Cerca nel blog

mercoledì 31 luglio 2019

In viaggio con Pessoa


La gioia è dell'attimo

Fernando Pessoa

Se io, ancor che nessuno,
potessi avere sul volto
quel lampo fugace
che quegli alberi hanno,
avrei quella gioia
delle cose al di fuori,
perché la gioia è dell’attimo;
dispare col sole che gela.
Qualunque cosa m’avrebbe meglio
giovato della vita che vivo –
vivere questa vita di estraneo
che da lui, dal sole, mi era venuta!
Viaggiare! Perdere paesi!
Essere altro costantemente,
non avere radici, per l’anima,
da vivere soltanto di vedere!
Neanche a me appartenere!
Andare avanti, andare dietro
l’assenza di avere un fine,
e l’ansia di conseguirlo!
Viaggiare così è viaggio.
Ma lo faccio e non ho di mio
più del sogno del passaggio.
Il resto è solo terra e cielo.

                          di Fernando Pessoa

lunedì 29 luglio 2019

Haiku n.5

Chi è un viaggiatore?



Brughiera:

dirigo il mio cavallo

dove cantano gli uccelli.


                                          di Matsuo Bashō

Cosa fa di un uomo o di una donna un viaggiatore? Non uno che si limita a traslocare il proprio corpo in un altro luogo, anche lontano, ma quel particolare tipo della specie umana che chiamiamo viaggiatore?
Innanzitutto saper leggere una mappa, che sia una carta stradale, la mappa di intricati vicoli della città vecchia, o la carta di un sentiero, senza questa speciale qualità siamo destinati al novero dei "traslocatori". Il viaggiatore infatti non deve dimenticare di essere innanzitutto un esploratore.

Bashō, che percorse per anni strade e contrade del Giappone, ci indica in questo suo componimento un altro requisito irrinunciabile. Per quanto si possano programmare bene le tappe, le spese, i luoghi da visitare, il vero viaggiatore è dotato di un istinto che lo porta ad esplorare o ad abbandonarsi al vagabondare verso qualcosa che da qualche parte richiama. Nella poesia Bashō spinge il cavallo verso il canto degli uccelli, probabilmente allontanandosi dalla sua meta, spinto da un'urgenza che non ha nome.
Un improvviso riverbero della luce o un suono inatteso ed ecco che prendiamo una strada sconosciuta, poco battuta, a tratti impervia ... 
l'inatteso diviene meraviglia.

sabato 27 luglio 2019

Dall'isola di Rodi

Dove comincia un viaggio?


Quando sulla mappa la matita fa un cerchio attorno ad un nome e una voce esclama: "qui!" o quando si chiude la porta di casa e il primo passo è mosso lungo una strada che nessuno può sapere dove porterà?
A volte il viaggio comincia con un rammemorare...

Il mio viaggio è cominciato con Pindaro.

Pindaro VII Olimpica

Per Diagoras di Rodi, pugile


Come chi da mano generosa un calice
ribollente di rugiada di vite
in dono porga
al giovane sposo - e l’alzava brindando
da casa a casa massiccio d’oro, vertice dei beni:
lo splendore della festa
 e il genero onora, tra gli amici
presenti lo fa invidiato per nozze concordi -,
anch’io nettare distillato, omaggio delle Muse,
ai vincitori invio dolce frutto della mente,
e m’ingrazio
chi in Olimpia e in Pito
 prevalse. Felice chi parole di lode avvolgono:
ora l’uno ora l’altro protegge
 la Grazia feconda, spesso,
con cetra soave e flauto di mille voci.
Ed ecco al suono d’entrambi
 io con Diagóras venni, a cantare
la figlia marina d’Aphrodíte,
 Rhódos sposa del Sole:
e che il gigante dritto allo scontro,
 l’uomo incoronato sull’Alpheiós
e a Kastalía
io lodi in premio alla lotta, e con lui
 il padre Damágetos caro a Díke!
Vicino al rostro dell’Asia immensa un’isola
di tre città abitano con lancieri argivi.
Dall’inizio per essi, da Tlapólemos,
come pubblico bando volentieri io drizzo
una storia comune a loro,
stirpe possente di Heraklês. Ché Zeus
 vantano padre e sono per via materna
Amyntorídai da Astydámeia.
 Ma le menti degli uomini errori
infiniti assediano; né è dato trovare
ciò ch’è meglio per noi oggi e così alla fine.
In Tirinto infatti il fratello spurio
di Alkména,
Likýmnios giunto dal talamo di Midéa,
 colpì con mazza di duro olivo un giorno,
e l’uccise, il fondatore di questa
terra, irato: i sussulti dell’anima
travolgono anche il saggio. E venne a sondare il dio.
E a lui il Chiomadoro
 dal santurario odoroso disse uno stuolo
di navi dal lido lernèo
 dritto alla dimora cinta dal mare,
dove un tempo il re degli dèi inondava
 di aurei fiocchi la città,
e per l’arte di Héphaistos
con scure forgiata nel bronzo
 Atena sul capo del padre
balzando urlò con voce strapotente.
Ne tremarono il Cielo e la Terra madre.
Allora il dio Hyperionídes, luce ai mortali,
prescrisse ai figli d’adempiere
un dovere imminente:
primi alla dea ponessero
 un altare cospicuo e sacro rito facendo
scaldassero il cuore al padre
 e alla figlia lancia di tuono. Efficacia
e gioie largisce all’uomo la cautela del preveggente.
Ma cala non vista una nube d’oblio
e svia dalla mente il dritto
corso delle cose.
Perché salirono sì, ma non con seme
 di fiamma ardente: E con spenti sacrificî
fondarono il tempio sulla rocca.
 Una nuvola bionda gli addusse,
piovve abbondante oro: accordò la Glaukôpis
che in ogni arte valessero
 con mani eccellenti sui mortali.
Le vie recavano opere
 pari a viventi in cammino,
e fu alta la gloria. Nell’abile anche un’arte
 superiore si mostra onesta.
Dicono antiche storie
degli uomini che, quando la terra
 spartirono Zeus e gli dèi immortali,
invisibile ancora sul liscio mare Rodi
giaceva occulta in abissi salmastri.
Assente lui, di Hélios nessuno indicò la parte:
senza retaggio di terra lasciarono
il puro dio.
Al suo rimbrotto Zeus già estraeva le sorti
 di nuovo. S’oppose il Sole: vedeva,
disse, dentro le grigie acque
 dal fondo crescere un suolo,
terra feconda agli uomini, benigna alle greggi.
Súbito, ingiunge, Láchesis cinta d’oro
stenda le mani e proclami franco il giuramento
grande dei numi,
e col figlio di Krónos accenni:
 sarà suo quel dono per sempre
emerso nell’aria luminosa.
 Si compì il culmine delle parole
accadendo in realtà: sbocciò dal mare umido
l’isola, e la governa il padre
 principio di raggi appuntiti,
signore di cavalli soffianti fuoco.
 Là si congiunse a Rhódos e generò
sette figli dotati dei pensieri
 più destri tra gli uomini
di tempo remoto. Uno di loro Kámiros
generò e Iálysos il maggiore
 e Líndos; ebbe per sé ognuno,
tripartita la terra paterna,
appannaggio di città, sedi dai loro nomi.
Dolce compenso a sciagura pietosa
sta per Tlapólemos guida dei Tirintî -
destino eroico -
una processione pingue d’armenti
 e il giudizio nei premî. Quei fiori Diagóras
cinse due volte, e quattro
 sull’Istmo famoso vincendo,
e a Nemea una volta e un’altra, e in Atene rocciosa.
Lo conobbero il bronzo di Argo e i premî
in Arcadia e a Tebe e le cadenze festive
dei Beoti,
e Pellene: in Egina vinse
 sei volte né altro conto ha in Megara
la stele di pietra. E dunque,
 Zeus padre che regni sui gioghi
dell’Atabýrion, accresci il canto di rito al trionfo
olimpico e l’uomo che pugilando
 incontrò il successo. Dagli favore
e rispetto fra cittadini e stranieri.
 Perché una via nemica d’arroganza
percorre sicuro, ben sa cosa l’animo fermo
 gli insegna da nobili
padri. Non oscurare il seme
comune di Kalliánax:
 con le gioie degli Eratídai ha
anche la città una festa. In un unico istante
ondeggiano venti diversi veloci di qua e di là.

Nella poesia di Pindaro non è agevole addentrarsi per il lettore moderno: non solo per la lingua densa di immagini e espressioni omeriche e di rimandi al mito, che, evocato di continuo, si nasconde e torna a riaffiorare, spesso con salti arditi. Certo anche la profonda discontinuità che separa la nostra visione del mondo da quella della Grecia arcaica, l'orizzonte e la fonte di ispirazione del poeta di Cinocefale, contribuisce ad approfondire la sensazione di una distanza forse incolmabile.

C'è qualcosa di più.

Pindaro è noto soprattutto come poeta di epinici (poesie scritte per elogiare il vincitore di una gara, di una battaglia, ecc.), una poesia su commissione e ben remunerata, poco rispondente alla moderna concezione del poetico come ispirazione libera e priva da ogni vincolo di interesse, puro fluire della soggettività dell'autore.

Appena ci soffermiamo a contemplare il mondo interiore della Grecia arcaica, tuttavia, l'impressione di una poesia per così dire 'cortigiana' è destinata a dissolversi.

I Greci avevano elaborato una loro particolare etica, fondata sull'accettazione della morte come segno distintivo dell'umano: gli uomini non esistono se non come mortali (del resto thnetoi - mortali - è il nome comune usato in greco per indicare la stirpe degli uomini). La morte dunque è il limite che definisce allo stesso tempo le possibilità  e il confine entro i quali si svolge l'esperienza della vita.
 L'aldilà è di questa solo una pallida e triste imitazione, una umbratile sopravvivenza malinconica.

Questa profonda consapevolezza suscita nella Grecia arcaica un ammirevole amore per la vita, per l'inesausta tensione verso la perfezione del gesto dell'atleta, verso la gloria dell'azione eroica del guerriero, verso l'armonia dell'opera d'arte. Nella composta meditazione sulla precarietà della vita umana, che riluce nello spazio breve della bellezza della gioventù, l'uomo greco non cerca consolazioni né si compiace del rimpianto.

L'atleta, il guerriero, il poeta trovano nella vittoria il sigillo della propria presenza nel mondo, all'inevitabile trascorrere delle cose essi oppongono un gesto - l'incoronazione con le foglie di alloro - che riscatta tutte le fatiche, tutto il sudore, tutte le ferite e le sofferenze, persino la sventura che sempre incombe sulle sorti dell'uomo.

Accanto al gesto di porre sul capo del vincitore una corona ve n'è un altro senza il quale quanto abbiamo ora descritto rimarrebbe solo un evento felice come altri che capitano nelle vite dei mortali: il canto del poeta.

Se infatti l'incoronazione eleva il vincitore ad un rango quasi divino, sottraendolo alla sua evanescenza, solo la parola del poeta, intessendo le vicende umane a quelle degli dei e ai racconti del mito, fa sì che questa celebrazione, rigorosamente scandita dal ritmo dei versi cantati dal coro, diventi infine memoria collettiva, patrimonio pubblico, esemplare ammonimento per gli uomini tutti.

L'arte del poeta in tal modo gareggia anch'essa una sua
commovente e drammatica lotta per gettare una luce folgorante sulla bellezza effimera delle imprese dei mortali.

La poesia dunque contende con la morte stessa.


lunedì 22 luglio 2019

TIME ... Thought I’d something more to say





Scorrono via i momenti che rendono un giorno noioso
Sciupi e sprechi le ore in modo insolito
Tirando calci a un pezzo di terra nella tua città natale
Aspettando qualcuno o qualcosa che ti mostri la via.

Stanco di vivere al sole, resti a casa a guardare la pioggia
Sei giovane e la vita è lunga e c’è tempo da ammazzare oggi
E poi un giorno scopri che ti sei lasciato dietro dieci anni
Nessuno ti ha detto quando correre, hai perso lo sparo di partenza.

E' la traduzione del testo di Time, una canzone dei Pink Floyd scritta da Roger Waters e contenuta nell'album The Dark Side of the Moon (se volete sentirla in versione 'remastered' mentre leggete queste righe eccola qui https://www.youtube.com/watch?v=JwYX52BP2Sk  e non dimenticate di usare un buon paio di cuffie).

Non ci siamo forse noi in queste parole? Noi che misuriamo il tempo con le date del calendario? Il primo giorno di ferie, il compleanno dell'amico, l'ultimo appello della sessione estiva. Un elenco che potrebbe allungarsi con facilità, un pi greco dell'umano sforzo di "segnare" il tempo. Che ne sappiamo noi del "silenzioso cuore del non-tempo" di cui ha parlato Mario Polia a proposito dello haiku di Onitsura?


Ogni poeta che abbia scelto di percorrere la linea d'ombra, che corre tra le cose che ci sono attorno e la nostra esperienza di esse, ci invita a passare - per usare un'espressione di Cristina Campo - dalla vista alla percezione. C'è infatti uno sguardo di tutti i giorni, utile e necessario nelle faccende di tutti i giorni: è lo sguardo che pesa, misura, definisce tempi e spazi; fa bilanci, mette in ordine, classifica, distingue, a volte elimina oppure compra. Ciò che chiamiamo vista è ciò che si usa nelle relazioni di lavoro, tra conoscenti e vicini di casa. Tale senso agisce essenzialmente attraverso un meccanismo di 'riduzione' dell'ignoto (nel tempo e nello spazio) al fruibile. Non è usato tale termine nell'accezione meramente negativa di manipolazione o di appropriazione utilitaristica, in quanto l'orientamento nel tempo e nello spazio è una capacità fondamentale non solo per la sopravvivenza, ma anche per poter agire ed esercitare un accettabile livello di libertà.

La riduzione che la vista opera dell'ignoto al fruibile presuppone tuttavia il rischio della perdita, a volte dello smarrimento, fino alla dissipazione. Ciò è in particolare evidenza nel celebre carme in cui Orazio invita al carpe diem a cogliere l'attimo propizio, poiché il tempo è un invida aetas, un essere invidioso ed ostile, qualcuno di cui non ci si può fidare. A volte non dipende nemmeno da noi, il tempo fugge e inganna, come la canzone Time dei Pink Floyd mostra molto bene.

 Come allora  afferrare il punto di intersezione tra l’eterno e il tempo? E' davvero possibile tenere insieme il primo giorno dell'anno, quello in cui tutto è possibile perché tutto comincia, e il vento che da mille anni spira tra i pini? Come passare dunque dalla vista  alla percezione ?

Dobbiamo seguire il personaggio di Dante smarritosi nella selva oscura, per cogliere nitidamente tale differenza: è di certo grazie alla vista che l'exul immeritus può muoversi nella selva selvaggia orientandosi nei suoi meandri tortuosi e aspri: scorge un colle le cui balze gli appaiono vestite già de’ raggi del pianeta/che mena dritto altrui per ogne calle e verso quel colle muove i suoi passi con lena affanata. Avverte l'alba incipiente, quando il sole si appresta a scacciare le tenebre, decifra il dileguarsi dell'oscurità e il lento, ancora incerto,  avanzare della luce. Finché è dentro la selva la vista è ciò che gli serve, ciò che lo fa sopravvivere. Ma non basta.

Temp’era dal principio del mattino, 
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle 
ch’eran con lui quando l’amor divino 
       mosse di prima quelle cose belle; 

Su quel preciso momento dell'anno (la notte del Venerdì Santo, la notte della apparente sconfitta del Bene, in cui nulla ha significato) e su quell'ora indimenticata in cui tutto è in gioco si sofferma ora la mente del Dante narratore, dopo che è tornato dal suo viaggio attraverso i tre regni. E' lui che con sguardo ormai diverso percepisce, ricorda e vuole dircelo ... che in quella notte il sole si trovava in compagnia di quelle stelle/ch’eran con lui quando l’amor divino/mosse di prima quelle cose belle, ovvero quando le stelle si trovavano nella stessa posizione in cui erano quando, agli inizi dei tempi, Dio aveva creato l'Universo. L'inizio del viaggio di Dante è in consonanza con l'inizio della vita stessa; la energia irradiata in quel momento, in cui la Natura stessa non era ancora, è la stessa che ora si riverbera nel Cosmo per il suo viaggio. Entrambe le vicende sono guidate da un identico principio di amore che con la stessa intensità ha a cuore il dispiegarsi dell'Universo e la salvezza del poeta.

Ecco, la percezione nasce dall'essersi messo in viaggio e sopratutto dall'aver creduto ad un poeta come lui, Virgilio, l'amato maestro, la cui voce lo ha guidato al sentimento che la propria storia, il proprio tempo non è solo la notte oscura


Quanto ad afferrare il punto di intersezione tra l’eterno e il tempo,

si tratta di un’occupazione da santo,

non tanto un’occupazione ma qualcosa che è donato e ricevuto,

in un morire d’amore durante la vita,

nell’ardore, nell’abnegazione e nell’abbandono di sé.


                         Thomas S. Eliot, da: Quattro Quartetti



domenica 21 luglio 2019

Haiku n.4

di Uejima Onitsura (1660-1738)


Primo giorno dell'anno


un vento di mille anni fa


soffia tra i pini


Ô–ashita
mukashi fukinishi
matsu no kaze


In quasi tutti gli Haiku vi è un kigo, una determinazione precisa della stagione o della parte del giorno in cui al poeta si manifesta la scena che si ferma ad osservare.
In questo haiku il kigo è costituito dalla parola ô-ashita: lett. “grande giorno”, il capodanno giapponese.
Lasciamo la parola a Mario Polia (studioso di antropologia religiosa, etnografo e archeologo) per il commento a quest'altro capolavoro della poesia giapponese.
"Un nuovo anno inizia secondo il calendario degli uomini, ma il vento che oggi soffia tra i pini è lo stesso che vide nascere il mondo e lo vedrà morire.
Il tempo dell’esistenza si compie d’accordo alla durata d’ognuna di esse e secondo la percezione che ogni esistenza ha del proprio tempo.
Il tempo, ogni tempo, tuttavia, inizia e termina nel silenzioso cuore del non-tempo, così come appaiono e scompaiono le onde, o le bolle d’aria, sulla superficie del mare (https://www.musubi.it/it/biblioteca/haiku/383-matsu-kaze?showall=1)".


venerdì 19 luglio 2019

Viviamo vite instabili


  


A passeggio con te

                                                                                                      di Mark Strand


Priva dell'arguzia e della profondità
propria dei paesaggi
luminosi dei nostri sogni,
questa campagna
che percorriamo a piedi
non è meno bella per il fatto
che è solo ciò che sembra essere.
Innalzandosi dallo stagno
tinto della propria ombra,
l'albero a cui ci appoggiamo
non è mai stato inteso perché posasse
per qualcos'altro,
tanto meno per noi.
Né questi campi
e fossi erano stati progettati
con noi in mente.
Viviamo vite instabili
e restiamo in un certo posto
solo quanto basta a renderci conto
che non gli apparteniamo.
Perfino le nuvole, che si fermano
silenziose sopra di noi
sono nebulose pur senza
assomigliarci, e assalendo
l'aria vuota,
non prendono in considerazione
la nostra solitudine attuale.
Ma poi, perché dovrebbe importarci?
Ce ne stiamo già andando,
come a dire:
noi non siamo qui
noi siamo sempre stati lontani.

Due persone che percorrono a piedi una campagna: uno stagno, un albero, dei campi, sopra di loro nubi silenziose. Questo scorcio di natura non ha nessuna delle qualità che hanno i paesaggi luminosi che ci appaiono in sogno.
Solo uno stagno, un albero, dei campi, né per questo sono meno belli. Sono belli per quel che sono.
Non sono stati pensati per noi, né progettati in funzione nostra, non ci assomigliano - dice l'io lirico che qui parla al plurale - e noi non apparteniamo a loro.

Poi il verso bellissimo, essenziale, una sententiaViviamo vite instabili

All'uomo appartiene l'instabilità, l'effimera bellezza di una stagione che trascorre, l'ombra fugace sul volto che d'un tratto non è più quello conosciuto, il perduto vigore delle gambe aduse alle vette più ardite. Propria dell'uomo è l'incertezza e l'inquietudine.
Anche in questa poesia di Mark Strand tuttavia non dovremmo fare l'errore di concentrarci sulle ombre che le cose proiettano. Certo, non apparteniamo a quella sfera dell'essere a cui appartengono lo stagno, l'albero, i campi, persino le mutevoli nuvole.  Sarebbe solo illusione consolatoria il pensarlo.

Noi non siamo qui... noi siamo sempre stati lontani

Alla sostanziale estraneità dell'uomo rispetto al mondo Strand non intende lasciare l'ultima parola; in questo senso va inteso ciò che ha scritto Caterina Ricciardi,  secondo cui l'intento del poeta sarebbe "quello di inter­ro­gare entità inco­no­sci­bili, aprire porte proi­bite, come fecero altri in altri tempi e con altre alle­go­rie, e altri intenti, incluso quello di ritor­nare a rive­dere la luce" ("il Manifesto, 15/06/2014, "Mark Strand: aspetta, silenzio").

Se lo stagno, l'albero, i campi, le nuvole in cui si muovono i protagonisti della poesia appaiono del tutto insensibili al destino dei due viandanti e la voce dell'io lirico rimarca il fatto che condizione naturale e immutabile dell'uomo è l'essere lontani, proprio lungo quel confine incerto tra i due mondi, traversando quello spazio indicibile della linea d'ombra, lungo il meridiano zero dell'esistenza, proprio là deve incamminarsi il poeta.

martedì 16 luglio 2019

a tutti quelli che sognano di fuggire all'alba, verso le colline e a quei pochi, coraggiosi, che lo fanno davvero...





Group of Dock Workers Having Lunch by the Cuyahoga River in Cleveland, Ohio



Esterno 

                                                                                                        di Cesare Pavese


Quel ragazzo scomparso al mattino, non torna.
Ha lasciato la pala, ancor fredda, all'uncino 
- era l'alba - nessuno ha voluto seguirlo: 
si è buttato su certe colline. Un ragazzo 
dell'età che comincia a staccare bestemmie 
non sa fare discorsi. Nessuno
ha voluto seguirlo. Era un'alba bruciata 
di febbraio, ogni tronco colore del sangue 
aggrumato. Nessuno sentiva nell'aria
il tepore futuro.
                   Il mattino è trascorso
e la fabbrica libera donne e operai.
Nel bel sole, qualcuno - il lavoro riprende 
fra mezz'ora - si stende a mangiare affamato. 
Ma c'è un umido dolce che morde nel sangue 
e alla terra dà brividi verdi. Si fuma
e si vede che il cielo è sereno, e lontano 
le colline son viola. Varrebbe la pena
di restarsene lunghi per terra nel sole.
Ma buon conto si mangia. Chissà se ha mangiato quel 
ragazzo testardo? Dice un secco operaio,
che, va bene, la schiena si rompe al lavoro,
ma mangiare si mangia. Si fuma persino.
L'uomo è come una bestia, che vorrebbe far niente. 

Son le bestie che sentono il tempo, e il ragazzo 
l'ha sentito all'alba. E ci sono dei cani
che finiscono marci in un fosso. La terra 
prende tutto. Chi sa se il ragazzo finisce 
dentro un fosso affamato? E' scappato nell'alba 
senza fare discorsi, con quattro bestemmie, 
alto il naso nell'aria.
                                   Ci pensano tutti
aspettando il lavoro, come un gregge svogliato.


La poesia di Cesare Pavese, Esterno è tratta dalla raccolta Lavorare stanca; il titolo allude probabilmente alla condizione altra, 'esterna'  del ragazzo rispetto a un mondo in cui la schiena si rompe al lavoro,/ma mangiare si mangia . In tale prospettiva essa illumina pienamente anche il titolo dell’intera raccolta, in cui il lavoro è visto come insieme di rapporti umani caratterizzati dalla legge dello sfruttamento economico e della  necessità. 

In un mattino di febbraio un ragazzo scompare, appende il suo attrezzo ad  un gancio sul muro e si avvia da solo verso le colline, orgoglioso, alto il naso nell'aria, senza fare troppi discorsi. Nessuno ha voluto seguirlo, nessuno ha sentito in quel freddo mattino il tepore futuro della primavera che viene.

E' l'ora di pranzo. gli operai consumano il loro pasto, mangiano il pane che è frutto della schiena rotta dalla fatica; è un piccolo attimo di libertà in una situazione in cui, per il poeta, evidentemente, non si è liberi: la fabbrica libera donne e operai.

Il pensiero di tutti va a quel ragazzo che ha sentito un richiamo al quale non sa resistere:c'è un umido dolce che morde nel sangue/e alla terra dà brividi verdi. Si fanno domande gli operai sulla sorte a cui potrà andare incontro il fuggitivo, ma il pensiero ritorna al lavoro necessario, a quello che darà loro il pane per i propri figli: come un gregge svogliato gli operai attendono di ricominciare. Il corpo, la fatica, l'umiliazione è quello che oggi si prenderà la fabbrica, non il cuore, quello viaggia con il ragazzo che si è buttato verso le colline...

Quello che mi piace di questa poesia è che lo stesso sguardo, composto e benevolo abbraccia il coraggio del giovane che sceglie di buttarsi verso le colline e gli operai che rimangono prigionieri del loro lavoro opprimente.

Tutti sono  coinvolti nella dolorosa esperienza del mestiere di vivere...



lunedì 15 luglio 2019

Ci sono al mondo esseri superflui





Ci sono al mondo esseri superflui,

creature in più, aggiunte senza peso.

(Assenti dagli elenchi e dai prontuari,

inquilini dei pozzi più neri.)


Ci sono al mondo esseri cavi, esseri presi

a spinte, muti: letame

e chiodo per gli strascichi di seta.

Ripugnano anche al fango delle ruote.


Ci sono al mondo diafani, invisibili:

(screziati dal marchio della lebbra!)

Ci sono Giobbe, che potrebbero invidiare

Giobbe… ma ai poeti, a noi poeti,


noi paria e pari a Dio –

è dato, straripando dalle rive,

rotti gli argini, rubare

anche le vergini agli dèi.


22 aprile 1923

                                                                                       di  Marina Cvetaeva



sabato 13 luglio 2019

Un cacciatore di ombre



UN ALTRO POSTO

                                                                                                di Mark Strand

Cammino
nel poco di luce
che c'è

insufficiente sia alla cecità
che al veder chiaro
ciò che verrà

eppure vedo
l'acqua
l'unica barca
l'uomo in piedi

non è uno che conosco

questo è un altro posto
il poco di luce che c'è
s'apre come una rete
sul nulla

ciò che verrà
è arrivato a questo punto
altre volte

questo è lo specchio
in cui dorme il dolore
questo è il paese
dove non viene più nessuno

                                                     
C'è un io che parla in questa poesia - quelli bravi lo chiamano l'io lirico - e questo io ci dice che cammina in un poco di luce che non è cecità, ma neppure un veder chiaro/ciò che verrà . Eppure qualcosa vede, ci assicura l'io lirico: non vede tutto ciò che lo circonda, non vede quel che verrà, ma qualcosa vede.

Una distesa d'acqua, una barca solitaria, un uomo in piedi, sconosciuto.

L'immagine è precisa, levigata, essenziale, come spesso accade nelle poesie di Strand, che diffida delle parole linguisticamente incerte o elusive. Ciò che nella luce fioca è percepito viene restituito con tutta la precisione possibile.

Questo - tuttavia - è un altro posto. Non è la strada che facciamo per andare a lavoro, non il letto dove abbracciamo la sposa al mattino, non la vetrina su cui indugia lo sguardo, non il caffè dove ci raggiunge il vociare confuso di volti sconosciuti o il sorriso sperato dell'amica attesa. Secondo quanto Mark Strand stesso ha scritto «Da qui sgorga la poesia: abitiamo in un posto / che non è nostro, e, soprattutto, non è noi»

 La poca luce che in questo luogo si diffonde  s'apre come una rete/sul nulla. Di fronte a questi versi conviene fermarci, perché sono come un precipitato di energia: la luce si apre come una rete sul nulla... L'immagine, ancora una volta, appare nitida, precisa, anche se il significato - certo - risulta meno chiaro, richiede uno sforzo intenso, un cambio di passo. La luce fioca prova ad abbracciare la realtà, come una rete gettata nell'acqua per prendere dei pesci, ma è sul nulla che essa si apre...

Non si deve pensare qui ad un esito nichilistico della poesia. Luigi Sanpietro in un articolo apparso su Il Sole 24 ore ha definito Strand  come "un cacciatore di ombre" Un cacciatore di "ciò che presuppone un corpo, cioè una sostanza. È un detective metafisico che si sofferma sulle tracce di chi – o di ciò – che ora, qui, è assente e non si vede, ma che deve pur esserci o esserci stato". (https://st.ilsole24ore.com/art/cultura/2011-07-17/cacciatore-ombre-165630.shtml?uuid=AaQipvoD).
Egli  si muove piuttosto  verso una sorta di certezza nei confronti delle cose invisibili, che però in luogo di apparire negativa – il nulla alla fine di tutto – è invece protesa a sporgersi sul confine oltre il quale devono arrestarsi la voce e lo sguardo. Nella intuizione tuttavia che le ombre possano essere la proiezione, il presupposto di qualcosa che rimane.

Nell'ultima strofa, che si compone di quattro versi di straordinaria intensità espressiva, un aspetto apparentemente paradossale viene in evidenza. Questo luogo altro, questo luogo di confine, è specchio/in cui dorme il dolore. Il dolore non scompare, non è riscattato, non lo si può obliare, ma dorme, come sopito, senza più imprimere il proprio sigillo sui corpi degli uomini, ma pur sempre parte del tutto. L'altro posto,  l'altrove, in cui siamo capitati, non a caso, è uno specchio... il luogo dove all'uomo è dato ri-conoscersi.

Eppure... questo posto altro è anche il paese dove non viene più nessuno...

giovedì 11 luglio 2019

Haiku n.3





è primavera:

una collina che non ha nome

velata nel mattino

                                                                      
                                                                                   di Matsuo  Bashō (1644-1694)
                                                                                       

E poi? 

Spesso la reazione del lettore occidentale di fronte a uno haiku è più o meno questa. Non appena questo coglie l'immagine al centro delle diciassette sillabe che la compongono, la poesia si congeda da lui, lo abbandona veloce, lasciando un senso di incertezza se non di insoddisfazione. Dov'è la storia? si chiede il nostro lettore interdetto da una brevitas che sembra non mantenere ciò che promette.

In un precedente post dicevo che negli haiku non c'è mai  descrizione, piuttosto osserviamo - come dice  Elena Dal Pra - il cristallizzarsi, il coagularsi di un intuizione estetica, possibile solo a patto che il soggetto riesca a scomparire per lasciare tutto il posto all'oggetto, all'evento che diventa quasi un "correlativo oggettivo" nipponico, un 'espressione immediata e disinteressata che "non descrive, non declama, non giudica e non spiega, ma solamente presenta un'immagine...". Un frammento della storia del mondo colto nell'attimo del suo realizzarsi, indipendentemente dalla condizione o dalla prospettiva del soggetto.

Eccoci allo haiku di oggi: siamo di fronte ad un momento preciso della ruota delle stagioni, la primavera, con tutto quello che ciò comporta in termini di colori, di profumi, di fragranza dell'aria, del trascorrere inarrestabile del tempo. Il poeta dice semplicemente è primavera, poiché nell'estrema parsimonia verbale di questo genere di poesia l'indicazione del tempo ha - secondo la felice espressione di un valido studioso come Kennet Yesuda - la stessa funzione che ha la luce nella pittura espressionista. Lo svolgersi del tempo ci invita ad entrare nell'irripetibile fluire della vita.

Una visione di seguito ci appare: una collina senza nome, un luogo indefinito, che non possiamo rivendicare, fare nostro come facciamo con tutto ciò che ha un nome. Non diamo forse nomi a ciò con cui entriamo in relazione? Un cucciolo di cane è soltanto una delle tante varianti della biologia finché non gli viene dato un nome. Lo stesso accade con i luoghi della nostra memoria, quelli che identifichiamo come momenti importanti della nostra esistenza: per me, ad esempio, sono l'alba sulle colline della Galizia, il sole che riluce sulle pietre di Dùn Aengus, le rive del fiume Uebi Scebeli.

una collina senza nome ... l'immagine definisce invece i confini di uno spazio che non deve essere contaminato da alcuna emozione personale, né da alcuno sforzo di  logica concettuale, quella con cui attribuiamo identità assolute alle cose intorno a noi: quelle colline, quel riflesso del sole, le acque di quel fiume.

Nella visione del Buddismo  Zen tutto è mutamento, perché tutto è in perpetuo cambiamento. Una cosa non resta la stessa durante due attimi consecutivi e poiché le cose si trasformano di continuo esse non possono mantenere la propria identità assoluta. La cose nel tempo sono momentanee; nello spazio sono sprovviste di identità assoluta. Allo stesso modo le cose sono dinamiche e vive mentre i nostri concetti sono statici e poveri. Il mondo dei concetti è diverso dal mondo della realtà in sé  che si può conoscere solo per esperienza diretta. Ciò è chiamato saggezza non-immaginativa, una forma di conoscenza che nasce dalla meditazione, nella quale non si distingue l'oggetto dal soggetto: raggiungere la verità significa risvegliarsi nel seno della realtà (Thich Nhat Hanh, Introduzione allo Zen).

Nello Haiku di Bashō  la collina senza nome è poi descritta come velata nel mattino. La vista è offuscata dalla bruma del mattino, qualcosa si sottrae alla nostra pretesa di misurare e definire lo spazio. Qualcosa nell'indefinito chiarore del mattino sfugge all'esigenza tipicamente umana di descrivere il mondo per concetti e definizioni, lasciandoci in una salutare inquietudine. Si apre in questo modo la possibilità  di vedere qualcosa di universale e immutabile dietro a ciò che la parola e la logica non possono esprimere.

I Giapponesi a questo riguardo usano il termine yugen (幽玄) che può essere tradotto come “leggermente scuro”, ma ricopre una più ampia gamma di significati. Non serve infatti solo a descrivere il fascino delle cose in penombra di cui non riusciamo a conoscere del tutto i limiti ed i particolari, ma si usa anche per indicare ciò che, essendo oscuro, è insondabile, misterioso ed imperscrutabile, al di là dell’umana comprensione(http://www.sesshutoyo.com/…/estetica…/wabi-sabi-aware-yugen/).
Un paesaggio, un’opera d’arte, persino l'espressione improvvisa di un volto, ci trasmettono yugen quando riusciamo a cogliere in esse un bagliore, un’impressione che per un attimo, al di là delle capacità del linguaggio, sembri rivelarci un varco nel mistero dell’universo.


martedì 9 luglio 2019

Troiani di Costantino Kavafis


Troiani


Sono, gli sforzi di noi sventurati,
sono, gli sforzi nostri, gli sforzi dei Troiani.
Qualche successo, qualche fiducioso
impegno; ed ecco, incominciamo
a prendere coraggio, a nutrire speranze.

Ma qualche cosa spunta sempre, e ci ferma.
Spunta Achille di fronte a noi sul fossato
e con le grida enormi ci spaura.

Sono, gli sforzi nostri, gli sforzi dei Troiani.
Crediamo che la nostra decisione e l'ardire
muteranno una sorte di rovina.
E stiamo fuori, in campo, per lottare.

Poi, come giunge l'attimo supremo,
ardire e decisione se ne vanno:
l'anima nostra si sconvolge, e manca;
e tutt'intorno alle mura corriamo,
cercando nella fuga scampo.

La nostra fine è certa. Lassù,
sulle mura, già è iniziato il lamento funebre.
Dei nostri giorni piangono memorie, sentimenti.
Pianto amaro di Priamo e d'Ecuba su noi.

                                                                                                               di Costantino Kavafis


Parla di noi questa poesia, dei nostri giorni e delle nostre speranze. Come sulla piana di Troia anche oggi divampano - seppure per un attimo - il coraggio e la fiducia, poi si spengono e sopraggiunge il freddo sconforto. Kavafis nei suoi versi ha colto molto bene la grandezza dell'Iliade, in cui la miseria di tutti è espressa senza dissimulazione né disdegno e "tutto ciò che è distrutto -scrive Simone Weil - è rimpianto".
Come i Troiani, tuttavia, non possiamo rimanere a guardare indifferenti dalle alte mura, bevendo alla coppa del cinico.

 stiamo fuori, in campo, per lottare...

Come se dipendesse da noi stornare una sventura già scritta.

E' vero, sovente la vita prende le sembianze di Achille massacratore e risuonano i nostri tempi come le sue grida che gelano il cuore. Tra sconfitte, delusioni, ferite ci muoviamo anche noi, a volte come chi saltella nel fango, evitando le carrozze, attraverso quel mobile caos dove la morte arriva galoppando da tutte le parti. Vacilleranno alcuni, nella fuga altri cercheranno scampo e qualcuno anche, saldo sui piedi, restituirà colpo su colpo, almeno per un po'...

Non è questo che fa la differenza.

Non è questo che ricorderanno gli aedi e i poeti

Sono quelli che uscirono in campo, lasciandosi dietro le ampie porte Scee: quelli siano i nostri maestri.


Nota sulla traduzione: ho seguito la traduzione di Filippo Maria Pontani, tranne al secondo verso dell'ultima strofa dove ho preferito tradurre l'originale ο θρήνος come "lamento funebre".






domenica 7 luglio 2019

Amore a prima vista

                                                                                                             grazie Francesca  ...

Amore a prima vista


Sono entrambi convinti
che un sentimento improvviso li unì.
E’ bella una tale certezza
ma l’incertezza è più bella.

Non conoscendosi prima, credono
che non sia mai successo nulla fra loro.
Ma che ne pensano le strade, le scale, i corridoi
dove da tempo potevano incrociarsi?

Vorrei chiedere loro
se non ricordano –
una volta un faccia a faccia
forse in una porta girevole?
uno “scusi” nella ressa?
un “ha sbagliato numero” nella cornetta?
– ma conosco la risposta.
No, non ricordano.

Li stupirebbe molto sapere
che già da parecchio
il caso stava giocando con loro.

Non ancora del tutto pronto
a mutarsi per loro in destino,
li avvicinava, li allontanava,
gli tagliava la strada
e soffocando un risolino
si scansava con un salto.

Vi furono segni, segnali,
che importa se indecifrabili.
Forse tre anni fa
o il martedì scorso
una fogliolina volò via
da una spalla all’altra?
Qualcosa fu perduto e qualcosa raccolto.
Chissà, era forse la palla
tra i cespugli dell’infanzia?

Vi furono maniglie e campanelli
in cui anzitempo
un tocco si posava sopra un tocco.
Valigie accostate nel deposito bagagli.
Una notte, forse, lo stesso sogno,
subito confuso al risveglio.

Ogni inizio infatti
è solo un seguito
e il libro degli eventi
è sempre aperto a metà.

Wisława Szymborska, Amore a prima vista,
Piccola Biblioteca Adelphi 2017 a cura di di Pietro Marchesani

venerdì 5 luglio 2019

Un mondiale nomadismo è cominciato nel buio

                                         
fotografia di Dmitry Donskoy
                                                                   


                                                                                                                  di Marina Cvetaeva

Un mondiale nomadismo è cominciato nel buio:

sono gli alberi che vagano sulla terra notturna.

Sono i grappoli che fermentano in vino dorato,

sono le stelle che di casa in casa peregrinano,

sono i fiumi che il cammino cominciano a ritroso!

E io ho voglia di venire da te sul petto - a dormire.



                                                                                                                    14 gennaio 1917




Ovunque è turbamento in quel lontano inverno del 1917: gli alberi si muovono nella notte e i fiumi scorrono a ritroso. Le stelle nel cielo vanno vagando come in un pellegrinaggio senza meta e i grappoli in inverno si mutano in vino dorato. Allo sconvolgimento della natura corrisponde quello della storia: sono quelli i mesi in cui l'Europa è ferita da una guerra che ne cambierà per sempre il destino e la Russia è attraversata da una violenza che travolge tutto, furiosamente.

... un mondiale nomadismo

Nulla è più al suo posto, ogni ordine tradizionale sembra vacillare, tutto si muove senza una direzione, una meta.

C'è un luogo tuttavia verso il quale Marina Cvetaeva vuole dirigersi, incurante di tutto quello che accade attorno a lei. E' il petto del suo amore, l'unico posto dove posare il capo, il solo dove poter abbandonarsi. Forse non sarà abbastanza per sfuggire alla forza devastatrice che agita la storia, ma è lì che lei vuole essere, in nessun altro luogo vale la pena dimorare.

E io ho voglia di venire da te sul petto - a dormire...



mercoledì 3 luglio 2019

... incontriamoci là


   
 



             Di là dalle idee, di là da ciò che è giusto e ingiusto, c’è 

un luogo. Incontriamoci là.


                                                                                                       Jalal ad-din Rumi

Abbiamo un appuntamento dice Jalal ad-din Rumi, in un luogo al di là delle idee, al di là del giusto e dell'ingiusto; questa cosa colpisce immediatamente e ci coinvolge in un'atmosfera rarefatta ed evocativa, in un mondo altro, un mondo che immaginiamo (ma qui la parola "immaginazione" rivela il suo privilegio e il suo limite) straordinario e magnifico. Non le idee, né i principi, nemmeno quelli morali consentono l'accesso a tale mondo, che si trova al di là di ciò che la parola e la mente umana possono definire. 

Il poeta si rivolge ad un tu. Non dice nulla su chi sia: quanti anni ha? come si sono conosciuti? perché non sono insieme? Non lo sappiamo, ma una cosa invece ci è chiara che questo è davvero l'appuntamento che non si deve mancare, per nulla al mondo.

Io lo so che questo tu è la persona che il poeta ama. La chiameremo proprio così l'amata. Lo so che è così perché i programmi, le esigenze di indipendenza, le idee astratte, i giudizi su ciò che è giusto e ciò che non lo è, i valori non negoziabili segnano confini, barriere, limiti, definiscono gli spazi entro i quali accettiamo o rifiutiamo l'intimità. 

Non così l'amore.

C'è un passo del Cantico dei Cantici, al capitolo 5,  che illumina in modo perfetto questa natura dell'amore: l'amata sta dormendo, quando sente fuori dalla porta il suo diletto che bussa e che le dice:

«Aprimi, sorella mia,
mia amica, mia colomba, perfetta mia;
perché il mio capo è bagnato di rugiada,
i miei riccioli di gocce notturne».

Quando il diletto mette la mano nello spiraglio della porta, un fremito la sconvolge:

Mi sono alzata per aprire al mio diletto
e le mie mani stillavano mirra,
fluiva mirra dalle mie dita
sulla maniglia del chiavistello.

Corre infine ad aprire, ma il diletto se n'è andato, è scomparso e l'amata viene meno, lo cerca, ma non lo trova, lo chiama, ma non ha risposta. Allora esce di casa, nel cuore della notte, incurante del giusto e dell'ingiusto, del pudore, della reputazione, come una brava ragazza non farebbe mai...

Mi han trovato le guardie che perlustrano la città;
mi han percosso, mi hanno ferito,
mi han tolto il mantello
le guardie delle mura.


Il mantello nel linguaggio semitico orientale ha un forte valore simbolico. Tra le altre cose poiché proteggeva dal freddo e dal caldo, alcuni brani della Torah obbligavano il creditore a restituirlo qualora lo avesse avuto come pegno per un debito. Insomma è ciò che non si può togliere a un uomo senza violarne la dignità.

Una donna percossa dalle guardie, senza mantello, nella notte ... incamminata al di là delle idee, di là dal giusto e dell'ingiusto verso l'appuntamento più importante della sua vita... è lì che il diletto l'aspetta... 

E' di quel luogo che ci parla il poeta.


Ciò che è vero per l'amore terreno è come il riflesso dell'amore verso Dio: "Bellezza e Amore, d'altra parte, sono due cardini del Sufismo, dove naturalmente si tratta, sotto il velo di metafore e simboli
tratti dal mondo naturale e umano, sempre e soltanto della Bellezza e dell'Amore supremi, cioè dell'unica indicibile Realtà ultima, origine di tutte le realtà sensibili, godibili e dunque dicibili, perché create, finite. (da Persia Mistica, vedi sotto)" 

Se siete interessati ad approfondire qui trovate alcuni spunti interessanti :

Jalal ad-din Rumi (1207-1273), detto il Moulana - il nostro Signore,il Maestro -, è senza dubbio il più grande e il più amato tra i poeti mistici o Sufi persiani.

Il Sufismo (la parola deriva con tutta probabilità da Suf, il rozzo saio di lana che distingueva i primi Sufi) ha alle spalle un'imponente teoria di grandi maestri, poeti mistici, teologi e filosofi. Alcuni maestri fondarono confraternite ancora oggi diffuse in tutto il mondo e con gran numero di adepti. È legata al nome di Rumi la notissima confraternita cosiddetta dei dervisci rotanti a Konya, nell'odierna Turchia. I dervisci, vestiti di bianco, danzano in preghiera, girando in tondo in imitazione del cielo
stellato, accompagnati dalla musica, fino a stordirsi nell'estasi.

Franco Battiato- Dervisci danzanti, 1990-2000 litografia su tavola e fondo oro


Un altro interessante testo dove approfondire la poesia di Rumi:















lunedì 1 luglio 2019

Il mio nome è qualcuno e chiunque

Vanteria di quiete

di  J.L. Borges



Scritture di luce investono l'ombra, più prodigiose di meteore.
L'alta città inconoscibile calpesta la campagna.
Sicuro della mia vita e della mia morte guardo gli ambiziosi e vorrei capirli.
Il loro giorno è avido come il lazo nell'aria
La loro notte è tregua dell'ira nel ferro, pronto ad attaccare.
La mia umanità  sta nel sentire che siamo  voci di una stessa penuria.
Parlano di patria.
La mia patria è un palpito di chitarra, alcuni ritratti e una vecchia spada,
l'orazione evidente del bosco di salici ai tramonti.
Il tempo mi sta vivendo.
Più silenzioso della mia ombra, attraverso la folla della loro innalzata cupidigia.
Essi sono imprescindibili, unici, meritevoli del domani.
Il mio nome è qualcuno e chiunque.
Avanzo con lentezza, come chi viene da tanto lontano che non spera di giungere.