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sabato 27 luglio 2019

Dall'isola di Rodi

Dove comincia un viaggio?


Quando sulla mappa la matita fa un cerchio attorno ad un nome e una voce esclama: "qui!" o quando si chiude la porta di casa e il primo passo è mosso lungo una strada che nessuno può sapere dove porterà?
A volte il viaggio comincia con un rammemorare...

Il mio viaggio è cominciato con Pindaro.

Pindaro VII Olimpica

Per Diagoras di Rodi, pugile


Come chi da mano generosa un calice
ribollente di rugiada di vite
in dono porga
al giovane sposo - e l’alzava brindando
da casa a casa massiccio d’oro, vertice dei beni:
lo splendore della festa
 e il genero onora, tra gli amici
presenti lo fa invidiato per nozze concordi -,
anch’io nettare distillato, omaggio delle Muse,
ai vincitori invio dolce frutto della mente,
e m’ingrazio
chi in Olimpia e in Pito
 prevalse. Felice chi parole di lode avvolgono:
ora l’uno ora l’altro protegge
 la Grazia feconda, spesso,
con cetra soave e flauto di mille voci.
Ed ecco al suono d’entrambi
 io con Diagóras venni, a cantare
la figlia marina d’Aphrodíte,
 Rhódos sposa del Sole:
e che il gigante dritto allo scontro,
 l’uomo incoronato sull’Alpheiós
e a Kastalía
io lodi in premio alla lotta, e con lui
 il padre Damágetos caro a Díke!
Vicino al rostro dell’Asia immensa un’isola
di tre città abitano con lancieri argivi.
Dall’inizio per essi, da Tlapólemos,
come pubblico bando volentieri io drizzo
una storia comune a loro,
stirpe possente di Heraklês. Ché Zeus
 vantano padre e sono per via materna
Amyntorídai da Astydámeia.
 Ma le menti degli uomini errori
infiniti assediano; né è dato trovare
ciò ch’è meglio per noi oggi e così alla fine.
In Tirinto infatti il fratello spurio
di Alkména,
Likýmnios giunto dal talamo di Midéa,
 colpì con mazza di duro olivo un giorno,
e l’uccise, il fondatore di questa
terra, irato: i sussulti dell’anima
travolgono anche il saggio. E venne a sondare il dio.
E a lui il Chiomadoro
 dal santurario odoroso disse uno stuolo
di navi dal lido lernèo
 dritto alla dimora cinta dal mare,
dove un tempo il re degli dèi inondava
 di aurei fiocchi la città,
e per l’arte di Héphaistos
con scure forgiata nel bronzo
 Atena sul capo del padre
balzando urlò con voce strapotente.
Ne tremarono il Cielo e la Terra madre.
Allora il dio Hyperionídes, luce ai mortali,
prescrisse ai figli d’adempiere
un dovere imminente:
primi alla dea ponessero
 un altare cospicuo e sacro rito facendo
scaldassero il cuore al padre
 e alla figlia lancia di tuono. Efficacia
e gioie largisce all’uomo la cautela del preveggente.
Ma cala non vista una nube d’oblio
e svia dalla mente il dritto
corso delle cose.
Perché salirono sì, ma non con seme
 di fiamma ardente: E con spenti sacrificî
fondarono il tempio sulla rocca.
 Una nuvola bionda gli addusse,
piovve abbondante oro: accordò la Glaukôpis
che in ogni arte valessero
 con mani eccellenti sui mortali.
Le vie recavano opere
 pari a viventi in cammino,
e fu alta la gloria. Nell’abile anche un’arte
 superiore si mostra onesta.
Dicono antiche storie
degli uomini che, quando la terra
 spartirono Zeus e gli dèi immortali,
invisibile ancora sul liscio mare Rodi
giaceva occulta in abissi salmastri.
Assente lui, di Hélios nessuno indicò la parte:
senza retaggio di terra lasciarono
il puro dio.
Al suo rimbrotto Zeus già estraeva le sorti
 di nuovo. S’oppose il Sole: vedeva,
disse, dentro le grigie acque
 dal fondo crescere un suolo,
terra feconda agli uomini, benigna alle greggi.
Súbito, ingiunge, Láchesis cinta d’oro
stenda le mani e proclami franco il giuramento
grande dei numi,
e col figlio di Krónos accenni:
 sarà suo quel dono per sempre
emerso nell’aria luminosa.
 Si compì il culmine delle parole
accadendo in realtà: sbocciò dal mare umido
l’isola, e la governa il padre
 principio di raggi appuntiti,
signore di cavalli soffianti fuoco.
 Là si congiunse a Rhódos e generò
sette figli dotati dei pensieri
 più destri tra gli uomini
di tempo remoto. Uno di loro Kámiros
generò e Iálysos il maggiore
 e Líndos; ebbe per sé ognuno,
tripartita la terra paterna,
appannaggio di città, sedi dai loro nomi.
Dolce compenso a sciagura pietosa
sta per Tlapólemos guida dei Tirintî -
destino eroico -
una processione pingue d’armenti
 e il giudizio nei premî. Quei fiori Diagóras
cinse due volte, e quattro
 sull’Istmo famoso vincendo,
e a Nemea una volta e un’altra, e in Atene rocciosa.
Lo conobbero il bronzo di Argo e i premî
in Arcadia e a Tebe e le cadenze festive
dei Beoti,
e Pellene: in Egina vinse
 sei volte né altro conto ha in Megara
la stele di pietra. E dunque,
 Zeus padre che regni sui gioghi
dell’Atabýrion, accresci il canto di rito al trionfo
olimpico e l’uomo che pugilando
 incontrò il successo. Dagli favore
e rispetto fra cittadini e stranieri.
 Perché una via nemica d’arroganza
percorre sicuro, ben sa cosa l’animo fermo
 gli insegna da nobili
padri. Non oscurare il seme
comune di Kalliánax:
 con le gioie degli Eratídai ha
anche la città una festa. In un unico istante
ondeggiano venti diversi veloci di qua e di là.

Nella poesia di Pindaro non è agevole addentrarsi per il lettore moderno: non solo per la lingua densa di immagini e espressioni omeriche e di rimandi al mito, che, evocato di continuo, si nasconde e torna a riaffiorare, spesso con salti arditi. Certo anche la profonda discontinuità che separa la nostra visione del mondo da quella della Grecia arcaica, l'orizzonte e la fonte di ispirazione del poeta di Cinocefale, contribuisce ad approfondire la sensazione di una distanza forse incolmabile.

C'è qualcosa di più.

Pindaro è noto soprattutto come poeta di epinici (poesie scritte per elogiare il vincitore di una gara, di una battaglia, ecc.), una poesia su commissione e ben remunerata, poco rispondente alla moderna concezione del poetico come ispirazione libera e priva da ogni vincolo di interesse, puro fluire della soggettività dell'autore.

Appena ci soffermiamo a contemplare il mondo interiore della Grecia arcaica, tuttavia, l'impressione di una poesia per così dire 'cortigiana' è destinata a dissolversi.

I Greci avevano elaborato una loro particolare etica, fondata sull'accettazione della morte come segno distintivo dell'umano: gli uomini non esistono se non come mortali (del resto thnetoi - mortali - è il nome comune usato in greco per indicare la stirpe degli uomini). La morte dunque è il limite che definisce allo stesso tempo le possibilità  e il confine entro i quali si svolge l'esperienza della vita.
 L'aldilà è di questa solo una pallida e triste imitazione, una umbratile sopravvivenza malinconica.

Questa profonda consapevolezza suscita nella Grecia arcaica un ammirevole amore per la vita, per l'inesausta tensione verso la perfezione del gesto dell'atleta, verso la gloria dell'azione eroica del guerriero, verso l'armonia dell'opera d'arte. Nella composta meditazione sulla precarietà della vita umana, che riluce nello spazio breve della bellezza della gioventù, l'uomo greco non cerca consolazioni né si compiace del rimpianto.

L'atleta, il guerriero, il poeta trovano nella vittoria il sigillo della propria presenza nel mondo, all'inevitabile trascorrere delle cose essi oppongono un gesto - l'incoronazione con le foglie di alloro - che riscatta tutte le fatiche, tutto il sudore, tutte le ferite e le sofferenze, persino la sventura che sempre incombe sulle sorti dell'uomo.

Accanto al gesto di porre sul capo del vincitore una corona ve n'è un altro senza il quale quanto abbiamo ora descritto rimarrebbe solo un evento felice come altri che capitano nelle vite dei mortali: il canto del poeta.

Se infatti l'incoronazione eleva il vincitore ad un rango quasi divino, sottraendolo alla sua evanescenza, solo la parola del poeta, intessendo le vicende umane a quelle degli dei e ai racconti del mito, fa sì che questa celebrazione, rigorosamente scandita dal ritmo dei versi cantati dal coro, diventi infine memoria collettiva, patrimonio pubblico, esemplare ammonimento per gli uomini tutti.

L'arte del poeta in tal modo gareggia anch'essa una sua
commovente e drammatica lotta per gettare una luce folgorante sulla bellezza effimera delle imprese dei mortali.

La poesia dunque contende con la morte stessa.


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