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sabato 29 giugno 2019

Haiku n.2





in questo giorno


che tramonta


sono caduti i fiori di ciliegio


 di Miura Chora (1729-1780)

Lo haiku è la più piccola forma di poesia esistente; attraverso tre versi di cinque, sette, cinque sillabe - spiega Elena Dal Pra  nell'introduzione al volume Haiku. Il fiore della poesia giapponese - gli haijin, i poeti di haiku, colgono "un battito della vita dell'universo". Diciassette sillabe, il balenare di una luce che provoca uno squassamento globale della mente, quindi lo schiudersi inatteso di un nuovo mondo, non prima percepito.

"L'arte occidentale - ha scritto a tal riguardo Roland Barthes (L'impero dei segni, Einaudi 1984) - trasforma l'impressione in descrizione. Lo haiku non descrive mai: la sua arte è anti-de-scrittiva nella misura in cui ogni stadio della cosa è caparbiamente, vittoriosamente trasformato in una fragile essenza di apparizione".

Contro uno sfondo grande, spesso solo suggerito - è ancora Elena Dal Pra a guidarci - un movimento infinitesimale ci scuote, ci fa riconoscere il fueki ryūkō  "l'impermanenza" di ogni cosa. Per cogliere lo spirito degli haiku dobbiamo rifarci ad uno dei fondamenti dell'estetica giapponese: un principio chiamato "Mono no aware" (物の哀れ), la quieta commozione per la caducità delle cose, che nasce dalla contemplazione malinconica e solitaria della bellezza effimera della natura.

Nello haiku di Miura Chora, lo sguardo prova tristezza di fronte al venir meno dei fiori di ciliegio, ma allo stesso tempo è preso da una struggente meraviglia per la loro precaria bellezza (la fioritura dei fiori di ciliegio dura solo pochi giorni, da una settimana a dieci giorni, di solito). Lo spirito indugia sul fluire inesorabile del tempo, nella consapevolezza che  tutto è destinato a passare velocemente; da questo stato dell'animo sorge una serena empatia verso tutto ciò che trascorre.

In questo giorno - così comincia il nostro haiku - , non in quello di ieri, tanto meno nell'idea-immagine di tramonto (in cui siamo soliti racchiudere la somma dei ricordi e delle rappresentazioni del tramonto), in questo giorno, che è diverso da tutti gli altri che lo hanno preceduto, hic et nunc, nella luce di un preciso, irripetibile istante, la mente si concentra nel presente. Non ci sarà mai più un giorno come questo, non ci sarà mai più un tramonto come questo davanti al quale il poeta si trova, "un battito di vita dell'universo".
Lo sguardo non si fissa su un punto in particolare, abbraccia l'orizzonte tutto attorno a sé; nella luce del tramonto ecco

sono caduti i fiori di ciliegio. 

Il battito di un cuore, l'istante e il frammento di questa piccola storia del mondo. Sono caduti...  bisogna fare attenzione qui e fermarci su questa scelta del tempo verbale, sono caduti... i fiori di ciliegio. 
Pare di sentirlo il rumore di questo ultimo fiore di ciliegio che percuote la terra. Un attimo per volteggiare appena, è l'ultimo dei suoi pari, l'ultimo dei fiori più belli, quelli che vivono una breve vita illuminata dalla ricerca della perfezione, come i samurai di cui i fiori di ciliegio sono il simbolo, come l'arco elegante e perfetto che trascorre la spada quando è estratta dal suo fodero.
Ora si posa, l'ultimo fiore di ciliegio, prende congedo dalla vita, spargendo la sua bellezza fino all'ultimo istante in cui depone la sua veste sulla terra.

Il cuore è pieno di gratitudine e commozione per quanto ha avuto in dono di contemplare, perché - sì - l'uomo è ciò che contempla.







giovedì 27 giugno 2019

Pensa a chi è stato invano

PENSA A CHI È STATO INVANO           di Gottfried Benn


Se un disperare – 
tu che hai pur avuto ore grandi 
e certezze e il dono di tante 
ebbrezze e aurore e svolte 
inattese 
e di potervi anche indugiare – 
se un disperare, 
sia pure con estinzioni e annientamenti, 
dall’insondabile ti vuole 
in suo potere: 
pensa a chi è stato invano, 
tempie delicate, sguardi introversi, 
fedeltà di ricordi 
che lasciavano poca speranza 
ma anche loro chiedevano fiori, 
e con un sorriso poco espressivo 
sollevavano il non detto, il taciuto 
al loro piccolo cielo 
prossimo a spegnersi. 


da Gottfried Benn, Frammenti E Distillazioni, a cura di Anna Maria Carpi, Einaudi, Torino, 2004.

martedì 25 giugno 2019

Parlaci piuttosto di vino qual rubino vermiglio o di labbra di miele!






di Hafez di Shiraz

1. A zefiro sul prato di tulipani io andavo all’alba dicendo:

    testimoni di Chi son tutti  questi fiori dalla veste sanguigna?

    Rispose: no Hâfez, io e te a parte non siamo 

    di un simile Arcano

    Parlaci piuttosto di vino qual rubino vermiglio o di labbra di miele!

2. Scuole di teologi, dispute fra dotti, archi e porticati:

    a che pro se il cuore non è sapiente, l’occhio non è veggente!



Nella poesia A zefiro sul prato di tulipani Hafez interroga l'alba sui bellissimi fiori che vede in un campo: sono forse essi  testimoni, un segno, di Qualcuno, a cui solo può appartenere un'arte così sublime? L'alba tuttavia sembra deludere le aspettative del poeta: non abbiamo parte noi con un simile Arcano. L'alba, come l'uomo, è segnata dalla precarietà, trapassa e svanisce in un attimo. Non è quella la strada che Hafez dovrà seguire per scoprire le tracce dell'Altissimo... il sapore del vino dal colore vermiglio e delle labbra di miele, la sapienza del cuore e l'occhio veggente, quello piuttosto è il sentiero, dietro le spalle i porticati dove disputano teologi, sapienti e dotti...

Hafez è il poeta persiano più celebre e più amato. In Iran è ancora oggi molto popolare: si dice che due libri non possono mancare in ogni casa: il suo Canzoniere e il Corano. Dai suoi versi, che tutti sanno recitare a memoria, si ricavano addirittura vaticini per predire il futuro. Importato in Europa con tutti gli onori da Goethe, che ad Hafez si ispirò per il suo Divan occidentale-orientale, ha conosciuto traduzioni in molte lingue moderne. La sua opera poetica si compone di circa cinquecento canzoni. Nel volume Ottanta canzoni, pubblicato dalla case editrice Einaudi, ne viene offerta un’accurata scelta che mostra l’affascinante intreccio di amore carnale e mistica sufi in un contesto antitetico di figure dell’ipocrisia (il predicatore, il censore, ecc.) e di figure della sincerità (il bevitore, il libertino, il mendicante) che configurano una «controcultura» innervata nell’amore e nell’ebbrezza. O nell’ebbrezza dell’amore.

L’eternità sta nel vino, coppiere, a me versane l’ultima goccia: lassù non fiorita è radura, non quale a Shiraz riva d’acque.

Di liuti parlatemi solo, parlatemi solo di coppe: il segreto di questo mondo è un enigma che mai saprà scioglier sapienza (dal sito Einaudi.it).

Un articolo molto interessante su questo poeta persiano, la cui scrittura (da molti  è chiamata lisān al-ghayb, la “lingua del mistero”)   lo trovate in
 http://www.nuoviargomenti.net/poesie/hafez-di-sciraz-ieri-notte-ho-visto-gli-angeli-bussare-alla-porta-della-taverna/


lunedì 24 giugno 2019

Come pupilla nera



di Marina Cvetaeva, Come pupilla nera










Come pupilla, nera; come pupilla, succhiante
la luce – ti amo, perspicace notte.

Dammi voce per cantarti, o progenitrice
delle canzoni, nella cui mano è la briglia dei quattro venti.

Chiamando te, te glorificando, io sono soltanto
una conchiglia dove ancora non s’è taciuto l’oceano

Notte! Ho già scrutato a sazietà nelle pupille umane
Inceneriscimi!  Nero sole – notte!




Per Marina Cvetaeva uno dei modi per conoscere il mondo e se stessa è dormire e sognare. Significativamente in russo la stessa parola (son) esprime sia il sonno che il sogno e spesso la Cvetaeva gioca abilmente con il doppio significato della parola. A questo proposito scrive: “il sogno  – questa sono io in piena libertà , è quell’aria che mi serva per respirare. E’ il mio tempo, è la mia ora del giorno, è la mia stagione dell’anno, la mia longitudine e latitudine. Soltanto in esso sono io. Il resto è casualità”.
Il motivo del vedere in sogno (in russo snovidenie) costituisce tra l’altro uno dei motivi ricorrenti della corrispondenza tra la Cvetaeva e Boris Pasternak; soltanto nell'esperienza del sogno/sonno l’uomo si risveglia alla percezione più nitida della realtà del mondo. Ciò è particolarmente evidente nella poesia Come pupilla nera, dove viene tematizzata la notte, il tempo cioè in cui è possibile entrare - o profondarsi come direbbe Dante - in una consapevolezza della realtà altrimenti inattingibile.
A tal riguardo Pietro A. Zvetermich, che ha curato l’edizione e la traduzione degli scritti della poetessa moscovita ha sottolineato con chiarezza come la Cvetaeva cercava di fare della sua poesia uno strumento di “reperimento, di scoperta del concreto di cui è tessuta la vita reale con tutti i suoi minimi – mediocri, esaltanti o miseri –dettagli”. La poesia è anzitutto un’operazione conoscitiva.
La notte è perspicace: sotto il suo manto le cose non si nascondono, ma si rivelano nella loro essenza; non più sottoposte agli inganni della luce del giorno e dello stato di veglia, si manifestano per quello che sono.
La notte è una pupilla nera che succhia la luce, vuole assorbire tutto, con avidità; la notte è un modo di guardare al mondo, una finestra aperta su ogni minimo dettaglio, mediocre, esaltante o misero che sia. Si condensa in questo sguardo tutta la tensione verso lo sforzo di penetrare il reale, ciò che per la poetessa russa, come abbiamo visto, è il vero unico possibile destino del discorso poetico.
Solo dallo sguardo della notte e nella notte può nascere il canto: Dammi voce per cantarti, o progenitrice/delle canzoni… La voce del poeta è un dono della notte, non una creazione del soggetto. Come una matrice o un utero, la notte è progenitrice della poesia che solo da essa può emergere. Chi è il poeta allora? Una conchiglia dove ancora non s’è taciuto l’oceano. Bellissimo quell’avverbio: ancora. Non manca molto forse a che quella voce che fa risuonare la conchiglia si tacerà per sempre, ma non ancora, ancora per un po’ essa riecheggia…
Lo scioglimento finale giunge rapido, con uno scarto improvviso ed amaro: ho già scrutato a sazietà nelle pupille umane. Non ci dice cosa ha visto, le ambizioni deluse, le vittorie o le sconfitte, le passioni, il momento esatto in cui ha creduto di avere al suo fianco qualcuno e questo invece era altrove.

I dettagli mediocri, esaltanti o miseri...

C’è tutta la fragilità della sventura umana in questa espressione: ho già scrutato a sazietà. L’ultimo verso è come il sigillo impresso sulla volontà fermamente perseguita di avvicinamento alla verità che ormai non può che essere non già desiderio di morire, ma di non esistere, diventare… nulla, cenere infeconda, nel Sole nero della notte. 

Eppure, giunti nel preciso punto dove la Cvetaeva voleva che la seguissimo, ad una longitudine e latitudine esattamente determinati dal timbro della sua voce non fioca, né esile, dietro i suoi passi serrati, al cospetto di questo immenso Sole nero che disvela e incenerisce, non possiamo fare a meno di intuire la speranza incofessata e fragile di un chiarore appena visibile, capace di sfidare il nulla. Perché inesausto è il desiderio di cantare, di non arrendersi al mormorio dell'oceano che ancora non s'è taciuto. Il canto nasce dalla notte ma non è a lei destinato, è quello che rimane, ciò su cui persino il Nero sole non ha dominio.

Altre voci forse ci guideranno verso quell'accenno di chiarore che non è di qui, poiché è da un altrove impensabile che giunge. Tuttavia solo da questa ultima tappa del nostro viaggio al termine della notte, deposte tutte le facili illusioni, possiamo scorgere quel tenue chiarore. Di questo viaggio è Marina Cvetaeva che dobbiamo ringraziare.

sabato 22 giugno 2019

Non avessi visto il sole



di Emily Dickinson, Non avessi visto il sole 



Se non avessi visto il sole

avrei potuto sopportare l'ombra,

ma la luce ha reso il mio deserto

ancora più selvaggio.




giovedì 20 giugno 2019

... sulla bilancia dei sogni

... sulla bilancia dei sogni

Il tempo scorre in modo strano nella poesia Sguinzagliare i ricordi di Yehuda Amichai: c’è un tempo dell’oggi. Quello di un uomo che pensa al vento tra i capelli della sua donna e agli anni in cui lei ancora non c’era;  ecco che si affaccia su questo oggi l’immagine della morte che incombe, l’incontro con l’eternità. Dolore del distacco e scoperta dell’inaspettato si mescolano insieme, ma è la separazione dei due amanti quella che sembra prevalere.

C’è poi un tempo del passato.
Un tempo di guerra, di proiettili che tracciano il destino di amici che ormai non sono più, mentre altri hanno avuto in sorte di vivere oltre.  Nuovi ricordi tuttavia affiorano, i volti degli amici caduti si diradano, le loro voci dolenti si fanno più deboli, prende il loro posto l’immagine di lei, nuda davanti al fornello d’estate.
Una sensualità domestica e intima c’è in questo verso, dove la consuetudine dell’amore ha il sapore dello zafferano e del miele, del melograno e dell’uva. È un'atmosfera che evoca la fisicità del  Cantico dei Cantici: così canta infatti lo sposo all'amata

Le tue labbra stillano miele vergine, o sposa,
c'è miele e latte sotto la tua lingua
e il profumo delle tue vesti è come il profumo del Libano. 
E ancora…
I tuoi germogli sono un giardino di melagrane,
con i frutti più squisiti,
alberi di cipro con nardo,
nardo e zafferano, cannella e cinnamòmo
con ogni specie d'alberi da incenso;
mirra e aloe
con tutti i migliori aromi.

Un altro ricordo si palesa, più definito: la donna appare curva per leggere meglio/nella luce morente del giorno. E di nuovo si sente che lo sguardo non definisce qui solo una posizione di un corpo nello spazio e nel tempo, ma abbraccia, stringe a sé, desidera  Non sappiamo bene perché sia così, ma lo sentiamo che quei giorni, i giorni del fornello d’estate e dei libri letti nella luce del tramonto sono i giorni del loro amore: l’amore è un sapore e un profumo inebriante.

Ritorna nell’ultima strofa il trascorrere del tempo, dall’oggi al passato, vedi, abbiam vissuto più di una vita. Non è un paradosso. C’è un tempo per ogni cosa:

Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.

Abbiamo vissuto più di una vita.

E dobbiamo pesare ogni cosa sulla bilancia dei sogni
Quando arrivate a questo verso, forse anche a voi è suonato un gong nella cassa toracica, uno di quegli enormi gong orientali il cui eco dura un milione di anni. Non provate nemmeno per un attimo a capire cosa vuol dire “una bilancia dei sogni”. La domanda che mortifica la poesia, ogni poesia: cosa significa?
E' necessario piuttosto chiedersi dov’è? come ci si arriva? Sì perché se un poeta l’ha creata questa immagine, da qualche parte deve pur stare la nostra bilancia. Forse è ben nascosta, ma da qualche parte esiste; dev’essere così.

Nella parte finale della poesia di Yehuda Amichai i due amanti sono impegnati in una sfida che li riunisce.Non a caso i verbi più significativi sono alla prima persona plurale; subito dopo aver detto che devono pesare ogni cosa sulla bilancia dei sogni, il poeta israeliano dice che devono anche sguinzagliare/ricordi che divorino ciò che fu il presente. Questo è il nemico, un tiranno capace di fare del male, un peso troppo pesante da portare sulle spalle, un fardello che tiene lo sguardo a terra e riempie di polvere e sassi la bocca…
Il presente senza gusto e passione rischia di dissolvere il tempo dell'amore, assume sovente la forma di un destino,  di una palude senza mutamento; non ha il sapore del miele e del melograno, ma il poeta e la sua donna hanno sogni e ricordi in abbondanza.

Basteranno.

martedì 18 giugno 2019

Sguinzagliare ricordi

di Yehuda Amichai


In questi giorni penso al vento fra i tuoi capelli,
agli anni che fui nel mondo prima di te
e all’eternità che prima di te andrò a incontrare,

ai proiettili che non mi uccisero in battaglia
ma uccisero i miei amici,
di me migliori perché
non vissero oltre come me,
penso a te nuda davanti al fornello d’estate,
sul libro curva per leggere meglio
nella luce morente del giorno.

Vedi, abbiam vissuto più di una vita,
ora dobbiamo pesare ogni cosa
sulla bilancia dei sogni e sguinzagliare
ricordi che divorino ciò che fu il presente.




di nuovo grazie Simona...

sabato 15 giugno 2019

... di cosa parliamo quando parliamo d'amore

          sulla poesia dopo le feste di Julio Cortázar 



 
Prima di tutto ancora un grazie a Simona che tempo fa mi ha fatto conoscere questa poesia ed il suo autore...

       






   

Perché la poesia Dopo le feste (nell'originale Después de las fiestas) è così apprezzata, anche dal pubblico di coloro che non leggono abitualmente poesie? Cosa fa funzionare i suoi versi? Quale magia vi è nascosta?
Innanzitutto, credo, è il momento che il poeta argentino 'fotografa': due amanti dopo una festa che si è protratta nel cuore della notte. Sono andati via tutti e solo in due sono rimasti e i bicchieri vuoti e i portacenere sporchi. L'istantanea è precisa, nitida: non più l'ebbrezza della seduzione, il tumulto del cuore, il sapore della passione...

Il momento esattamente dopo.

Era bello sapere che eri lì, come una corrente che si ferma tranquilla, calma. Come un torrente di montagna che scorre veloce, il suono argenteo, allegro, rinfranca dalla fatica e smuove all'azione energica. D'un tratto piega in un'ansa e le sue acque si fanno quiete, il colore è limpido; ahí como un remanso, l'originale spagnolo, ha a che fare con la acción de detenerse, relajarse, aquietarse o quedarse tranquilo.

Questa immagine, a mio avviso, coglie un momento decisivo dell'esperienza dell'amore, quello in cui la passione si è consumata. Il sudore mescolato degli amanti e le capriole tra le lenzuola, lasciano il posto alla quiete, al remanso. Ecco quel momento decisivo, l'attimo fuggente che disvela la verità, che chiarisce di cosa parliamo quando parliamo d'amore...
Il poeta guarda la sua donna, ma non vede più solo lei: sola con me sull’orlo della notte; sul confine della notte. Quando il buio comincia piano a rischiararsi, è in quell'istante prezioso e rapido che si manifesta una bellezza che toglie il respiro: essere insieme sull’orlo della notte. Uno stesso cuscino e uno stesso tepore a far loro compagnia, fino all'alba che giungerà.

Un luogo: un fiume che rallenta e diventa calmo, un tempo: il confine tra il buio e il chiarore che ancora non è luce. Il momento preciso, il καιρός, in cui appare chiaro che lei, proprio lei e nessun'altra, è quella che rimane, quella che non se ne va.

Spesso i poeti hanno visto nel tempo, invida aetas, un nemico dell'amore: trascorre veloce, fugge e inganna, porta con sé i giuramenti dell'amica, ma questa donna non è come le altre, è più del tempo... C'è da trattenere il fiato per un verso di questa incandescenza espressiva.

... más que el tiempo

Almeno lì, in quell'istante, in quella notte che ancora non è giorno, dopo le feste, dopo che tutti sono andati via...

giovedì 13 giugno 2019

di Julio Cortázar, Dopo le feste



E quando tutti se ne andavano

e restavamo in due

tra bicchieri vuoti e portacenere sporchi,

com’era bello sapere che eri lì

come una corrente che ristagna,

sola con me sull’orlo della notte,

e che duravi, eri più che il tempo,

eri quella che non se ne andava

perché uno stesso cuscino

e uno stesso tepore

ci avrebbero chiamati di nuovo

a svegliare il nuovo giorno,

insieme, ridendo, spettinati.

mercoledì 12 giugno 2019

Un Orfeo nel Bronx

Cammino nel freddo della notte in pieno autunno,

                                                         come Orfeo,

pensando il mio canto, ansioso di voltarmi,

la mia vita svanita un ornamento, una nuvola alla deriva, dietro di me,

leggera trascendenza di cenere,

sepolta e risorta una volta, e poi ancora e ancora.

Il marciapiede si srotola come un sonno profondo.

Sopra di me le stelle, stelle austere,

svelano il volto.

           Nessun cuore batte alle mie spalle, nessun passo.





di Charles Wright






Charles Wright (Pickwick Dam, Tennessee, 1935) è unanimemente considerato uno dei maggiori poeti statunitensi dell’ultimo secolo. Ha frequentato il Davidson College e lo Iowa Writers’ Workshop, e ha fatto par te per quattro anni nell’esercito americano, periodo durante il quale – di stanza a Verona – Wright ha cominciato a leggere e scrivere poesia. Autore di oltre venti raccolte, ha ricevuto molti riconoscimenti, tra cui si ricordano  il Pulitzer e il National Book Critics Circle Award (1988) e il Griffin International Poetry Prize (2007). Nel 2014-15 è stato poeta laureato degli Stati Uniti d’America. La sua scrittura - ha scritto Antonella Francini su Nuovi Argomenti - "riecheggia la metafisica di Emily Dickinson e il maestoso canto di Walt Whitman, la musica country, il blues e il jazz, l’imagismo di Pound, l’astrattismo di Wallace Stevens, dall’altro richiama l’architettura e l’immaginario di Dante, la metafisica modernista di Montale, quella pittorica di Giorgio Morandi e Paul Cézanne, il surrealismo di Kafka, le voci dei mistici cristiani, i lirici paesaggi interiori dei poeti medievali cinesi. " Uno insomma da tenere d'occhio

Un moderno Orfeo cammina per i marciapiedi di una grande città in una fredda notte di autunno. Dietro di lui, tuttavia non cammina un'incerta Euridice, immagine dell'ars poetica: questa non è altro che leggera trascendenza di cenere ... un verso che vale un intero libro di poesie. Il moderno Orfeo non ha sottratto niente al regno della morte, anzi sembra farsi lui stesso null'altro che vita svanita. Eppure... il marciapiede su cui cammina questo Orfeo del Bronx non è strada di smarrimento, prigione labirintica, disperazione senza fine. Il sonno profondo non è forse, anche, il tempo ed il luogo dove attingiamo le tracce della nostra nostalgia dell'eterno? delle Isole Beate? della  divina foresta spessa e viva, / ch’a li occhi temperava il novo giorno ?
Sopra la solitudine del moderno Orfeo, che è solitudine non solo di affetti umani, ma quella più intensa e forte, che solo nel sonno profondo a volte si fa rammemorare, austere stelle svelano il loro volto.
Orfeo, quello del Bronx, il nostro compagno di strada, non cammina verso un oblio oscuro di piaceri trascorsi e speranze svanite. E' solo, non lo accompagna Euridice e nessun cuore batte alle sue spalle, nessun passo, tuttavia la sua cerca non si ferma.
Solleva lo sguardo, amico Orfeo... quella la via.


martedì 11 giugno 2019

... questo vento agita anche me


… questo vento agita anche me
            
      Abbiamo esperienza del vento. La mutevolezza è la sua natura: ora soffia forte e rabbioso, ora gentile e benevolo. Gonfia le vele in mare aperto, tende le corde e la barca scricchiola sotto la sua forza, urla tra le vette, spazza le nuvole o le raccoglie minacciose. Muove le onde fino a suscitare tempeste o rallegra l’ombra sotto gli alberi di una divina foresta. Il vento è immagine di ciò che cambia, senza posa, senza direzione sicura. Nessuno sa di dove viene né dove va, come lo Spirito sceglie da sé i suoi sentieri imperscrutabili all’uomo.
Nella poesia di Wallace Stevens il carattere mutevole del vento è associato al sentimento dell’umano: i pensieri di un’anziana che ancora pensa intensamente, disperatamente; il vento cambia come un’umana senza illusioni, ed anche  come umani che s’avvicinano orgogliosi, come umani che s’avvicinano rabbiosi. La chiusura della poesia è ancora nel segno negativo di un’assenza; il vento cambia come un umano, pesante, pesante, cui non importa niente.
Disperazione, perdita delle illusioni, orgoglio e rabbia, indifferenza infine e insieme consapevolezza della fatica del vivere. Sono questi i tratti che il poeta americano associa al cambiare del vento;  se tale qualità è resa attraverso l’uso insistito dell’anafora, che si ripete uguale, con poche variazioni, la vita dell'uomo è segnata dal tramontare di ogni illusione: non siamo il centro del mondo. Anzi, il vento cambia, ma l’uomo non può che rendere quel movimento continuo e incompreso in modo molto limitato,  dato che un abisso intercorre tra l'esperienza intellettuale e l'esperienza sensibile. Al continuo, perenne mutare del vento, alla povertà con cui il linguaggio umano riesce a comprenderlo e quindi a farlo davvero esistere, corrispondono espressioni della vita molto diverse tra loro, eppure accomunate dalla stessa tensione insopprimibile.
Come spesso accade nelle poesie di Stevens, il punto di vista che egli sceglie è nel disincanto che nasce dalla percezione della realtà: un vano mutare tra un pensiero ostinato e disperato e una disillusa sfiducia. Solo a partire da questa consapevolezza l’uomo attraverso la poesia può spingere il proprio sguardo verso quelle che un altro grande poeta americano ha chiamato le "schegge del divino":
non cerchiamo
null’altro che la realtà. Dentro essa,
tutto, comprese le alchimie dello spirito,
compreso lo spirito che aggira
e attraversa, non solo il visibile,
il solido, ma il mobile, il momento,
l’avvicendarsi delle feste e i costumi dei santi,
l’ordito dei cieli e l’alta aria notturna

(da An Ordinary Evening in New Haven)

lunedì 10 giugno 2019

Il vento cambia
        di Wallace Stevens

Così cambia il vento.
Come i pensieri di un’anziana umana,
che ancora pensa intensamente,
disperatamente.
Il vento cambia così:
come un’umana senza illusioni,
che ancora sente l’irrazionale in lei.
Il vento cambia così:
come umani che s’avvicinano orgogliosi,
come umani che s’avvicinano rabbiosi.
Così cambia il vento:
Come un umano, pesante, pesante,
cui non importa niente.


Wallace Stevens è un poeta statunitense (Reading, Pennsylvania, 1879 - Hartford 1955). Dopo una laurea a Harvard e studi alla New York Law School, divenuto avvocato nel 1904, lavorò dal 1916 come legale di un'importante compagnia di assicurazioni di Hartford, della quale fu poi vicepresidente. L'esordio, in piena maturità, su riviste come Poetry e Trend, lo proiettò subito tra le voci più notevoli del movimento modernista, e la sua prima raccolta, Harmonium (1923; n. ed. 1931), rappresenta già un punto d'arrivo importante di una ricerca poetica in cui l'immaginazione e lo spessore metaforico del linguaggio occupano un ruolo assolutamente centrale. Nelle successive Ideas of order (1935) e The man with the blue guitar (1937), attraverso un linguaggio sempre più denso e astratto, S. approfondì la concezione della creatività come forma di conoscenza, vera e propria "religione della poesia" secondo la quale l'artista è in grado di vivificare il carattere immanente della realtà fino a giungere a un'opera di organizzazione del caos.  Tra le edizioni italiane sono da ricordare Mattino domenicale e altre poesie (1954), Il mondo come meditazione. Ultime poesie 1950-1955 (1986) e l'ampia silloge Harmonium. Poesie 1915-1955 (1954).

                                                                                                           da Enciclopedia Treccani on line



domenica 9 giugno 2019



Nobiltà di colui

che non deduce dai lampi

la vanità delle cose



Matsuo Bashō

... ma che cos'è questa conchiglia?


Nella poesia Rakovina (La conchiglia), scritta nel 1911, il poeta si paragona ad una conchiglia senza perle, gettata sulla riva della notte. Per entrare nel segreto del mondo interiore a cui essa può guidarci è da qui che bisogna partire: da questa precisa immagine, dalla forma che l'autore ha scelto perché noi provassimo a seguire i suoi passi. Cercare subito l'altro senso, il paradigma e l'allusione, l'analogia e la chiave dell'enigma ci porta lontani dalla immediata, necessaria, esperienza di questa immagine: una conchiglia vuota gettata sulla riva della notte. Gettata non deposta, gettata  come le cose che si dimenticano o di cui non si ha bisogno o che non ci interessano (forse non ti sono necessario), gettata come la vita a volte ci getta lì dove non saremmo mai voluti andare.
Scontrosa e impassibile è la notte a cui Osip Mandel’štam si rivolge; essa ora gonfia di schiuma le onde, ora canta scontrosa: due mondi che si toccano ma senza benevolenza alcuna, indifferenti l'uno all'altro. La conchiglia, con il suo guscio a spirale o dalla geometria frattale, solido, delineato da una forma immutabile e le acque della notte, fluide, mutevoli, prive di un volume proprio: ora ruggenti di schiuma ora risuonanti di una voce scontrosa.
In obbedienza ai principi del movimento acmeista, del quale fu uno dei massimi esponenti ed uno dei più lucidi teorici, Mandel’štam crede che vada rivalutato come positivo il carattere sostanzialmente inconoscibile nella realtà: bisogna guardare e accettare questo mondo nella sua totalità, positiva o negativa che sia. Non a caso a proposito di tale attitudine la poetessa Sofija Parnok ha parlato di «pathos della concretezza».
In questa prospettiva non siamo chiamati a decifrare il significato allegorico della riva della notte, anzi Mandel'stam ci invita a diffidare di questa strada. La riva della notte è il mondo/la vita e la sua natura è tutta in quella impassibilità con gui gonfia le onde e nel suo canto scontroso : questa è la sofferenza e allo stesso tempo la nuova forza del poeta acmeista: esistere e accettare interamente l’esistenza.
La conchiglia inutile non può decifrare i segreti della notte, ma nel momento in cui rinuncia a questa pretesa ecco che la vita si avvicina, si fa inseparabile. Solo allora la notte amerà la bugia dell'inutile conchiglia, se ne ammanterà come di un abito prezioso e sacro e soprattutto  la colmerà di schiuma che bisbiglia, / ricolmandola di nebbia, vento e pioggia.
Jean Giono ha saputo cogliere questo aspetto della ispirazione poetica quando scrive che l'uomo è come il fogliame attraverso il quale bisogna che passi il vento perché questo canti. 
Ecco schiudersi il miracolo dell'ispirazione poetica: il guscio di un cuore inabitato sarà riempito di un bisbiglio, di nebbia vento e pioggia. Risuonerà infine la notte del canto fragile dell'umile conchiglia e di tutto il suo amore per l'impermanenza delle cose, di tutto il suo desiderio della lontana eternità.

venerdì 7 giugno 2019

La conchiglia
        di Osip Mandel’štam


Forse non ti sono necessario,
notte; dalla voragine totale
simile a una conchiglia senza perle
sono stato gettato alla tua riva.

Di schiuma gonfi impassibile le onde,
canti scontrosa;
eppure l’amerai, l’apprezzerai,
la bugia dell’inutile conchiglia.

Le giacerai accanto sulla sabbia,
la indosserai come la tua pianeta,
tenacemente unite intreccerete
l’immensa campana delle increspature,

e le pareti della fragile conchiglia
come il guscio di un cuore inabitato
riempirai dei sussurri della schiuma,
di pioggia, nebbia, vento.

(traduzione di Serena Vitale)

Chi è Osip Mandel’štam?

Osip Ėmil’evič Mandel’štam (Varsavia, 15 gennaio 1891 – Vladivostok, 27 dicembre 1938) nasce a Varsavia da una benestante famiglia ebraica. Nel 1900 Mandel’štam si iscrive alla prestigiosa scuola Teniševskij, sul cui annuario, nel 1907, appare la sua prima poesia. Nel 1908 entra alla Sorbona di Parigi per studiare letteratura e filosofia, ma già l’anno seguente si trasferisce all’Università di Heidelberg e, nel 1911, a quella di San Pietroburgo. Nel 1911 aderisce alla «Gilda dei poeti», fondata da Nikolaj Gumilëv e da Sergej Gorodeckij, gruppo intorno al quale si svilupperà il movimento letterario dell’acmeismo di cui Mandel’štam, nel 1913, redige in gran parte il manifesto che verrà pubblicato nel 1919. Nello stesso anno appare la sua prima raccolta di poesie, Kamen’ (Pietra). Nel 1922 si trasferisce a Mosca con la moglie Nadežda, sposata l’anno precedente e pubblica la sua seconda raccolta, Tristia. Da questa data escono vari scritti di saggistica, critica letteraria, memorie: Il rumore del tempo e Fedosia, entrambe del 1925, e brevi testi in prosa, Il francobollo egiziano, del 1928. Nel 1933 pubblica una poesia contro Stalin, una sarcastica critica del regime comunista. Sei mesi più tardi viene arrestato una prima volta dal Nkvd, e inviato con la moglie al confino sugli Urali, a Čerdyn’. In seguito, dopo un suo tentativo di suicidio, la pena verrà attenuata in divieto di ingresso nelle grandi città e, con Nadežda, sceglie di stabilirsi a Voronež. Nel 1938 viene nuovamente arrestato. Condannato ai lavori forzati, è trasferito all’estremo oriente della Siberia dove muore a fine dicembre nel gulag di Vtoraja rečka, un campo di transito presso Vladivostok.

dal blog lombradelleparole.wordpress.com


giovedì 6 giugno 2019


L'attesa 

      di Raymond Carver

Esci dalla statale a sinistra e
scendi giù dal colle. Arrivato
in fondo, gira ancora a sinistra.
Continua sempre a sinistra. La strada
arriva a un bivio. Ancora a sinistra.
C’è un torrente, sulla sinistra.
Prosegui. Poco prima
della fine della strada incroci
un’altra strada. Prendi quella
e nessun’altra. Altrimenti
ti rovinerai la vita
per sempre. C’è una casa di tronchi
con il tetto di tavole, a sinistra.
Non è quella che cerchi. È quella
appresso, subito dopo
una salita. La casa
dove gli alberi sono carichi
di frutta. Dove flox, forsizia e calendula
crescono rigogliose. È quella
la casa dove, in piedi sulla soglia,
c’è una donna
con il sole nei capelli. Quella
che è rimasta in attesa
fino ad ora.
La donna che ti ama.
L’unica che può dirti:
“Come mai ci hai messo tanto?”

       Ho voluto che questo viaggio cominciasse non con le mia parole, ma con quelle di un poeta e con l'immagine di una felicità promessa, attesa e infine raggiunta.
Questa felicità possiede una natura particolare: è un destino prima di tutto e un ritorno. Per lei siamo nati e in funzione di lei viviamo o ci facciamo del male, quando ci allontaniamo da quella via, che svolta poco prima della fine della strada .
Dante ha colto con grande forza questo aspetto della felicità promessa, quando nel Paradiso scrive:

La provedenza, che cotanto assetta,
del suo lume fa ‘l ciel sempre quieto
nel qual si volge quel c’ha maggior fretta;                 

e ora lì, come a sito decreto,
cen porta la virtù di quella corda
che ciò che scocca drizza in segno lieto.

Siamo una freccia scoccata verso la pienezza della felicità, verso un lieto bersaglio. Quando Dante ha scritto queste parole era un esule, scacciato dalla sua terra, allontanato dai suoi affetti, costretto a salire e scendere le altrui scale. tutto ciò che aveva pensato della sua vita futura, i suoi progetti, le sua aspirazioni, tutto era stato cancellato dall'odiosa condanna di Firenze, la sua città...
E' anche una felicità che ci aspetta e ci conosce per nome, come la ragazza descritta da Carver, quella che abita la casa dove flox, forsizia e calendula crescono rigogliose. Quel posto è nostro, ci attende, ci aspetta,  è impaziente di ritrovarci.
Perché ci hai messo tanto chiede al viaggiatore la ragazza con il sole tra i capelli. Parole simili, più severe solo in apparenza, Beatrice le rivolge a Dante nel giardino dell'Eden:

non sapei tu che qui è l'uom felice?

Perché ci hai messo tanto?
Rischiamo di dimenticarla questa verità, usiamo bussole rotte e mappe sbagliate o, peggio ancora... pensiamo di non meritarla quella ragazza con il sole tra i capelli, mentre è lì che aspetta, subito dopo una salita.