mandava al confino i poeti. La trascrizione del dialogo tra il giudice e l’imputato, il poeta – il poeta per sua natura è sempre l’imputato, colui che è messo all’indice – ci è giunta, clandestinamente, grazie a Frida Vigdorova. Eccone alcuni passaggi.

Giudice: Qual è la sua specializzazione?
Brodskij: Sono poeta. Poeta e traduttore.
G: E chi l’ha riconosciuta come poeta? Chi ha inserito il suo nome tra quello dei poeti?
B: Nessuno. E chi ha inserito il mio nome tra quello degli uomini?
G: Avete studiato per questo?
B: Per cosa?
G: Per diventare poeta. Non avete frequentato un istituto dove preparano… dove insegnano…
B: Non credo che questo si possa ottenere con un’istruzione.
G: Ma con cosa, allora?
B: Io credo che… venga da Dio

Nel maggio 1972 Brodskij fu chiamato dall'ОVIR, il dipartimento per i visti e gli stranieri dell'Unione Sovietica. Lì viene posto davanti alla scelta: emigrazione immediata oppure prepararsi a subire quotidiani interrogatori, carcerazioni e reclusioni in ospedali psichiatrici. Intanto nel 1964 gli era già capitato due volte di essere ricoverato negli ospedali psichiatrici e questo era stato per Brodskij, stando ai suoi stessi scritti, molto peggio dell'esilio o del carcere. Brodskij non esita, a questo punto, a lasciare l'Unione Sovietica.


Un ottimo articolo, caldamente consigliato, su Iosif Brodskij  e la sua resistenza contro il Male lo trovate qui http://www.pangea.news/iosif-brodskij-poesie-carcere/.

domenica 25 agosto 2019

NEL CREPUSCOLO

                                                                         di William Butler Yeats

Fotografia di George Karbus


Logoro cuore in un tempo che si consuma
Lìberati dalla rete del torto e della ragione;
E ridi ancora, cuore, nel crepuscolo grigio,
Sospira ancora, cuore, nella rugiada del mattino

Tua madre Irlanda è giovane sempre,
La rugiada sempre riscintillante e il crepuscolo grigio;
Sebbene ti abbandoni la speranza e l'amore perisca,
Bruciando nei fuochi di una lingua calunniatrice.

Vieni, cuore, dove i colli si addossano ai colli:
perché laggiù la fratellanza mistica
Di sole e luna e bosco e valle
E fiume e rivo compie la sua legge;

E Dio suona il suo corno solitario,
E il tempo e il mondo sono sempre in fuga;
E l'amore è meno gentile del crepuscolo grigio,
E la speranza è meno cara della rugiada del mattino.


                               
                                                                                    traduzione di Giuseppe Sardelli

sabato 17 agosto 2019

Sorpreso dalla gioia



Sorpreso dalla gioia


Foto di Steve Harrington


Sorpreso dalla gioia - impaziente come il vento

mi voltai per condividere il mio rapimento - Oh con chi

ma con te, sepolta profondamente nella silente tomba

quel posto che nessuna vicissitudine può trovare?

Amore, fedele amore, ti richiamo alla mente -

ma come potrei dimenticarti?  - Attraverso quale potere,

anche per la parte più breve di un'ora,

sono stato così ingannato da essere cieco

alla mia perdita più atroce! - Il ritorno di quel pensiero

fu la peggiore fitta che il dolore mi inflisse mai,

salvarne uno, uno soltanto, quando mi trovavo desolato

sapendo che il più grande tesoro del mio cuore non c'era più

che né il tempo presente, né gli anni a venire

potranno restituire alla mia vista quel viso celeste

                                                                                                                William Wordsworth


Mi sono imbattuto in questo sonetto di Wordsworth grazie a C. S. Lewis che scelse di intitolare la sua 'autobiografia spirituale'  proprio con il verso Surprised by joy. 
Il poeta romantico ricorda il momento in cui è afferrato da una gioia improvvisa, subito dopo vorrebbe condividere questa sensazione, impaziente come il vento, ma il ricordo della morte della figlia rapido lo afferra e lo tiene stretto nelle sue mani, rinnovando sgomento e dolore e la consapevolezza che il tempo non potrà mai lenire una sofferenza tanto grande.

Wordsworth appare stupito dalla sensazione di una  gioia che non sa da dove provenga, tanto più che un'angoscia feroce gli opprime l'animo, la silente tomba, dove giace sua figlia, un luogo che nessuna vicissitudine può raggiungere. La condizione interiore del poeta, dominata da afflizione e lutto, per quanto sia il frutto di un'esperienza soggettiva, è in fondo paradigma di quella umana, poiché tutti siamo sottoposti allo stesso destino di dolente finitezza. È quello che Giacomo Leopardi ci fa sentire nei versi de L'ultimo canto di Saffo: Arcano è tutto/fuor che il nostro dolor. Negletta prole/ nascemmo al pianto... le parole che pronuncia la poetessa di Lesbo prima di morire.

Eppure la gioia ci sorprende, come un nemico in un'imboscata, pur trovandoci nella sventura, lì dove il pensiero non potrebbe dare ragione di alcuna speranza. Il poeta inglese è consapevole che la ferita che gli morde il cuore non la guarirà il tempo, eppure la gioia, inspiegabilmente, lo ha trovato, quando non era più attesa. L'inizio della poesia possiede il vigore di un fumo d'incenso che sale verso il cielo: la gioia che sorprende è associata all'impazienza di condividerla, come in un riflesso automatico, indipendente dalla volontà. Non è una cosa che possiamo trattenere o chiudere in un recinto questa gioia, perché non è nostra davvero se non la condividiamo.

C'è un punto all'esordio della poesia su cui mi sembra opportuno soffermare l'attenzione ed è quando la voce del poeta dice mi voltai.  Perché dice così? E perché merita che ci soffermiamo su questa immagine? Questo voltarsi è spostare lo sguardo dalla fonte della gioia verso qualcuno che sia un testimone della improvvisa felicità che ci ha trovato. È troppo diversa tale gioia da ciò che abbiamo sperimentato per essere vera, non assomiglia a nulla di quello che conosciamo, c'è bisogno di qualcuno che ce lo confermi. Nella poesia di Wordsworth tuttavia quel qualcuno è perduto, è in un luogo inaccessibile, lontano da ogni vicissitudine ma anche irraggiungibile da ogni richiamo. Ci si volta verso ciò che si ama, come Orfeo verso la sua sposa Euridice o verso qualcosa che mai penseremmo di poter perdere come Dante verso il suo maestro Virgilio nell'imminenza dell'incontro con Beatrice, sulla cima del Purgatorio. Wordsworth si volta indietro verso colei che ha amato di più e che la morte gli ha portato via. La gioia che lo ha toccato, come una scossa di luce, ha per un attimo lenito la piaga che non può guarire.

Quanto è umano e delicato questo voltarsiquanta poesia nasconde sotto la sua ombra.

Quando dunque il poeta inglese scrive mi voltai non distoglie lo sguardo da una presenza numinosa, la cui luce sfolgorante la vista umana non può sostenere, ma cerca un testimone di ciò che Milton,  sforzandosi di rappresentare l'Eden, chiama l'enorme beatitudine (dove enorme  deve essere inteso nel suo antico e pieno significato di "fuori dalla norma").

delucidare il significato profondo della gioia di cui parla il sonetto è  ancora C.S. Lewis. Nel primo capitolo della sua autobiografia (pp.17-19) egli descrive tre diversi momenti della sua infanzia in cui aveva sperimentato tale sensazione e collega il sentimento della gioia ad un desiderio intenso e indefinibile, che rapidamente dispare lasciando nell'animo insieme a turbamento e stupore la brama di riaccedervi e il senso di una vicenda incommensurabile. La gioia, nella prospettiva di Lewis ha poi nella sua natura il fatto che non è troppo diversa da una particolare forma di infelicità, da un dolore "di genere particolare", di un genere desiderabile, qualcosa di simile a ciò che in tedesco è chiamato sehnsucht. Se seguiamo ciò che scrive Lewis, al quale morì la madre quando aveva sette anni, negli stessi tempi in cui aveva vissuto quella prima trafittura della goia, tale esperienza si distingue da ogni altro piacere, in quanto si manifesta come una  fitta, uno spasmo, un'inconsolabile nostalgia. L'essere che la prova può perdersi - come a lui capitò - anche in un deserto esistenziale di ghiaccio millenario, non importa: all'istante si ritroverà "in un'unica, intollerabile sensazione di desiderio e di perdita", che d'un tratto diventa tutt'uno con la dissoluzione dell'emozione stessa. Infine questa particolare tipologia di gioia "non è mai in nostro potere": ci imbattiamo in essa, da lei siamo sorpresi, ma non potremmo mai possederla né anticipare la sua venuta, giunge come un ladro nella notte, quando meno ce lo aspettiamo.

In che relazione si trovano allora, nella poesia di Wordsworth, la gioia che sorprende e la desolata consapevolezza del dolore per cui pare non esserci rimedio? E non sembra forse che l'autore del sonetto consideri il rapimento della gioia come un inganno, come un'improvvisa perdita della vista?
In tal caso, il vedere, la consapevolezza, la realtà sarebbero solo nel distacco pieno di afflizione dal suo più grande tesoro. La gioia che sorprende, in questo senso, se non coincide con l'oscuramento della verità o con il suo impossibile oblio, nel suo dileguarsi è in relazione evidente con il ritorno del pensiero, che riporta il poeta alla condizione di desolazione in cui gli è impossibile persino salvare un solo pensiero: tutto torna - in un istante - sotto il dominio della necessità. Forse non è oscuramento né oblio, ma non dovremmo allora pensare alla gioia come una sospensione, provvisoria e infine più dolorosa, della consapevolezza?

Spesso è così e forse poté essere questa l'esperienza di Wordsworth la cui poesia si chiude con una commovente ammissione di un vuoto incolmabile. Tuttavia un'altra strada ci viene indicata dal momento in cui comprendiamo che la natura propria di questa particolare gioia, diversa da tutte le altre, non sta in ciò che essa è, ma in ciò che essa addita: "una nuda alterità, ignota, indefinita, desiderata" secondo quanto scrive Lewis. Lungi da essere un obnubilamento della coscienza, la gioia che sorprende si rivela piuttosto la sua espressione più limpida e lucida.

Et unde hoc mihi ? 

"A che debbo che la madre del Signore venga presso di me ?". Con queste parole, lo racconta l'evangelista Luca, Elisabetta saluta sua cugina Maria, che porta in grembo il figlio della promessa : sono parole che sgorgano impetuose suggerite dallo Spirito che la riempie. Da dove, perché giunge tutto questo a me ? sembra dire Elisabetta, lei la donna anziana e sterile che già aveva assaporato l'inattesa, impensabile, inesprimibile gioia di aspettare un figlio.

La gioia ci viene incontro, è lei a trovarci là dove non ci aspetteremmo di vederla. Tutte le trafitture della gioia non sono infine che tracce che immettono nei territori dello stupore.






domenica 11 agosto 2019

Un'inattesa felicità



  Felicità

                 di Raymond Carver


Talmente presto che fuori è ancora quasi buio.
Sto alla finestra con il caffè
E le solite cose della mattina presto
Che passano per pensieri.
A un tratto vedo il ragazzo e il suo amico
Venire su per la strada
Per consegnare il giornale.
Portano il berretto e il maglione
E uno la borsa a tracolla.
Sono così felici
Che non dicono niente, questi ragazzi.
Mi sa che se potessero, si prenderebbero sottobraccio.
Il mattino è appena sorto
E stanno facendo questa cosa insieme.
Avanzano lentamente.
Il mattino si fa più luminoso,
anche se la luna pende ancora pallida sul mare.
Una tale bellezza che per un attimo
La morte e l’ambizione, perfino l’amore
Non riescono a intaccarla.
Felicità. Arriva
Inaspettata. E va al di là, davvero,
di qualsiasi chiacchiera mattutina sull’argomento.

La poesia di Carver non ha tra i suoi punti di forza la musicalità. Il ritmo, piuttosto, appare piano, appena modulato qui e là da un'accelerazione o da una pausa che di raro assumono l'intensità di un canto. Felicità non fa eccezione a questa tendenza generale: le immagini appaiono nitide, illuminate dalla luce del mattino appena sorto; lo sguardo si sofferma su oggetti consueti, una strada in salita, due ragazzi che la percorrono lentamente, un berretto, un maglione, una cartella, la luna che pende ancora pallida sul mare.
Due giovani amici felici, che se potessero camminerebbero abbracciati, non c'è niente che valga la pena dire, essere insieme basta. Qualcosa di miracoloso accade nella poesia di Carver: felicità e bellezza si rivelano al di là dei pensieri della mattina presto, al di là delle parole astratte con cui cerchiamo di dare senso alle cose, la morte, l'ambizione, perfino l’amore. Ogni tentativo di fermare la vita in una definizione convincente, ogni sforzo di conteggio e bilancio della nostra allegria di naufragi si rivela inutile, una vana chiacchiera, perché la felicità giunge così, da una strada in salita, portata sulle spalle da due ragazzi sconosciuti, arriva inaspettata...

Una inattesa felicità.

Cosa intende Carver con questa espressione? Da dove scaturisce la fonte della gioia improvvisa di cui è testimone?

Inatteso è un aggettivo che possiamo usare in senso positivo, come quando ci riferiamo a "un inatteso colpo di fortuna" o per connotare, al contrario, una situazione spiacevole come "un inatteso voltafaccia". Anche rimanendo alla sua valenza positiva il termine assume sfumature significative: una vittoria inattesa di una squadra contro un'altra da tutti ritenuta imbattibile è cosa diversa rispetto alla vincita inattesa alla lotteria nazionale. Sebbene in tutti e due i casi l'aggettivo inatteso valga come imprevedibile, nel primo esempio la vittoria è frutto - anche - di un impegno agonistico straordinario, di un'ambizione determinata, nel secondo non vi è implicata, invece alcuna virtù, alcun merito.

Vi è poi una terza Valenza nell'uso del termine inatteso; mentre nei casi precedenti è in evidenza, pure se in forme diverse, l'agire umano che produce risultati imprevedibili, lo stesso termine circoscrive a volte un esperienza esistenziale del tutto differente.  Tale esperienza è simile, per continuare con esempi tratti dalla vita quotidiana, a quella di chi riceva una cospicua eredità da un lontano parente sconosciuto o a quella di una madre alla quale dopo molti anni recapitino una lettera di un figlio dato per morto.
In casi di questo genere ciò che non è aspettato, non è nemmeno immaginabile e la sua apparizione è in definitiva una rivelazione che ha i tratti della assoluta sorpresa, dello stupore illuminante.  È proprio secondo questa prospettiva  che Dante Alighieri descrive nelle pagine della Vita Nuova la prima volta in cui vede Beatrice.

La felicità inattesa è l'incontro con l'assolutamente altro e la poesia che ne deriva ci raggiunge, per usare un'espressione di Cristina Campo, come una professione di incredulità nell' onnipotenza del visibile.

venerdì 9 agosto 2019

In ogni ora




In ogni ora,
in ogni parola
continua sanguina
la ferita della creazione,

mutando la terra
e stillando il miele
al cuore del divenire
e in sé ritorna.

Diede ali a tutto
ciò che Dio creò,
agli Sciti le staffe,
all’unno lo zoccolo —

solo non far domande
e non voler capire;
è chi non si ferma
che regge il cielo,

solo quest’ora,
la sua luce di saga,
e poi la ferita,
di più non c’è.

I campi sbiancano,
il pastore chiama,
e questo è il segno:
bevi, dissetati,

lo sguardo nell’azzurro,
una vista lontana:
questa è la fedeltà,
di più non c’è,

fedeltà ai regni
che sono tutto,
fedeltà al segno
anche se passa,

uno scambio, una danza,
una luce di saga,
un silenzio che inebria,
di più non c’è.

                                                                      Gottfried Benn

(Traduzione di Anna Maria Carpi)

mercoledì 7 agosto 2019





QUEI DUE ABBRACCIATI
di Izet Sarajlic
 
Quei due abbracciati sulla riva del Reno a Gottlieben
potevamo essere anche tu ed io,
ma noi due non passeggeremo mai più
su nessuna riva abbracciati.

Vieni, passeggiamo almeno in questa poesia



Ci sono persone che la vita ci porta via, un amico ce lo strappa un brutto male, una parola tinta di menzogna conduce via un amore. A volte prendiamo strade diverse, che si allontanano senza mai fermarsi.

Nella poesia di oggi un uomo osserva una coppia che passeggia lungo le rive del Reno, l'abbraccio di quei due amanti fa presente una possibilità: potevamo essere noi, quella felicità poteva essere come la nostra, dice il poeta rivolgendosi alla sua amata.
Il verso successivo chiarisce ciò che l'uso del tempo imperfetto aveva preparato con pudore:
ma noi due non passeggeremo mai più... non c'è nessuno accanto al poeta, ma qualcuno può ancora ascoltare la sua voce, che ha un tono affettuoso, composto e delicato, che trova nella poesia il luogo di un umano miracolo.

Vieni, passeggiamo almeno in questa poesia

Izet Sarajlic è nato a Doboj, Bosnia settentrionale, nel 1930. Si è trasferito a Sarajevo a quindici anni e lì ha vissuto fino alla morte, nel 2002. Poeta popolarissimo nella ex Jugoslavia, le sue opere complete sono stampate in tre volumi dall'editore Rabic. In italiano sono stati pubblicati quattro libri di poesie: Il libro degli addii (Magma 1996), 30 febbraio (San Marco dei Giustiniani 1999), Qualcuno ha suonato (Multimedia 2001), Un'altra volta saprei (Multimedia 2004); e il carteggio con Erri De Luca, Lettere fraterne (Libreria Dante & Descartes 2007).
Nel 2012 Einaudi ha pubblicato Chi ha fatto il turno di notte, con prefazione di Erri De Luca.


domenica 4 agosto 2019

Del più bello dei viaggi


Tornando a casa...



Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento,
e messi in un vasel ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio,

sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio.

E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:

e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi.

Dante si rivolge a Guido Cavalcanti, il suo primo amico (così lo definisce nella Vita Nuova), per condividere con lui un desiderio:  insieme all'amico Lapo, essere presi per incantamento e messi in un vascello che navighi per ogni mare, guidato solo dalla loro volontà. Nessuna tempesta o tempo cattivo in questo viaggio, anzi avrebbero vissuto secondo un unico comune sentimento del piacere, sentendo crescere in loro 'l disio di essere insieme.
Con Dante, Guido e Lapo, la magia del buono incantatore avrebbe posto le tre donne amate dagli amici e ragionando sempre d'amore (espressione densissima di significati, per i quali il rimando più immediato è forse la canzone Donne ch'avete intelletto d'amore), con queste avrebbero trovato nuovi significati alla felicità.

Il sonetto di Dante Alighieri, uno dei più noti della sua produzione giovanile, ha il suo nucleo espressivo più forte in un'esigenza comune anche ai nostri giorni, quella di ricreare una speciale corte di spiriti uniti da affinità elettive, con i quali ritrovarsi nell'aspirazione a viaggiare evitando tempeste e nubi oscure e cariche di pioggia. Tale forma di amicizia, rara e preziosa, è resistente e fragile al tempo stesso, necessita di cure e ha un suo proprio stile che la distingue tra tutte le altre. Navigare - ma qui il senso del verbo si carica di ovvie valenze metaforiche - con amici di tal genere è un'esperienza straordinaria, senza la quale la vita rischia di diventare un ammucchiare i giorni, uno sull'altro.

Nell'atmosfera di questa poesia, rarefatta e sognante, intessuta di simboli e richiami a temi fiabeschi tipici  della letteratura cortese e cavalleresca, è possibile che il lettore moderno intraveda uno scarto con il nostro presente, segnato dall'eclissi dell'idea stessa di amicizia spirituale. E poi non si tratta in fondo di un sogno ? di un viaggio vissuto nell'immaginazione più che nella realtà?

Forse è bene riflettere sulla contrapposizione tra immaginazione e realtà. Secondo Carl Gustav Jung, ad esempio, nella attività dell'artista e nella vita psichica (ma il discorso in realtà va allargato a fenomeni di più ampia rilevanza) "ciò che dobbiamo al gioco dell'immaginazione è incalcolabile" e sarebbe segno di miopia trattare con disprezzo le fantasie a causa "del loro carattere singolare o inammissibile". In effetti anche secondo James Hillmann il legame tra le forme di interpretazione e conoscenza della realtà e l'attività immaginativa  e simbolica è molto forte tanto che arriva a scrivere che la coscienza dipende dall’immaginazione.

Tramite il sonetto di Dante dunque non solo viviamo una risolutiva esperienza estetica (chi volesse ascoltare il sonetto letto da Aroldo Foà può farlo qui: https://www.youtube.com/watch?v=2AcBJ7Ol3zI), ma sperimentiamo una diversa via di conoscenza del mondo e di noi stessi.

E' vero: quanto più il mondo moderno si allontana, o crede di allontanarsi, da questa forma di  sympatheia tanto più si diffonde il tipo umano del cinico e del beffardo. Non certo uno che Dante, Guido e Lapo, o le loro donne, avrebbero gradito sul loro vascello. In questo senso è possibile che rispetto alla forza evocativa del sonetto qualcuno sia preso da un sentimento di estraneità assoluta o peggio di  disillusione. La poesia di Dante, tuttavia, non è una bilancia sulla quale pesare ciò che ci manca, essa è piuttosto il sestante indispensabile a tracciare la rotta futura.

Il più bello dei viaggi è quello che abbiamo fatto con i nostri amici più cari e fidati oppure quello che stiamo per fare, anche solo con la forza dell'immaginazione, insieme ad un equipaggio che via via si va formando.

Forse non ci vorrà così tanto...

giovedì 1 agosto 2019

Con cuori leggeri e pensieri dalla forma di nuvole


Molti sono i modi in cui possiamo viaggiare, un ragazzo segna su una carta la destinazione del suo prossimo viaggio: Sidi bel abbes, Macao o Samarcanda. Lo spazio appare smisurato visto alla luce di una lampada.
Il ricordo, invece, ridimensiona le distanze, avvicina i confini, riporta l'ignoto al misurabile.
Alcuni viaggiano per fuggire. Altri con il cuore gonfio di rancore, altri infine sperano che il sole che li abbronza cancelli la traccia dei baci di un'amante crudele.

Poi ci sono i veri viaggiatori, quelli che partono per partire ... Cuori leggeri, quelli che mai pensano di sfuggire al proprio destino.
Tra questi c'è anche chi affronta quel tipo speciale di viaggio che alle donne tocca di fare quando sono sul punto di diventare madri. E c'è il monaco che veglia tutta la notte fino all'alba del giorno in cui sarà consacrato e c'è l'esule che per la prima volta si lascia alle spalle il confine della sua terra. A volte il viaggio è attraversare una soglia, oltre la quale nulla sarà come prima, per sempre...
Tutti i veri viaggiatori partono sempre con un desiderio nell'animo.

 Che tale desiderio possa essere come quei desideri di cui parla Baudelaire...

desideri che hanno forma di nuvole.

Per il ragazzo, amante delle mappe e delle stampe,
l’universo è pari al suo smisurato appetito.
Com’è grande il mondo al lume delle lampade!
Com’è piccolo il mondo agli occhi del ricordo!

Un mattino partiamo, il cervello in fiamme,
il cuore gonfio di rancori e desideri amari,
e andiamo, al ritmo delle onde, cullando
il nostro infinito sull’infinito dei mari:

c’è chi è lieto di fuggire una patria infame;
altri, l’orrore dei propri natali, e alcuni,
astrologi annegati negli occhi d’una donna,
la Circe tirannica dai subdoli profumi.

Per non esser mutati in bestie, s’inebriano
di spazio e luce e di cieli ardenti come braci;
il gelo che li morde, i soli che li abbronzano,
cancellano lentamente la traccia dei baci.

Ma i veri viaggiatori partono per partire;
cuori leggeri, s’allontanano come palloni,
al loro destino mai cercano di sfuggire,
e, senza sapere perché sempre dicono: Andiamo!

I loro desideri hanno la forma delle nuvole,
e, come un coscritto sogna il cannone,
sognano voluttà vaste, ignote, mutevoli
di cui lo spirito umano non conosce il nome!


da "Le voyage" di C. Baudelaire