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mercoledì 28 agosto 2019

Cieco ero, nulla più...

                         
                                                             di Iosif Brodskij

Io ero solamente  ciò
che tu toccavi, quello
su cui - notte fonda, corvina -
la fronte reclinavi tu.

Io ero solamente ciò
che tu là in basso distinguevi:
sembiante vago, prima, e poi
molto più tardi, tratti.

Sei tu, ardente,  che
sussurrando hai creato
la conchiglia dell'udito
a destra, a a manca, là, qui.

Tu che nell'umida cavità,
tirando quella tenda, 
hai messo voce, perché 
potesse te chiamare.

Cieco ero, nulla più.
Tu, sorgendo, celandoti,
hai dato a me la facoltà
 di vedere. Si lasciano scie

così, e si creano così
mondi. Spesso, creati,
si lasciano ruotare così,
elargendo regali.

E, gettata così
in caldo, in freddo, in ombra, in luce,
persa nell'universo,
ruota la sfera e va.

1980

      Chi siamo? Lo abbiamo forse chiesto al filosofo, allo scienziato, al teologo, poche volte al poeta. Josif Brodskij prova a dircelo con i suoi versi: saremmo privi di consistenza, di solidità e volume, come meduse senza scheletro. Nessuna capacità di udire o di  parlare, ciechi incapaci di distinguere le cose intorno a noi... Così saremmo, nulla più, se non ci costituisse come persone in carne e ossa lo sguardo di chi ci ama e che noi amiamo. Il gesto delicato del viso che su di noi reclina, il sussurro, il sorgere e e il celarsi. Solo da tale incontro, che innanzitutto è dono gratuito, nascono mondi, universi che trovano la propria ragione d'essere nell'elargire regali, a nient'altro sono destinati.

Chi è Josif Brodskij?
                                                 
Il giorno 4 di giugno del 1972 abbandonava la Russia, con una piccola edizione delle poesie di John Donne in tasca e quasi nient’altro. La prima persona che Brodskij cercò in Occidente fu W.H. Auden. Su un prato del villaggio austriaco di Kirchstetten, il delfino dell’Achmatova e l’anziano poeta inglese, troppo chiaro per essere capito dai suoi contemporanei, si intesero in una communicatio idiomatum che non si sarebbe più interrotta, come testimonia la mirabile orazione funebre pronunciata da Brodskij nel decennale della morte del poeta: scritta in inglese, «per compiacere un’ombra». Da quel giorno Iosif Brodskij è diventato anche Joseph Brodsky, residente a New York ma di ascendenza tutta pietroburghese, se non vi è luogo come Pietroburgo «dove i pensieri si distacchino altrettanto volentieri dalla realtà». Così, «è con l’emersione di San Pietroburgo che la letteratura russa è entrata nell’esistenza». Molti dei tratti stilistici peculiari di Brodskij sembrano derivati, per osmosi, dalla città: la disciplina dei colonnati illusionistici, la luce pallida e diffusa, «dove occhio e memoria operano con inusuale acuità», l’onnipresenza dell’acqua, questa «forma addensata del Tempo», il soffio di vento saturo di alghe. In questo microclima alessandrino, dove l’Europa venne a riflettersi in uno specchio gigantesco, si è compiuta una prodigiosa eruzione di letteratura moderna, da Puškin a Mandel’štam, nel segno di un classicismo allucinatorio. E oggi quel luogo, che è un linguaggio, continua a vivere proprio in Brodskij, nelle schegge delle sue immagini, nei suoi metri sapienti, magari celati da una temeraria sprezzatura. In questo volume sono state raccolte, in accordo con l’autore, poesie degli anni 1972-1985, anni di un esilio che preesisteva alla partenza e al tempo stesso non sarà mai, perché Brodskij ha la sua patria nella lingua russa. Così ci accorgiamo di leggere i suoi versi, dopo Mandel’štam, la Cvetaeva, l’Achmatova, come parte di un’unica storia (dal risvolto del volume Poesie, Adelphi 1986).

Arrestato nel novembre del 1963, Iosif Brodskij, il poeta, fu processato il 18 febbraio 1964. Naturalmente, l’esito del processo era dato per ovvio: “Al processo non poterono assistere tutti coloro che lo avrebbero desiderato in quanto i posti furono occupati da lavoratori convocati dalle autorità per ingiuriare l’imputato nel corso delle udienze” (Marco Clementi, Storia del dissenso sovietico, Odradek Edizioni 2007, p.46). Il processo divenne emblematico: nonostante le promesse di apertura, l’Urss stritolava i dissidenti, mandava al confino i poeti. La trascrizione del dialogo tra il giudice e l’imputato, il poeta – il poeta per sua natura è sempre l’imputato, colui che è messo all’indice – ci è giunta, clandestinamente, grazie a Frida Vigdorova. Eccone alcuni passaggi.

Giudice: Qual è la sua specializzazione?
Brodskij: Sono poeta. Poeta e traduttore.
G: E chi l’ha riconosciuta come poeta? Chi ha inserito il suo nome tra quello dei poeti?
B: Nessuno. E chi ha inserito il mio nome tra quello degli uomini?
G: Avete studiato per questo?
B: Per cosa?
G: Per diventare poeta. Non avete frequentato un istituto dove preparano… dove insegnano…
B: Non credo che questo si possa ottenere con un’istruzione.
G: Ma con cosa, allora?
B: Io credo che… venga da Dio

Nel maggio 1972 Brodskij fu chiamato dall'ОVIR, il dipartimento per i visti e gli stranieri dell'Unione Sovietica. Lì viene posto davanti alla scelta: emigrazione immediata oppure prepararsi a subire quotidiani interrogatori, carcerazioni e reclusioni in ospedali psichiatrici. Intanto nel 1964 gli era già capitato due volte di essere ricoverato negli ospedali psichiatrici e questo era stato per Brodskij, stando ai suoi stessi scritti, molto peggio dell'esilio o del carcere. Brodskij non esita, a questo punto, a lasciare l'Unione Sovietica.


Un ottimo articolo, caldamente consigliato, su Iosif Brodskij  e la sua resistenza contro il Male lo trovate qui http://www.pangea.news/iosif-brodskij-poesie-carcere/.

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