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mercoledì 30 ottobre 2019

Solo resiste al tempo



Solo resiste al tempo
quel che si fa
col tempo.
E quello che si fa
con l’eternità?
La poesia viene
quando restiamo  
nell’inesauribile
compagnia della solitudine.
Viene come un sùbito
taglio, dove si mischiano
con fredda febbre,
sangue con sangue,
due separati
mondi.


di Hèctor Murena, traduzione di Cristina Campo





Héctor A. Murena  (1923–1975), è stato uno scrittore argentino. Si è cimentato con la saggistica, la poesia e la traduzione, ha avuto un ruolo di fondamentale importanza nella diffusione nella cultura di lingua spagnola di pensatori come  Jürgen Habermas, Theodor Adorno e Walter Benjamin. In Italia la casa editrice Irradiazioni ha pubblicato Il peccato originale dell'America, Homo Atomicus e La metafora e il sacro.

L’itinerario dello scrittore argentino venne a incontrarsi con quello di Elémire Zolla,  nell’esclusivo cenacolo romano che trovò espressione nella rivista “Conoscenza religiosa” per la quale  scrissero intellettuali come  Henry Corbin, Cristina Campo, Quirino Principe, Guido Ceronetti, Pietro Citati, Jorge Luis Borges, Eugenio Montale, Giuseppe Sermonti.  Se in Homo atomicus  lo scrittore argentino è riuscito a fornire nuove prospettive alla critica della civiltà di massa, è nei saggi raccolti in La metafora e il sacro che è possibile individuare la cifra della sua ricerca poetica. A partire da quanto dice Goethe nei versi finali del Faust:

 "Tutto il perituro non è altro che immagine”

e che è un po' la chiave di volta che sorregge l'ispirazione della poesia tradotta con straordinaria sensibilità da Cristina Campo.


domenica 27 ottobre 2019

Non ho bisogno di tempo

Non ho bisogno di tempo
per sapere come sei:
conoscersi è luce improvvisa.
Chi ti potrà conoscere
là dove taci, o nelle
parole con cui tu taci?
Chi ti cerchi nella vita
che stai vivendo, non sa
Pedro Salinas
di te che allusioni,
pretesti in cui ti nascondi.
E seguirti all'indietro
in ciò che hai fatto, prima,
sommare azione a sorriso,
anni a nomi, sarà
come perderti. Io no.
Ti ho conosciuto nella tempesta.
Ti ho conosciuto, improvvisa,
in quello squarcio brutale
di tenebra e luce,
dove si rivela il fondo
che sfugge al giorno e alla notte.
Ti ho visto, mi hai visto, ed ora,
nuda ormai dell'equivoco,
della storia, del passato,
tu, amazzone sulla folgore,
palpitante di recente
ed inatteso arrivo,
sei così anticamente mia,
da tanto tempo ti conosco,
che nel tuo amore chiudo gli occhi,
e procedo senza errare,
alla cieca, senza chiedere nulla
a quella luce lenta e sicura
con cui si riconoscono lettere
e forme e si fanno conti
e si crede di vedere
chi tu sia, o mia invisibile.


Oggi il blog ha sorpassato le cinquemila visualizzazioni, da quando è stato creato. La poesia che ho scelto per questa occasione speciale è di un poeta madrileno che ha posto l'amore al centro della propria ricerca. In Italia Einaudi ha pubblicato una raccolta delle sue poesie, pubblicata nel '33 con il titolo "La voce a te dovuta".
Ringrazio Simona che mi ha parlato di questo poeta, ma in verità voglio soprattutto ringraziare la donna che ha ispirato questa poesia, perché ha dato il volto e la voce a tutte le donne di cui gli uomini hanno potuto dire... di tanto in tanto

Ti ho conosciuto nella tempesta

venerdì 25 ottobre 2019

Il pugnale



Ti amo, mio pugnale d’acciaio intarsiato,
Compagno gelido che abbaglia.
Un georgiano per la vendetta ti forgiò,
Un circasso ti affilò per la battaglia.
Una bianca mano a me ti ha donato
In segno di ricordo nella separazione,
E la prima volta non sangue da te colò,
Ma una tersa lacrima-perla di afflizione.


E fissando i neri occhi su di me,
Ricolmi di segreto dolore,
Come il tuo acciaio sul tremulo fuoco,
Erano a volte buio, a volte splendore.


Datomi per compagno, pegno muto d’amore,
Su di te il viandante può contare:
Come te, come te, amico mio d’acciaio,
La mia anima è salda e non potrà cambiare.

(1838)


 di Michail Jur'evič Lermontov traduzione di Paolo Statuti da:

 https://lombradelleparole.wordpress.com/2015/04/13/quindici-poesie-di-michail-jurevic-lermontov-1814-1841-tradotte-da-paolo-statuti-con-presentazione-di-antonio-sagredo/


Michail Lermontov attraversò le lettere russe come una meteora. Più giovane di Puškin di quasi una generazione, crebbe in un mondo già lontano dai modelli classici e incapace di confrontarsi con la sua eccezionale opera poetica. Un’opera che, soprattutto nell’ultimo lustro, condurrà Lermontov ai vertici della lirica romantica, non solo russa.
La vita breve, intensa, influenzata dal modello byroniano – che plasmò l’involucro esteriore dell’uomo, fatto di orgoglio luciferino e sprezzante cinismo –, si riflette in componimenti dominati da eroi solitari, da esclusi e proscritti alla costante ricerca di un riscatto. Le loro passioni titaniche vivono sullo sfondo di una natura visionaria che spazia dalle vette innevate e dai fiumi vorticosi del Caucaso alla Spagna di Don Juan o alla Scozia di Ossian, dalla Palestina ardente alla Russia dell’epos popolare, richiamando così le remote contrade care ai romantici inglesi e tedeschi.
Summa degli eroi di Lermontov è il Demone, creatura ribelle e dannata che cerca la salvezza in un amore impossibile. All’eroe di tenebra per eccellenza, e agli altri mondi simbolici e paralleli che gli fanno da cornice in questa antologia – quello del gioco a carte, ovvero l’alea dell’esistenza; quello delle maschere, ovvero il vuoto delle apparenze; quello di un Oriente affocato, ovvero i deserti dell’anima –, Tommaso Landolfi, lui stesso «perenne forestiero» della vita, presta una prodigiosa vena lirica e un dettato di assoluta musicalità .
(dal sito Adelphi  https://www.adelphi.it/libro/9788845920899

La poesia Il Pugnale di Lermontov non può essere apprezzata se non la si colloca nello scenario del Caucaso, dove il poeta russo si trovò più volte a combattere in scontri feroci ... il Caucaso, dove la storia si è divertita a mescolare etnie e popoli, linguaggi e religioni in una manciata di terra il cui paesaggio è altrettanto variegato: dai ghiacciai eterni ad aree semi desertiche, dai pascoli di montagna alla foresta pluviale. 

Circassi, Ceceni, Azeri, Cosacchi, Ebrei della montagna, Ingusci, Georgiani, Osseti ed Armeni. Moschee, cupole ortodosse e sinagoghe, ed ogni valle un'usanza diversa, diversi  costumi, ospitalità sacra e ferocia di briganti, coltelli sguainati ed amori che bruciano, passioni subitanee e vendette eterne. 

Questa terra misteriosa e straordinaria fu raccontata da Erodoto. La attraversò Jan Potocki  lo scrittore polacco che conversava con Marat e De Maistre, un gentiluomo viaggiatore che conosceva l' ebraico, il greco, il latino, l' arabo, e quasi tutte le lingue moderne. un illuminista attratto dalla sapienza occulta della cabala e dei testi ermetici.
Vi giunse anche  Alexandre Dumas fra il giugno 1858 e il marzo 1859 per raccontare una delle tante guerre sante che in quelle terre si sono combattute, aspramente, senza pietà a volte. "Il cimitero degli invasori", in questo modo  Dumas definisce questa terra, che è l'incubo di chiunque voglia tracciare confini o stabilire frontiere, perché le cose degli uomini non stanno dentro a linee tracciate troppo nettamente.

Come il pugnale di questa poesia, forgiato da un Georgiano per la vendetta e affilato da un Circasso per la battaglia, ma anche pegno di amore che stilla terse lacrime dal colore di perla.




mercoledì 23 ottobre 2019

un dardo lanciato contro le cose minime

DARDO

Esiste il corpo,
l’asse delle ginocchia, le pieghe,
la forza teatrale delle membra, il gusto acre,
l’estremo silenzio,
le mani pendenti.
Esiste il mondo,
le savane e l’iceberg,
le ore veloci, il falco,
la crescita segreta
delle piante, il riposo degli oggetti
che invecchiano nell’uso, senza dolore.
Esiste la poesia,
un dardo lanciato contro cose minime,
contro la notte, contro le cicatrici.
Un amore segreto li unisce,
le mani nell’acqua, la memoria dell’estate,
la poesia al sole.

                                                            di Ana Martins Marques



Grazie Francesca per la segnalazione di questa poesia, un dardo lanciato contro le cose minime ...




Di questa giovane poetessa brasiliana,nata nel 1977 a Belo Horizonte, è possibile leggere le poesie nella raccolta "La vita sottomarina", Kolibris edizioni.


martedì 22 ottobre 2019

e il tuo nome suona più lontano che mai





Potessero le mie mani sfogliare  


Pronuncio il tuo nome
nelle notti buie,
quando gli astri vanno
a bere alla luna
e dormono gli alberi
delle foreste cupe.
Ed io mi sento vuoto
di passione e musica.
Orologio impazzito che canta
morte ore antiche.
Pronuncio il tuo nome
in questa notte buia,
e il tuo nome suona
piú lontano che mai.
Piú lontano delle stelle,
piú dolente della pioggia quieta.
Ti amerò ancora
come allora? Quale colpa
ha il mio cuore?
Se si alza nebbia
quale nuova passione m’attende?
Sarà tranquilla e pura?
Potessero le mie mani
sfogliare la luna!

                                             di F. G. Lorca

venerdì 18 ottobre 2019

Silenzioso amico di molte lontananze



Avresti bisogno - mi dici - di una poesia capace di scioccarti.

Ma forse non è di un'emozione forte che hai bisogno, ma di ricordare ... ricorda il naufrago Odisseo che chiede ospitalità a Nausicaa, la figlia del magnanimo Alcinoo, ed il pianto dei cavalli divini di Achille sul cadavere di Patroclo

Scuotevano la testa e le lunghe criniere agitavano,
la terra calcando con gli zoccoli, e piangevano
Patroclo: lo vedevano estinto – senza vita –
una misera carne vuota – lo spirito suo svanito –
indifeso – senza più soffio in petto –
nel gran Nulla ripiombato dalla vita.

E ricorda la luce sui campi di grano della Messenia e il sapore dell'acqua dell' Eurota, le colonne doriche che svettano sull'Acropoli, la cetra che risuona, lo zufolo di Pan che irretisce, i sistri e i cembali, le fiaccole che illuminano la notte sulla strada di Eleusi...

Questo è ciò che puoi seminare e donare, che da te si attende e spera, un fardello e un privilegio che a te è destinato.

Orpheus, Franz Stuck 1891


Silenzioso amico di molte lontananze, senti,
come il tuo respiro ancor lo spazio accresce.
Nella tramatura d’oscuri ceppi di campana
abbandonati e risuona. Ciò che ti consuma,

diventa forza per questo nutrimento.
Nella metamorfosi entra ed esci.
Qual è in te l’esperienza più dolente?
Se ti è amaro il bere, diventa vino.

Sii in questa notte della dismisura
magica forza all’incrocio dei tuoi sensi,
senso del loro incontro strano.

E se terrestrità ti ha dimenticato,
dì alla terra immota: io scorro.
Alla rapida acqua parla: io sono.


                   di Rainer Maria Rilke, Sonetti ad Orfeo 

mercoledì 16 ottobre 2019

nelle estreme difese dalla Tenebra



Il mattino, Caspar David Friedrich (1821-1822)


La quiete

Quando il gallo cantò e suonò la falce
ti promisi destandomi una lode,
o benefica. Ed ecco il mezzogiorno
è chiaro, e batte in me un'ora ispirata.

Ristoratrice, come la panca della casa
cui il combattente pensa nel lontano tumulto
della battaglia quando gli piombano le braccia
e riposa nel sangue il ferro urlante -

così sei tu, consolatrice amica.
E al disprezzato doni la forza del gigante:
sorride degli sguardi nobileschi,
della stridula lingua della vipera -

nella valle di viole dove il bosco 
bisbiglia oscuro, trova il sonno, ebbro
d'ispirazione e di futuro, e intorno
gli alita, veste d'ali, l'innocenza.

Lo consacra nel sonno il prodigio di pace
perché nel labirinto agiti strenuo
la face e avanzi aspro il suo vessillo
nelle estreme difese dalla Tenebra.

Si leva pronto. Scende più severo
lungo il rivo alla baita. E l'opera divina
 germina nella grande anima. Ancora
una primavera, poi sarà compiuta.

E qui l'eroe t'innalza grato l'ara
o riposo mandato dagli Dei.
E sorride d'ebbrezza come il sole
che si diparte. Attende il lungo sonno.

S'accosteranno i figli alla sua tomba
con un brivido alto come a quella
del sapiente, del grande che riposa
nell'isola dei pioppi sussurranti.

                                  
                                        di Friedrich Hölderlin


Nessuno come lui, come Hölderlin ovviamente. Va bene... Forse qualcuno, pochissimi comunque.

Un'ode alla "quiete", al riposo mandato dagli Dei scorre lungo un perfetto accordo di suoni, una partitura studiatissima, degna di una sinfonia, un'armonia che ancora riusciamo a cogliere, anche nella eccellente traduzione di Enzo Madruzzato.

Alla quiete dunque si rivolge il poeta, al riposo, dono degli Dei che attende il combattente e spetta al Disprezzato, l'attende l'eroe sorridendo d'ebbrezza come il sole/che si diparte.  

Quanto è lontana questa quiete dalla moderna ansia del rilassarsi, del sospendersi come in una camera iperbarica, lontani da ogni tumulto, da ogni fatica, da ogni compromissione con i bisbigli oscuri, eppure rivelatori del bosco. L'uomo contemporaneo è ossessionato dal riposo, lo insegue affannato e non lo raggiunge mai davvero, perché la sua essenza è l'ebbrezza d'ispirazione e di futuro, non l'oblio dei mangiatori di loto.

Se per noi moderni la quiete è anzitutto assenza di pericolo, la poesia di  Hölderlin evoca la quiete che ristora nel tumulto stesso della battaglia, quando al combattente le braccia si fanno stanche della lotta e riposa nel sangue il ferro urlante. Non l'uomo pago del plauso e del consenso di tutti  trova il prodigio di pace, ma il Disprezzato - figura dell'uomo poetante - che sorride degli sguardi dei potenti e della stridula lingua della vipera e che percorre i sentieri poco battuti del bosco, dove trova il sonno in cui solo può trovare la sua consacrazione ...

perché nel labirinto agiti strenuo
la face e avanzi aspro il suo vessillo
nelle estreme difese dalla Tenebra.


domenica 13 ottobre 2019

Dal profondo della notte


Dono


Io parlo dagli abissi della notte.
Dagli abissi dell’oscurità io parlo
Dal profondo della notte.
O amico, se vieni a casa, porta per me una luce
E una piccola finestra,
da cui guardare la gente 
del vicolo felice



                                   di Forugh Farrokhzâd




Forugh Farrokhzâd (1935 - 1967) o semplicemente Forough,  solo con il nome proprio, come viene chiamata per affetto nel suo paese, è stata una delle voci più intense del panorama artistico e letterario del XX secolo. Spirito libero, intellettuale raffinata e poliedrica, con le sue poesie sfidò i rigidi e complessi schemi culturali e religiosi del suo paese, l’Iran, diventando un punto di riferimento dei movimenti di emancipazione femminile di tutto il mondo. Poetessa, traduttrice, attrice e documentarista, pagò il prezzo della sua fiera libertà con una vita privata tormentata, negli affetti e nella salute. Nel 1965 l’Unesco realizzò due cortometraggi sulla sua vita, che si interruppe bruscamente due anni dopo, all’età di soli 32 anni, a causa di un terribile incidente stradale a Tehran. 


Se c'è una poesia capace di raccontare come può essere la vita di una donna - per me - è proprio "Dono" di Forough Farrokhzâd.

Una donna parla da un luogo buio come la notte, profondo come un abisso. E chiama un amico. Gli chiede di portare una luce, perché lì dove vive non ce n'è. Ma non basta.

Una richiesta ancora ha da fare, una di quelle che si possono fare solo nella poesia: una piccola finestra... 

La vista pure è prigioniera, reclusa, separata. La felicità è la fuori, in un vicolo, ma lì dove vive Forough, dove molte donne vivono, non solo in Medio Oriente, nemmeno una finestra si apre sulle vite degli altri.

Solo il profondo della notte.

giovedì 10 ottobre 2019

Ad Elisabetta ....qualcosa che potresti portare con te


Starry Night, Vincent van Gogh



Per Jessica, mia figlia


Stasera sono passato a piedi
vicino a casa,
e ho avuto paura
non del percorso randagio
che ho fatto dell'amore e del sé,
ma di ciò che è buio e distante.
Camminavo, ascoltavo il vento tra le piante,
e sentivo il freddo sulla pelle,
ma ciò su cui mi sono fermato a pensare
erano le stelle splendenti
e nell'arco immenso del cielo.

Jessica, è tanto più facile
pensare alle nostre vite
mentre ci muoviamo sotto l'effimero sfolgorio delle foglie,
amando quel che abbiamo, 
piuttosto che pensare com'è che
piccoli esseri come noi
viaggino nel buio
senza un palese percorso
né un fine in vista.

Eppure ci sono state occasioni che ricordo
sotto lo stesso cielo
quando le ossa del corpo si sono fatte luce,
e la ferita del cranio
s'è aperta a ricevere
i raggi freddi del cosmo
e sono state, per un istante,
esse stesse cosmo,
ci sono state occasioni in cui riuscire a credere
che fossimo figli delle stelle
e che le nostre parole fossero fatte della stessa
polvere che fiammeggia nello spazio,
occasioni in cui riuscivo a percepire la levità del respiro,
il peso di un'intera giornata
giunto a un punto di riposo.

Ma stasera
è diverso.
Intimidito dal buio
in cui insieme vaghiamo, o svaniamo,
immagino una luce
che non ci permetta di separarci troppo,
una luna segreta, o uno specchio segreto,
un foglio di carta,
qualcosa che potresti portare con te
nel buio
quando io sono lontano.

                                                        di Mark Strand




domenica 6 ottobre 2019

fabbricherò nella notte i miei palazzi stregati


Paesaggio


Boulevard des Capucines in Paris - Claude Monet



Voglio, per comporre castamente le mie egloghe,
dormire accanto al cielo, come fanno gli astrologhi;
e vicino ai campanili, ascoltare sognando 
i loro inni solenni portati via dal vento. 
Le mani sotto il vento, dall'alto della mia mansarda, 
vedrò l'officina che canta e che chiacchiera,
i comignoli, i campanili, alberi maestri della città,
e i grandi cieli che fanno sognare l'eterno.

E' dolce veder nascere tra le brume 
la stella nell'azzurro, la lampada alla finestra,
i fiumi di carbone che salgono al firmamento
e la luna che versa il suo pallido incanto.
Vedrò passare primavere, estati, autunni; 
e quando arriverà l'inverno con le sue nevi monotone,
serrerò porte  e finestre,
fabbricherò nella notte i miei palazzi stregati.
Sognerò allora orizzonti azzurrini, 
giardini, zampilli d'acqua riversanti il loro pianto negli alabastri,
baci, uccelli cantanti sera e mattino,
e quanto di più infantile l'Idillio può possedere.
Tempestando vanamente al mio vetro
la Rivolta non riuscirà a farmi alzare la fronte dal leggìo,
perché sarò tutto nel piacere d'evocare la Primavera, 
di far nascere un sole dal mio cuore e di trasformare
i miei pensieri ardenti in una tiepida atmosfera.


                                                                di Charles  Baudelaire


La poesia  La città di Costantino Kavafis e questa di oggi di Charles Baudelaire parlano del posto dove molti di noi vivono, lavorano, dal quale a volte desiderano scappare, dove ritornano, dove cercano di nascondersi, spesso sognando orizzonti azzurrini...

La città moderna non è solo uno spazio delimitato da un particolare paesaggio, come quello che Baudelaire ci fa vedere. La città è qualcosa di più, è una condizione dello spirito.
Colpisce che i poeti abbiano colto questa cesura fondamentale della storia dello spirito umano prima di tutti, prima ad esempio che Georg Simmel, uno dei padri della sociologia, scrivesse - nel 1903 - uno degli studi più lucidi di quel periodo, La metropoli e la vita dello spirito. 

Nella poesia di Kavafis  un uomo dichiara apertamente la propria condizione di desolazione:
... E qua
giace sepolto, come un morto, il cuore.

La sua vita non è altro che macerie nere, quella vita che negli anni trascorsi ha saputo solo perdere e schiantare.

Nella lirica di Baudelaire tutto è visto come da lontano, da un luogo che si vorrebbe distaccato, sottratto alla sventura e alla monotonia. Il canto dei campanili è sognato, ed è portato via dal vento.
L'officina, i comignoli, i campanili, alberi maestri della città, / e i grandi cieli che fanno sognare l'eterno sono visti dall'alto di una mansarda, i grandi cieli fanno sognare l'eterno, ma è appunto un sogno, desiderato e rimpianto dall'uomo, un sogno che rende la propria condizione più infelice.

Il protagonista della lirica di Kavafis vorrebbe scappare, ma la sua è una fuga destinata al fallimento:

Né terre nuove troverai, né nuovi mari.
Ti verrà dietro la città... 

L'uomo che ci parla nella poesia di Baudelaire prova a chiudersi nella sua casa, serrerò porte  e finestre, la vita è fuori dalla finestra e solo nel sogno, nell'immaginazione, può trovare riscatto:

fabbricherò nella notte i miei palazzi stregati.
Sognerò allora orizzonti azzurrini, 
giardini, zampilli d'acqua riversanti il loro pianto negli alabastri,
baci, uccelli cantanti sera e mattino ...


Une rue de Paris en mai 1871, Maximilien Luce
Persino alla Rivolta che pur tempesta di colpi il vetro della sua finestra il poeta non vuole dare udienza. L'unica rivoluzione possibile non è quella che scuote le strade con il suo tumulto e insanguina i boulevard della metropoli; può avvenire nel suo animo:

far nascere un sole dal mio cuore ...














venerdì 4 ottobre 2019

La città



Didone costruisce Cartagine, J.M.W. Turner


Hai detto: "Andrò per altra terra ed altro mare.
Una città migliore di questa ci sarà.
Tutti gli sforzi sono condanna scritta. E qua
giace sepolto, come un morto, il cuore.
E fino a quando, in questo desolato languore?
Dove mi volgo, dove l'occhio giro,
macerie nere della vita miro,
ch'io non seppi, per anni, che perdere e schiantare"

Né terre nuove troverai, né nuovi mari.
Ti verrà dietro la città. Per le vie girerai:
le stesse. E negli stessi quartieri invecchierai,
ti farai bianco nelle stesse mura.
Perenne approdo, questa città. Per la ventura
nave non c'è né via - speranza vana!
La vita che schiantasti in questa tana
breve, in tutta la terra l'hai persa, in tutti i mari.


                        di Costantino Kavafis

mercoledì 2 ottobre 2019

Tu m’hai di servo tratto a libertate


Roma, un venerdì sera da Feltrinelli. Io e Gabriele, un collega di Filosofia presentiamo il libro che Edoardo ha da poco pubblicato su Dante Alghieri. Edoardo è stato un nostro allievo, bravissimo, in tutte le materie; ora studia Fisica all'Università, Dante è il suo poeta preferito.
Al momento delle domande dal pubblico si alza Luca - un suo compagno - e fa ad Edoardo una domanda su una delle questioni centrali della Commedia, la libertà. Cos'è la libertà per Dante? e cosa è per te? Edoardo risponde, cita dei versi, coinvolge il pubblico. Poi la bellissima serata finisce, torniamo a casa, ma un'immagine mi torna in mente. Va, viene, scompare e ritorna ...

Siamo nel 1933 nella Russia di Stalin, un poeta Osip Mandel'stam recita una poesia che ha da poco composto.  E' questa qui:

Noi viviamo senza avvertire sotto di noi il paese,
i nostri discorsi non si sentono a dieci passi di distanza, 
ma dove c’è soltanto una mezza conversazione
ci si ricorda del montanaro del Cremlino.
Le sue grosse dita sono grasse come vermi
e le sue parole sicure come fili a piombo.
Ridono i suoi baffi da scarafaggio,
e brillano i suoi gambali.
Intorno a lui c’è una masnada di ducetti dal collo sottile
e lui si diletta dei servigi dei semiuomini.
Chi fischietta, chi miagola, chi piagnucola
se soltanto lui ciarla o punta il dito.
Come ferri da cavallo egli forgia un ukaz dietro l’altro,     
a uno l’appioppa nell’inguine, a uno sulla fronte,                                
a chi sul sopracciglio, a chi nell’occhio.
Non c’è esecuzione che non sia per lui una cuccagna...

                                                  (un "ukaz" è un proclama dello zar o di un patriarca che ha validità di legge)

Non si sa chi fu la spia ma nella notte tra il 13 e il 14 maggio 1934 due agenti della polizia sovietica si presentano in casa di Mandel'stam a Mosca, perquisiscono la casa, sequestrando grandi quantità di manoscritti.

Osip viene arrestato.

I poliziotti lo conducono alla Lubianka, con sé porta via soltanto una copia della Divina Commedia.  Mandel'stam è condannato al confino: tre anni a Cherdyn, una remota località degli Urali, lungo il fiume Kolva, alle porte della Siberia. Non sarà quella l'ultima volta che il poeta conoscerà la prigione; nel 1938 viene nuovamente arrestato e condannato ai lavori forzati. Questa volta viene trasferito all’estremo oriente della Siberia dove muore a fine dicembre nel gulag di Vtoraja rečka. 

Mi piace immaginarlo così, scortato da due sgherri, sottobraccio e nel cuore la Commedia... E mi piace immaginare che nei suoi ultimi disperati momenti questi versi siano scesi a consolarlo: 

... i versi della libertà che nessuno potrà mai togliere all'uomo ... l'ultimo sorriso di Beatrice

Beatrice e Dante salgono al quinto cielo, Gustav Doré
O donna in cui la mia speranza vige, 
e che soffristi per la mia salute 
in inferno lasciar le tue vestige,                                       
di tante cose quant’i’ ho vedute, 
dal tuo podere e da la tua bontate 
riconosco la grazia e la virtute.                                        
Tu m’hai di servo tratto a libertate 
per tutte quelle vie, per tutt’i modi 
che di ciò fare avei la potestate.                                      
La tua magnificenza in me custodi, 
sì che l’anima mia, che fatt’hai sana, 
piacente a te dal corpo si disnodi».                               
Così orai; e quella, sì lontana 
come parea, sorrise e riguardommi; 
poi si tornò a l’etterna fontana.